Fede e ragione
Diceva Kant che la ragione è un'isola piccolissima nell'oceano dell'irrazionale
Ho letto la sua recensione del libro di Peter Berger Questioni di fede, e i suoi ragionamenti riguardo il nocciolo del libro non mi persuadono per niente. Non ho letto il libro, per cui non so valutare le tesi e le argomentazioni dell'autore in questione. Ma quelle da lei dimostrate con i suoi tipici ragionamenti di ateo mi lasciano piuttosto perplessa, perché se è vero che noi occidentali siamo cresciuti nella logica del senso storico e religioso che prevede un errore, una riparazione e una salvezza è anche vero che il non senso dell'ateismo, nella cui dimensione lei si riconosce, è sempre esistito dentro ogni tempo storico e primitivo, in quanto esistente nella nostra psicologia, ed è quella parte della nostra mente, direi del nostro ego, che è tentata di fare a meno dell'altro, di ogni causa precedente e riconosce, come nel mito di Narciso, solo la propria esistenza. Non c'è periodo storico, fuori e dentro l'Occidente, che non abbia contemplato l'ateismo e quindi la ciclicità del tempo, l'eterno ritorno. La realtà umana (e del mondo) invece credo che contenga in sé paradossi irrisolvibili con i mezzi della logica, dell'intelletto e della tecnica e soltanto quella fame di fede di cui parlava la Weil possa comprenderli, assimilarli, superarli. La dimensione religiosa è essenzialmente afasia, non si può parlarne, non si può pensarla: sappiamo solo che esiste, là, qui, in qualche luogo per ora inaccessibile. La filosofia, quella sì che tenta con grande rispetto e umiltà di orientarsi dentro gli enormi paradossi dell'esistenza e perciò mi stupisce che un filosofo, quale lei è, parli della tecnica come di un'entità a sé stante, un mostro cresciuto dal nulla in questi ultimi secoli, quando la tecnica è solo uno degli aspetti dell'esistenza. La natura stessa si serve di questa con i suoi procedimenti per i propri innumerevoli e meravigliosi prodotti, fra i quali l'uomo, il suo perfetto corpo visto come macchina: ed ecco uno dei tanti paradossi. Ebbene, quanto è macchina l'uomo e quanto è "altro?". È un vero e proprio koan e colui che senza una grande sapienza del cuore venisse in mente di dare una risposta, si dovrebbe aspettare una legnata dal proprio maestro spirituale. Comunque il suo discorso è stato per me molto stimolante. La ringrazio. Paola Bastiani, omeroway@virgilio.it
A me non piace la definizione di "ateo" perché ad affibbiarmela sono coloro che credono in Dio e guardano il mondo esclusivamente dal loro punto di vista, dividendolo in quanti credono o non credono. In questa etichettatura c'è tutta la prepotenza del loro schema mentale, che fa della loro fede la discriminante tra gli uomini. Prima della nascita della ragione, che è cosa recente essendo nata 2500 anni fa con la filosofia (la quale, per distinguersi dalla teologia ha sempre ragionato "come se Dio non fosse"), la religione era un tentativo di reperire dei nessi causali per difendersi dall'imprevedibile e dall'ignoto che ha sempre terrorizzato l'uomo e generato angoscia. Una condizione, spiegano Heidegger e Freud, che, non attutita o ridotta, avrebbe paralizzato l'umanità e impedito la sua evoluzione. Attribuendo a Dio o agli dèi quanto vi era nel mondo di enigmatico e inspiegabile, le religioni hanno offerto un abbozzo di principio di causalità, che riduce l'angoscia perché consente di visualizzare l'imprevedibile come l'effetto di una causa divina che si poteva controllare o con le preghiere o con i sacrifici. Con l'avvento della filosofia e poi della scienza lo spazio della religione, come si può constatare in Occidente, si è ridotto, non solo perché col sapere l'uomo può ottenere da sé quel che un tempo era costretto a implorare a un dio, ma perché la mentalità tecnico-scientifica, che conosce solo il tempo progettuale, ha scardinato nella psiche dell'uomo che vive nell'età della tecnica la dimensione deltempo escatologico che alimenta ogni vissuto religioso. Chiamo "escatologico" quel tempo in cui alla fine (éschaton) si realizza ciò che all'inizio era stato annunciato, per cui il tempo non è più un "ciclo" dove si succedono le stagioni in un'eterna ripetizione, ma diventa "storia", ossia tempo fornito di "senso". Ne consegue che la ricerca di senso appartiene solo a coloro che concepiscono il tempo iscritto in un disegno, che per la religione è un disegno di salvezza. La tecnica non abita il tempo escatologico, ma quello "progettuale", dove qualcosa appare come un mezzo se c'è in vista uno scopo. E uno scopo è tale, e non è un sogno, se a disposizione ci sono i mezzi per realizzarlo. Ciò determina nella psiche umana una contrazione del tempo tra il recente passato (dove sono reperibili i mezzi) e l'immediato futuro (dove sono in vista gli scopi). Questa contrazione del tempo, che tutti noi viviamo nell'età della tecnica, non lascia più spazio alla dimensione escatologica in cui è la radice di ogni dimensione religiosa. E siccome la psiche non è immutabile, ma, come ci ricordano Freud e Jung, è "storica" e subisce l'influsso del tempo, nell'età della tecnica la nostra psiche rischia di non disporre più di dimensioni simboliche capaci di ospitare e di abitare dimensioni trascendenti. In questo senso dico che la tecnica corrode anche il trono di Dio. Quanto poi a una ragione senza fede, mi pare che ciò rientri nello statuto della ragione, che, come ci ricorda Kant, è un'isola piccolissima nell'oceano dell'irrazionale. Viste le sue dimensioni, mi conceda di essere tra quelli che si impegnano nella sua difesa.
Umberto Galimberti la Repubblica 17.6.06