Faccetta nera
Eritrea-Etiopia atroci conquiste degli italiani
Non c’è nulla di più resistente del mito degli italiani brava gente. Ma gli
storici e i documenti fotografici raccontano torture, repressione feroce e
offese violente alle donne
Turismo sessuale di guerra potremmo titolare questa sezione della mostra che si
è chiusa ieri all’Accademia britannica di Roma. Sono immagini atroci, anche
quando i volti sorridono e la messa in posa ammicca alla presunta «disponibilità
delle donne native». Le etiopi, le eritree che subirono l’occupazione italiana
dal 1935 al 1941.
Sono immagini che fanno parte di una sezione più ampia della mostra «Margini
d’Italia» organizzata da David Forgacs, storico britannico, che per curarla e
raccogliere i materiali ha soggiornato sei mesi ad Addis Abeba, oltre che in
Italia.
In Etiopia Forgacs ha incontrato i vecchi patrioti che combatterono contro gli
italiani, filmato i loro racconti e riprodotto le fotografie che ancora i
combattenti conservano. Si tratta di immagini molto rare, perché i combattenti
africani non avevano macchine fotografiche e la gran parte della documentazione
fu scattata quando, nel 1941 , arrivarono gli inglesi.
Per questo è particolarmente importante il ritratto di Jagema Kelo con un fucile russo, fatto quando Jagema Kelo, figlio di un signore locale, capo di una banda ad ovest di Addis Abeba, che aveva solo quindici anni, aderì alla resistenza e prese il comando di un’unità. «Gli storici italiani, da Angelo Del Boca a Luigi Gorla, a Nicola Labanca hanno raccontato la verità. Ma il mito di ‘italiani brava gente’ è duro a morire. Anche gli italiani che ho incontrato in Etiopia, i discendenti di quelli che erano rimasti nel corno d’Africa, sono convinti che quello italiano fu un colonialismo pacifico, finalizzato a dare un po’ di terra ai contadini. Ma non è vero, fu una guerra violentissima, anche perché la resitenza era forte. Una situazione analoga a quella dell’Afghanistan oggi, con le truppe di occupazione che controllavano le città ma non le campagne. Dopo l’attentato a Graziani, la repressione fu feroce, con migliaia di morti». Ci sono le fotografie, in parte scattate dagli stessi militari italiani, degli impiccati e delle teste mozzate ed esposte appese a un cappio per terrorizzare. C’è l’immagine di un combattente torturato che giace in terra.
C’è la
copertina della “Difesa della razza” che, in modo inquietante, raffigura
un gladio che separa l’effige di un romano da quelle di un ebreo e di un
africano.
Due delle immagini che pubblichiamo fanno parte della raccolta di Luigi Goglia,
ora nel Laboratorio di Ricerca e Documentazione Storica Iconografica dell'Università
di Roma Tre. «Nel porto di Massaua sul Mar Rosso quattro marinai italiani
tengono ferma una giovane eritrea mentre il loro compagno, un marconista della
marina, Mario Fiore, scatta una foto-ricordo. La ragazza ha la testa abbassata
ma è costretta dalle mani che la afferrano a stare in piedi e a mostrare i seni
all’obiettivo. Uno dei marinai tiene in mano la camicia strappata alla
ragazzina. Ci sono anche due uomini eritrei, uno dei quali sorride, stanno a
guardare». Il disagio che proviamo a guardarla 75 anni dopo, spiega Forgacs, è
perché «siamo costretti a vedere la scena dalla posizione del fotografo.
Riceviamo in pieno i sorrisi dei suoi compagni che ci invitano a partecipare al
loro divertimento. Mentre vorremmo identificarci con la sofferenza e il pudore
violato della giovane».
L’immagine con la donna a seno nudo sulla città costruita dagli italiani
combina l’uso del corpo femminile con la “promozione del prodotto”, come le
tecniche pubblicitarie fanno fino ai nostri giorni: «In questa singolare
fantasia sostiene David Forgacs il paesaggio e la donna sono allo stesso tempo
pronti ad essere presi dal colonizzatore bianco». L’idea della
disponibilità delle «native» si diffondeva in Italia attraverso le canzoni,
come “faccetta nera” e attraverso le cartoline e le fotografie dei militari con
ragazzine nude. Ma «Alcuni testimoni italiani contemporanei ammisero che
molte immagini della ‘donna nativa’ erano false. Molte delle foto-ricordo
scattate dagli italiani erano di prostitute di città».
