Il fantasma necessario
del “disfattismo”
Disfattismo: la parola appare improvvisa in una lingua che l´aveva dimenticata.
Nel «Lessico di frequenza della lingua italiana contemporanea» che nel 1971 il
Cnuce di Pisa pubblicò sulla base di un campione di 500.000 parole d´uso tra il
1947 e il 1968 troviamo la parola «disfatta» ma non troviamo «disfattismo».
C´era voluta la disfatta della guerra per far tacere la voce di un regime
che per vent´anni aveva sistematicamente fatto uso dell´accusa di disfattismo.
E infatti basta varcare il confine del 1945 per trovare un uso
sistematico di quell´accusa. Non sono più molti oggi gli italiani che l´hanno
ascoltata nei raduni oceanici del regime fascista o gridata da una voce
stentorea attraverso la radio. E solo l´ignoranza diffusa della nostra storia
e la mancanza di una cultura politica degna di questo nome spiega perché manchi
oggi una capacità collettiva del nostro paese di riconoscere l´apparizione di un
termine chiave della nostra storia novecentesca . Il mondo è cambiato, la
società italiana è oggi sideralmente lontana nei consumi e nello stile di vita
da quella dei tempi del primo Cavaliere, i mezzi di comunicazione sono dotati di
un´efficienza e di una capillarità allora inimmaginabili. Ma quella parola che
affiora nel linguaggio del presidente del Consiglio è come una macchina del
tempo. Di più , è un marcatore genetico. Ci riporta agli anni venti del secolo
scorso. Svela il binario obbligato su cui corre il treno dell´avventura politica
oggi in atto. Contro il disfattismo dei socialisti e la debolezza dei liberali,
responsabili di dividere il paese e di criticare chi aveva voluto l´ingresso in
guerra, Benito Mussolini pronunziò un celebre discorso il 3 aprile 1921 nel
teatro comunale di Bologna: l´attacco era fatto in nome di una «stirpe ariana e
mediterranea» da parte di un capo che chiamava a raccolta contro il nemico
interno. Il filo dell´attacco al disfattismo non si interruppe qui. Fu il leit
motiv della propaganda del regime.
Se
rievochiamo queste vecchie cose non è per tornare sulla questione generale se
quello che si presentò anni fa come il «nuovo che avanza» sia in realtà qualcosa
di molto vecchio, se il berlusconismo sia classificabile come fascismo.
Quello che si presenta è una nuova declinazione di qualcosa che appartiene alle
viscere profonde della storia italiana, alle magagne della nostra società, alle
questioni non risolte nel rapporto tra gli italiani e il passato del paese.
E´ il linguaggio del leader a svelare che il regime che giorno dopo giorno
avanza nel nostro paese tende a riproporre qualcosa che l´Italia ha già
conosciuto. Il disfattismo fu per il regime fascista un fantasma
necessario, continuamente evocato, il responsabile a cui imputare le difficoltà
e gli insuccessi. La voce del Capo si alzava non tanto per denunziare le trame
dei disfattisti di professione, quel pugno di antifascisti «soli, solissimi»,
come ha scritto Vittorio Foa. Per loro, per seguirne i passi, in Italia e
all´estero, per eliminarli all´occorrenza, bastavano l´Ovra e i sicari. No: il
disfattismo era per il regime il nemico per definizione, l´unico nemico che
potesse minacciare un sistema in cui il Capo doveva realizzare l´ideale supremo
della democrazia organica, della fusione mistica del popolo nel leader. E tanto
più insistente fu la campagna contro il disfattismo quanto più in profondità
penetrava l´adesione collettiva al regime, quanto più generalizzato fu il
consenso.
Consenso: questa è la parola che figura nel titolo di un volume della biografia
di Mussolini scritta da Renzo De Felice. Da lì data la sconfessione di una falsa
immagine della nostra storia. La favola bella che fu raccontata dopo la
Liberazione all´Italia che si scopriva insieme sconfitta e vittoriosa fu quella
di un antifascismo originario e diffuso che era sfociato naturalmente nella
Resistenza. Oggi sappiamo che non era vero. Sappiamo che gli italiani
erano stati profondamente corrotti dal regime fascista. La corruzione era
consistita proprio nella continua denunzia del disfattismo, nella costruzione
passo dopo passo di un sistema di unità organica tra popolo e capo che
permettesse al capo di riassumere ed esprimere i bisogni del popolo, di
rispondere a ciò che la gente voleva, al di là di ogni mediazione. In
fondo, possiamo parlare del fascismo come di una forma speciale di democrazia:
una democrazia che eliminava le mediazioni faticose dei sistemi rappresentativi
nel momento stesso in cui cancellava le barriere che impedivano al potere del
Capo di operare. Era per eliminare il disfattismo che bisognava sostituire
la voce del regime alle discordanti voci della libera stampa e trasformare le
istituzioni di una monarchia parlamentare in canali di unione organicistica tra
il Capo e il suo popolo. E quando, con i Patti Lateranensi, anche la
Chiesa dette il suo fondamentale contributo al pieno dispiegarsi di una
saldatura completa tra il paese e «l´uomo della Provvidenza» la lotta al
disfattismo fu coronata da due provvedimenti emblematici: il giuramento di
fedeltà dei professori e la riapertura del tesseramento perché tutti potessero
entrare in un partito che non era più una parte ma il tutto. Fu allora che
almeno un italiano parlò di un processo di corruzione che stava minacciando
tutti: un processo che poteva e doveva essere contrastato. Leone Ginzburg
sostenne che non si dovevano condannare gli italiani che per ragioni di
necessità avevano chiesto quella tessera, ma bisognava incoraggiarli a non fare
altri passi sul terreno della corruzione.
Oggi il discorso sulla corruzione degli italiani è di tipo diverso ma non meno
grave. La saldatura tra popolo e leader si nutre del progressivo svuotamento
dell´etica civile, fatto di leggi e di decreti di breve e brevissimo respiro, di
una continua aggressione alle istituzioni rappresentative, alla divisione dei
poteri dello Stato, alle istituzioni giudiziarie e alla legalità. Alla
violenza fascista si è sostituita la persuasione di un abile management delle
emozioni collettive e una sostituzione dell´evasione e del sogno alla durezza
dell´irrreggimentazione. Ma l´esito è identico: si chiama corruzione e
affonda le radici in un vuoto di memoria e di cultura civile. Se il
consenso massiccio della popolazione al regime di Mussolini è una verità storica
acquisita, questa verità non ha operato nel senso giusto, non ha spinto le
istituzioni della Repubblica e la coscienza degli italiani a fare i conti con la
nostra storia con la radicalità e la durezza con cui i tedeschi hanno fatto i
conti col nazismo. Solo tenendo conto di questo si può risolvere l´enigma di un
consenso collettivo appena incrinato da episodi che altrove avrebbero costretto
ogni statista decente a dimettersi. Un paese che dimentica la propria
storia è condannato a ripeterla.
Adriano Prosperi Repubblica 15.6.09