Fascismi. Il Paese dell’odio
Ieri è successo a Parma, a Emmanuel Bonsu, picchiato da sette vigili urbani per
un sospetto, e nel verbale invece del suo nome hanno scritto «negro». È successo
nei giorni scorsi a Milano, a Castelvolturno, a Monza, a Cosenza, ancora a
Parma, e in tanti luoghi di cui non abbiamo notizia. È successo che gli
invisibili - disabili, negri, prostitute, lavoratori in nero di ogni etnia - li
vediamo in cronaca, picchiati espulsi uccisi. Ma questo non è un Paese razzista,
ci dicono e ci diciamo.
Proviamo a partire da lontano, forse può aiutarci a capire. Nei campi di
sterminio nazi-fascisti furono soppressi circa 13 milioni (milioni!) di persone.
Tredici milioni vuol dire un pezzo non irrilevante di popolazione mondiale: ci
vogliono Austria e Danimarca sommate insieme, per arrivare a questo numero, o
due terzi dei cittadini australiani. Sei milioni circa erano ebrei. Sette
milioni circa erano antifascisti e antinazisti, zingari e disabili, omosessuali
e comunisti, e perfino coppie di gemelli, un’eccezione della natura
particolarmente cara a Mengele, il mostruoso dottor Morte. Tredici milioni di
“diversi” per scelta o per destino, accomunati dall’essere considerati meno di
niente, un agglomerato di rifiuti, un’immondizia da eliminare, in quanto tali da
riciclare per le loro parti preziose: l’oro delle protesi dentarie per farne
lingotti, o i grassi umani per farne sapone, tanto per fare qualche esempio.
Come le lattine d’alluminio, come il vetro, come la carta. Intorno a quei 13
milioni, un numero così grande da essere quasi inconcepibile, un’Europa cieca e
muta.
Ad oggi, e malgrado ogni negazionismo, il nucleo più integrale di razzismo
è questo: le persone diventano meno di niente. I diversi prima diventano
invisibili, inesistenti, privi di diritti, e solo dopo vengono in un modo o
nell’altro (ce ne sono tanti!) eliminati, in un sogno folle ma frequente di
omogeneità sociale.
Sono partita da lontano, ma tutto questo ci riguarda: oggi, e non solo per la
memoria che qualcuno di noi ancora ne porta. Per alcuni (pochi) decenni
l’integrazione delle e fra le diversità è stata il leit-motiv dei movimenti più
avanzati: dalla scuola alla psichiatria, dalla religiosità più avanzata
all’emigrazione italiana all’estero. Numeri solo un po’ meno milionari anche
qui, ma sembrava normale, ed era possibile. «Diverso è bello», si diceva, pur
con la coscienza delle difficoltà. Si diceva “integrazione” per significare che
senza questo o quel pezzo, questa o quella diversità, il corpo sociale non è
intero, è deprivato.
Mi chiedo dove i saperi legati a tutte queste esperienze siano andati a finire.
Certo negli insegnanti di sostegno disperati e disperate che (come nella lettera
a Cancrini pubblicata di recente su queste pagine) vedono svanire il lavoro di
tanti anni grazie alla sbrigativa ministra Gelmini. Certo nei timori di tanti
psichiatri, utenti, famigliari, cooperative e associazioni che aspettano con
grande preoccupazione i provvedimenti annunciati da Berlusconi nel programma
elettorale in tema di trattamenti sanitari obbligatori, questione che porta con
sé idee sulla riforma della 180 che non possono che spaventare, tanto più se in
coppia con la privatizzazione della salute minacciata in questi giorni. Certo
non dimenticano gli appartenenti a tante confessioni, che ancora e ostinatamente
cercano l’incontro e il dialogo con l’Altro ma sono ridotti in piccoli gruppi,
la cui voce è difficile far sentire. Né dimenticano molteplici strutture della
Chiesa cattolica, che su più fronti ha dato conto delle proprie ansie e
preoccupazioni. Non dimenticano le operatrici e gli operatori di strada, siano
quelli coinvolti nella prostituzione, siano quelli che provano a portare a
scuola chi è risucchiato dalle mafie.