Alla mostra si è affiancato un convegno di due giorni, con sedute plenarie e
seminari. Fra gli altri abbiamo ascoltato l’intervento di Nicola Labanca che ha
presentato i testi del “diritto coloniale” in cui si stabiliscono le norme di
segregazione nei confronti dei «sudditi» africani distinti dai «cittadini». Il
pane per questi, ad esempio, doveva esserre «abburrato all’80 per cento, al 20".
Iolanda Bufalini l’Unità 10.7.10
Eritrea, prigione a
cielo aperto in guerra da vent’anni
Asmara. Attraversano di notte con i miseri fagotti la mai definita frontiera con
l’Etiopia o i valichi desertici che sfociano in Sudan. Migliaia di profughi
rischiano ogni anno la vita per fuggire dall’Eritrea, che secondo Human
Rights Watch è diventata una gigantesca prigione a cielo aperto. Proseguono
a tentoni, taglieggiati dagli sciacalli delle migrazioni clandestine, verso il
miraggio dell’Europa. Rimanendo quasi sempre incastrati (come i protagonisti
delle recenti, drammatiche cronache) nei lager-trappola della Libia. Ma le fughe
proseguono ininterrottamente. Per chi ha coraggio, la percezione dell’altissimo
rischio è compensata dalla forza della disperazione.
Meglio giocarsi la vita ai dadi che languire in un gigantesco lager dove non si vota mai, finché non si è vecchi è impossibile procurarsi un passaporto, la libertà di parola è duramente repressa e se non si ricevono rimesse dall’estero si vive di stenti con le razioni di cibo fornite dallo Stato. L’Eritrea (quasi sette milioni di abitanti, nove etnie, per oltre la metà musulmani sunniti, per un terzo cristiani ortodossi) è oggi uno dei paesi più isolati del pianeta insieme con la Corea del Nord, la Birmania e il Turkmenistan. Retta con il pugno di ferro dal presidente autocrate Isaias Afewerki, 65 anni, leader del Pfdj (Fronte popolare per la democrazia e giustizia) che ha deviato l’originale ispirazione stalinista verso una miscela di socialismo, islamismo e nazionalismo sfrenato . Stremata da un’economia asfittica appena alleviata dagli aiuti degli organismi internazionali, ma su cui si sono abbattute le sanzioni degli Stati Uniti per l’appoggio in Somalia alle Corti islamiche alleate di al Qaeda.
Dall’anno dell’indipendenza dall’Etiopia (1993), l’Eritrea è stata quasi sempre in guerra. Con lo Yemen per la sovranità di alcune piccole isole, con il Sudan e Gibuti sempre per questioni territoriali, in Somalia tramite l’appoggio all’ala più radicale dei combattenti islamici. All’interno, contro gruppi di guerriglieri nemici di Afewerki. Ma il conflitto dal quale il paese non si è mai del tutto ripreso è stato quello (1998-2000) con l’Etiopia che provocò 70 mila morti. Dopo la pace firmata ad Algeri è rimasto irrisolto il problema dei confini monitorati fino al 2008 da contingenti dell’Onu. Oggi la frontiera è ufficialmente chiusa. Con le truppe che si fronteggiano guardandosi in cagnesco. Asmara non ha relazioni diplomatiche con l’Etiopia. Ad Addis Abeba ha inviato sì un ambasciatore ma presso la sede dell’Unione Africana. Afewerki si ostina a evitare qualsiasi contatto con Meles Zenawi, il premier etiope, a cui era molto legato ai tempi (anni Ottanta) della comune lotta di liberazione contro il dittatore Menghistu Hailé Mariam oggi in esilio nello Zimbabwe. Il clima di mobilitazione militare permanente ha prodotto la leva obbligatoria per chi ha meno di 50 anni. In pratica, quando la patria chiama (e chiama spesso) ogni eritreo deve imbracciare il fucile.
