Il fardello
dell'uomo israeliano
Non molto tempo prima dell’offensiva contro Gaza, il premier israeliano Ehud
Olmert pose a se
stesso e al proprio popolo una domanda gelida, senza precedenti. Una domanda non
concernente i
valori e la morale, ma la pura utilità.
Era il 29 settembre, e in un’intervista a Yedioth Ahronoth denunciò quarant’anni
di cecità: quella
d’Israele e la propria. Disse che era arrivato il momento, non rinviabile, in
cui lo Stato doveva
mutare natura e scegliere come vivere e sopravvivere: se guerreggiando in
permanenza, o cercando
la pace coi vicini.
Non negò le colpe di Hamas e di molti Stati arabi, ma invitò i connazionali a
concentrarsi sul
«proprio fardello di colpa». Il fardello consisteva negli automatismi del
pensiero militarizzato: «Gli
sforzi di un primo ministro devono puntare alla pace o costantemente aspirare a
rendere il paese più
forte, più forte, più forte, con l’obiettivo di vincere una guerra?».
Aggiunse che personalmente non ne poteva più di leggere i rapporti dei propri
generali: «Possibile
che non abbiano imparato assolutamente nulla? Per loro esistono solo i carri
armati e la terra, il
controllo dei territori e i territori controllati, la conquista di questa e
quella collina. Tutte cose senza
valore». L’unico valore da ritrovare era la pace, perseguibile a un’unica
condizione: liquidando le
colonie, restituendo «quasi tutti se non tutti i territori», dando ai
palestinesi «l’equivalente di quel
che Israele terrà per sé». Alla Siria andava reso il Golan, ai palestinesi parte
di Gerusalemme. Così
parlò il primo ministro d’Israele, non un preconcetto nemico dello Stato ebraico
e del suo popolo.
Da queste parole sembra passato un tempo enorme e oggi non sono che fumo e fame
di vento, come
nel Qohèlet. Allora l’opportunità era imperativa, vicina. Nemmeno tre mesi dopo,
la guerra è
decretata «senza alternative». Allora Olmert pareva ascoltare gli intellettuali
contrari alle soluzioni
belliche: da Tom Segev a Gideon Levy a Abraham Yehoshua che tra i primi, su La
Stampa, ha
invocato negli ultimi giorni la tregua. Tre mesi dopo il pensiero militarizzato
si riaccende e il
dissenso si dirada. Non restano che Segev, Gideon Levy, Yossi Sarid. Perfino
Yehoshua considera
vana una reazione proporzionata ai missili di Hamas «perché la capacità di
sopportazione e
resistenza dei palestinesi è infinitamente superiore a quella degli israeliani».
La domanda gelida di
Olmert, a settembre, era la seguente e resta valida: «Che faremo, dopo aver
vinto una guerra?
Pagheremo prezzi pesanti e dopo averli pagati dovremo dire all’avversario:
cominciamo un
negoziato».
Secondo Olmert, Israele era a un bivio: «Per quarant’anni abbiamo rifiutato di
guardare la realtà con
occhi aperti (...). Abbiamo perso il senso delle proporzioni».
Non poche cose s’intuiscono, anche se ai giornalisti è vietato il teatro di
guerra. Quel paesaggio che
da giorni vediamo sugli schermi, alle spalle dei reporter, è praticamente tutta
Gaza: non più di 40
chilometri di lunghezza, 9,7 chilometri di profondità. Con 360 chilometri
quadrati, Gaza è più
piccola di Roma e abitata da 1,5 milioni di palestinesi.
Inevitabile che in un lembo sì minuscolo i civili abbattuti siano tanti
(metà degli uccisi, secondo
alcuni). Inevitabile chiedersi se i governanti israeliani non persistano nella
cecità, quando negano
che la loro guerra sia contro i civili e un disastro umanitario.
Israele ha serie ragioni da accampare: i missili di Hamas sulle città del Sud,
da anni e malgrado il
ritiro unilaterale voluto da Sharon nel 2005, generano angoscia e collera
indicibile, anche se i morti
non sono molti. Ma ci sono cose non dette, in chi giustamente s’indigna: cose
che questi ultimi
nascondono a se stessi, dure da ammettere, non vere.
Non è vero, innanzitutto, che lo Stato israeliano reagisca senza voler
penalizzare i civili.