Ma il Paese, l’Italia nel suo complesso, ciascuno di noi “normali”,
cosa ricorda? E, soprattutto, cosa “vede”? Da ogni parte arrivano richieste
perché chi è scomodo diventi anche invisibile: le prostitute non devono più
farsi vedere per strada, i disabili se non vanno a scuola è meglio, i matti
risultano pericolosi come i magistrati e viceversa, i migranti hanno il dovere
di farci vivere meglio e non il diritto di affacciarsi ai diritti, le preghiere
dei musulmani vanno bene purché non ingombrino, e via cancellando.
Tutto questo, tutto insieme, è razzismo. E alberga in ciascuno di noi, anche se
ci piacerebbe credere che non è così. Ogni volta in cui ci sembra che il singolo
problema - disabilità o Islam, colore della pelle o follia - non ci riguardi, e
che dunque possiamo tacere, non opporci, non scendere in strada, rinunciare,
quella che avanza è l’idea che si possano tagliar via singoli pezzi di società
senza che questo sia una perdita per tutti. Il silenzio uccide l’integrazione,
uccide gli invisibili, e ci uccide anche dentro.
Così come, quando c’è un vuoto, qualcosa interviene sempre a riempirlo, così nel
vuoto di gesti e di parole maturano altri gesti, altre parole. Qualche anno fa,
ho studiato gli archivi dell’ufficio per la difesa della razza istituito dal
fascismo. Era in gran parte un tremendo elenco di piccole denunce: il tale
aveva, in spregio della legge allora vigente, una domestica non ebrea, un altro
aveva una radio, strumento anch’esso proibito. Piccole cose, nel piccolo mondo
ottuso che dava vita e vigore al fascismo. Piccole e grandi invidie, piccole e
grandi paure, piccole e grandi delazioni, il frutto velenoso di egoismi
ristretti ha aperto la strada allo sterminio, maturato grazie ad una
irresponsabilità e ad un silenzio collettivi. Irresponsabilità e silenzio più
gravi in altre parti d’Europa ma che hanno largamente riguardato anche degli
italiani, con troppa facilità e continuità messisi al sicuro sotto la coperta
calda degli “italiani brava gente”.
Credo che gli italiani siano tuttora, in larga misura, brava gente. Gente con il
cuore in mano, soprattutto se il portafoglio è ben custodito. Ma la smemoratezza
diffusa a larghe mani, il portafoglio mai come ora in pericolo, i rischi reali e
quelli artatamente innescati, il disfacimento progressivo dei legami di
solidarietà, la precarietà di una politica incapace di tenere insieme tutti i
fili senza farli aggrovigliare, mi fa temere che sempre più siamo e saremo come
le famose tre scimmiette: non vedere, non sentire, non parlare, lasciando che
qualcun altro se ne occupi, e che gli invisibili affondino nel loro mare (e non
solo in senso figurato, come sappiamo). Convinti di salvarci aggrappandoci a
privilegi che ci sembrano garantiti e ci fanno sentire al riparo: la
cittadinanza, il colore della pelle, la cultura, le disponibilità economiche. Ma
nessuno è garantito per sempre, quando i pezzi vanno via senza posa: nel
silenzio sempre più cupo alla fine - come scriveva Brecht - entrerò fra gli
invisibili anche io, anche tu, e non ci sarà più nessuno a gridare.
Per ricominciare a vedere gli invisibili con occhio partecipe, fuori
dal silenzio, per non essere razzisti nel nostro fondo, c’è bisogno di un grande
salto culturale, di quelli difficili. C’è bisogno che ciascuno riparta da sé,
dalle proprie personali scimmiette. Perché, come diceva don Milani, “mi
riguarda” è il contrario di “me ne frego”: concetto da tenere a mente, in questi
tempi di fascismo rinascente. Quando si tende a dimenticare che i problemi li
abbiamo tutti, ma uscirne ciascuno per proprio conto è egoismo sterile, mentre
uscirne tutte e tutti insieme è Politica. Quella con la P maiuscola.
Clara Sereni
l’Unità 1.10.09