E nel
bilancio dello Stato le spese per gli armamenti sono una delle prime voci. Ad
Asmara, che ospitando piccoli flussi di turismo internazionale conserva una sua
dimensione cosmopolita, si avverte meno il senso di prostrazione. Sì, non
possono passare inosservate le lunghe code davanti ai negozi di Stato. Si
percepisce la carenza di cibo e di carburante, aggravata dal carovita: un chilo
di zucchero non razionato costa al mercato nero un terzo del salario medio
mensile. Ma la capitale, dal punto di vista architettonico un gioiello dell’art
deco, ha un suo volto disteso. La gente è cordiale, neanche nella penuria
rinuncia al rito del caffè macchiato e alla convivialità di tradizione italiana.
E’ nelle desolate campagne, dove il visitatore straniero può accedere solo con
uno speciale permesso, che balzano più all’occhio le difficoltà di un paese dove
il reddito pro capite è di soli 300 dollari l’anno (meno di un dollaro al mese).
Afewerki, nella sua paranoia isolazionista , nutre una vera e propria
idiosincrasia per le interferenze dall’estero. Ha messo al bando quasi tutte le
Ong occidentali ed espelle dal paese qualsiasi straniero risulti sospetto di
voler mettere il naso nelle faccende di Stato.
Ancor più pesante è la mano con il dissenso interno. Le carceri sono piene di oppositori. Sono stati epurati perfino una mezza dozzina di capi della lotta di liberazione che avevano preso le distanze dagli eccessi di repressione. I giornali e le tv sono da anni imbavagliati: il regime li ha statalizzati tutti e nessun organo di stampa può registrare neanche un minimo accenno di critica. Eppure Afewerki, rampollo di una famiglia elitaria di religione cristiano ortodossa ed ex studente di scienze naturali, dopo la presa del potere sembrava intenzionato a dar vita a uno Stato basato sulla giustizia sociale e sull’egualitarismo. Diede impulso fino alla guerra con l’Etiopia a un vasto piano di infrastrutture e introdusse alcuni diritti costituzionali . L’involuzione autoritaria, secondo molti politologi, deriva da un complesso dell’assedio che lo spinge a intravedere complotti ovunque. Mentre la vocazione militare, applicata in nome del patriottismo e della sicurezza nazionale, è anche un modo per nascondere gli immani problemi del paese nell’emergenza bellica. Nelle rare interviste l’autocrate si è difeso dalle accuse dicendo di essere vittima di una propaganda negativa, tendente a mettere in cattiva luce l’Eritrea. I profughi, secondo Afewerki, non fuggirebbero per ragioni politiche ma per cercare altrove migliori opportunità economiche. In Somalia lui non fiancheggia le Corti Islamiche, pensa semplicemente che una soluzione per quel tormentato paese possa venire solo dando rappresentanza a tutte le fazioni in guerra. E pur riconoscendo che l’Eritrea per ragioni contingenti attraversa serie difficoltà economiche, non manca di sottolineare che sanità e scuola sono gratuite, e in più non esistono né criminalità né corruzione. A differenza di tanti altri satrapi africani, Afewerki ci tiene a ostentare una vita molto frugale. Gira (apparentemente) senza scorta, manda i figli alla scuola pubblica, va da solo a comprarsi i vestiti e le scarpe. Osteggiato dagli Usa, ha buone relazioni con Israele da quando (negli anni Novanta) andò a curarsi a Tel Aviv. Ma recentemente ha stretto legami con l’Iran. Un’ambiguità di difficile interpretazione. Che cela probabilmente la necessità di rompere un isolamento letale per l’economia nazionale.
Gianni Perrelli il Fatto 10.7.10
L’Italia ha un debito
con le ex colonie. Di cui rigetta i profughi.
Con la
ricca Libia, accordi da 5 miliardi di dollari. Nulla invece per Eritrea,
Somalia, Etiopia. A questi migranti si nega addirittura il diritto di asilo
secondo il Trattato di Ginevra
L’orrendo frutto dell’accordo sui respingimenti tra Italia e Libia, alla fine,
ha mostrato il suo grado di maturazione spargendo il suo succo amaro sul capo di
quasi tutti gli italiani perché l’arco di coloro che a quell’accordo hanno
prestato il consenso è stato molto più ampio di quanto ci si sarebbe
aspettato. Il messaggio in bottiglia costituito da un sms ha permesso al mondo
di conoscere la fine che fanno gli abitanti dei Paesi subsahariani orientali
respinti dall’Italia senza alcuna selezione tra gli aventi diritto all’asilo e
imprigionati nei lager libici in mezzo al deserto tra malattie e torture, con
poco cibo, poca acqua, niente igiene e un caldo pazzesco.