Bersagliando i luoghi da cui partono i missili di Hamas, esso sa che subito
Hamas e i missili si
sposteranno altrove, e che in quei luoghi non resteranno che i civili: vecchi,
donne, bambini. Lo
dicono essi stessi, ai giornalisti: «Quando parte un missile vicino alle nostre
case, scuole, moschee,
sappiamo che non Hamas sarà colpito, ma noi». La domanda è tremenda: come
spiegare agli
abitanti di Gaza la differenza con rappresaglie che, come a Marzabotto,
sacrificarono centinaia di
civili al posto di introvabili partigiani?
Secondo: non è vero che non esistessero alternative all’attacco aereo e
terrestre. Se la tregua con
Hamas non ha funzionato, è perché mai iniziò veramente. Perché i coloni
avevano evacuato la
Striscia ma Israele manteneva il controllo dei cieli, del mare, dei confini. Il
cessate il fuoco
negoziato a giugno prevedeva la fine del lancio di missili palestinesi ma anche
la rimozione del
blocco di Gaza, imputabile a Israele. I missili son diminuiti, anche se non
scomparsi: ne cadevano a
centinaia tra maggio e giugno, ne son caduti meno di 20 nei quattro mesi
successivi. Nulla invece è
accaduto per il blocco.
Questo è il «fardello di colpe» israeliane, non piccolo, e
ancora una volta la geografia aiuta a capire.
Dice il governo d’Israele che dal 2005 Gaza appartiene ai palestinesi, ma che
non è servito a nulla.
È falso anche questo, perché Gaza essendo priva di autonomia non è messa alla
prova. Non le
manca solo il controllo dell’aria, del mare. Ci sono sei punti di passaggio che
dovrebbero consentire
il transito di cibo, acqua, elettricità, uomini (lungo la frontiera con Israele
il valico Erez a Nord, i
valichi Nahal Oz, Karni, Kissufim, Sufa a Est; ai confini con l’Egitto il valico
Rafah) e tutti sono
chiusi. Per una briciola come Gaza è impossibile vivere senza rapporti coll’esterno,
ed essi sono
bloccati da quando Hamas ha vinto le elezioni e rotto con Fatah. Anche in tal
caso un’intera
popolazione paga per i politici, e quando il cardinale Martino parla di campo di
concentramento
(altri parlano di prigione a cielo aperto) non s’allontana dai fatti. I tunnel
servono a contrabbandare
armi, è vero. Ma anche a trasportare cibo, medicine, pezzi industriali di
ricambio. Il disastro
umanitario a Gaza non comincia oggi. E quel milione e mezzo è lì perché
cacciatovi dall’esercito
israeliano nel ’48.
La punizione è parola chiave, in numerose guerre israeliane. Ma la
punizione in massa dei civili non punisce in realtà nessuno, e accresce ire
omicide nei contemporanei e nei discendenti. È una sorta di vendetta esibita. È
guerra terapeutica che libera da inibizioni morali, guerra fatta per roteare gli
occhi, scrive Yossi Sarid (Haaretz, 9 gennaio). È non solo feroce, ma vana.
I missili di Hamas
continuano a colpire e hanno addirittura allungato la gittata: ormai colpiscono
Beer Sheva (36
chilometri dalla centrale atomica di Dimona) e la base di Tel Nof (27 chilometri
da Tel Aviv).
Gaza e Cisgiordania sono più che mai interdipendenti. Quel che accade in
Cisgiordania ha pesato
amaramente su Gaza, e pesa ancora. In questo caso sì: non c’è alternativa alla
decolonizzazione e al
ritiro. Anche Israele, come tanti imperi, deve passare di qui. Deve smettere di
separare i teatri
d’azione: di edificare nuove colonie ogni volta che negozia o ogni volta che
guerreggia su altrifronti, in Libano o a Gaza. È quello che teme anche oggi Dror
Etkes, coordinatore dell’associazione israeliana Yesh Din (volontari per i
diritti umani): «Posso certificare che proprio in queste ore stanno spianando
terre in Cisgiordania per una nuova colonia presso Etz Efraim, e per un
avamposto presso Kedumim». In un libro di Idith Zertal e Akiva Eldar (Lords of
the Land, New
York 2007) è scritto che la pace è irraggiungibile se non si riconosce che ogni
singola colonia, e non
solo i cosiddetti avamposti illegali, viola la legge internazionale; se non ci
si spoglia dell’ossessione
delle armi e delle terre idolatrate, che Olmert stesso ha denunciato poche
settimane fa.
Barbara Spinelli La Stampa 11
gennaio 2009