Quanto si
è appreso da quell’sms non è affatto una sorpresa, ma la conferma dell’esito
annunciato all’indomani della ratifica di quell’accordo tra Italia e Libia e
massimamente temuto dalla sua attuazione, quando il 15 maggio 2009 l’Italia
donò le prime due motovedette alla Libia proprio per il pattugliamento della
frontiera mediterranea. La vergogna di quell’accordo stigmatizzato da tanti
della società civile italiana, dall’Ue e dall’Onu, ora ricade su tutti noi e ci
impone una riflessione.
Le vittime dei respingimenti sono soprattutto eritrei, somali ed etiopi.
Popoli che, con quello libico, sono appartenuti alle colonie italiane di cui il
Fascismo fu tanto orgoglioso da proclamarsi Impero proprio in virtù di esse.
L’Italia ha espressamente riconosciuto di aver provocato danni con
l’occupazione dei territori africani. Lo attesta il trattato con la Libia alla
quale si attribuiscono ben 5 miliardi di dollari di indennizzi. Nulla,
però, è stato sin qui previsto per gli altri Paesi occupati nell’epoca
coloniale, tanto meno per quelli dell’Africa Italiana Orientale istituita nel
1938 accorpando Eritrea, Somalia ed Etiopia e da cui provengono in gran parte
quei profughi respinti in mare dalla Libia cui il Governo Berlusconi ha
appaltato la blindatura della frontiera a sud.
Anche la conciliazione con il passato coloniale, dunque, si conferma una
scelta ad personam, prevedendo il risarcimento in favore della sola
Libia, ricca di petrolio e gas, ed a scapito dei Paesi più deboli.
Metodo coerente con gli altri dell’attuale Governo: debole con i forti e forte
con i deboli.
L’Italia
deve immediatamente modificare le sue scelte e farsi carico dei disperati delle
sue ex colonie. Inoltre, più di ogni altro Paese, deve farsi carico di
intervenire nelle ex colonie per favorire la loro riorganizzazione ed il
miglioramento delle condizioni di vita dei loro abitanti. Questo sarebbe
certamente il modo migliore per attenuare la pressione dell’immigrazione che
proprio da quei Paesi mira ad arrivare al nostro quale più familiare tra tutti
gli altri, sia per lingua che per tradizioni.
È assolutamente inaccettabile, invece, non solo rimanere inerti rispetto alla
gravità delle condizioni in cui versano i Paesi dell’ex A.I.O. del 1938, mentre
si china la testa dinanzi al Colonnello Gheddafi, ma addirittura rigettare in
mare i profughi di quei Paesi evitando accuratamente di accertarne il diritto
all’asilo secondo i principi del Trattato di Ginevra.
Tutti gli altri Stati che hanno avuto un passato da colonizzatori si sono fatti
carico dei problemi dei territori occupati dopo il riconoscimento
dell’indipendenza. L’Inghilterra li ha mantenuti tuttora associati nel
Commonwealth, cioè nel benessere comune, in cui si è stabilito un
libero o preferenziale diritto di migrazione da un Paese ad un altro. La Francia
ammise sul proprio territorio, e con la cittadinanza francese, circa un milione
e mezzo di pieds noirs che lasciavano i Paesi del Maghreb che nel 1962
conquistarono l’indipendenza e mantenne per decenni facilitazioni alla libera
circolazione con le ex colonie .
Partecipando al colonialismo al pari di tutte le grandi nazioni dell’epoca,
l’Italia volle mostrare al mondo di valere quanto le altre grandi potenze,
ma quando si è trattato di assumersi le responsabilità che il colonialismo
comportava, l’Italia non solo non ha riconosciuto nessuna facility ai
cittadini delle ex colonie al momento di adottare i flussi di lavoratori
extracomunitari, ma addirittura ha elevato alle sue frontiere il muro dei
respingimenti indiscriminati.
Shukri Said l’Unità 11.7.10