Esilio. La nuova anima nelle radici perdute
Il magghid di Meseritch, uno dei più grandi maestri dell’ebraismo khassidico diceva: «Ora,
nell’esilio, lo Spirito Santo scende più facilmente che nel tempo in cui era in piedi il grande
Santuario di Gerusalemme. Un re fu scacciato in esilio e se ne andò ramingo, se arrivava allora in
una povera casa dove veniva alloggiato malamente, e malamente cibato, ma accolto da re, il suo
cuore era lieto e parlava con la gente di casa così familiarmente come una volta faceva nella propria
corte soltanto con i suoi più intimi. E così fa anche D-o da quando è in esilio».
Questo che è uno dei più celebri racconti khassidici trascritti da Martin Buber adombra l’idea che
l’esilio dell’uomo abbia come supremo paradigma l’esilio divino. In queste parole l’esilio viene
definito come luogo di splendore e di intimità pur essendo nella realtà uno spazio-tempo di povertà
e di disagio, mentre in altri contesti della letteratura sapienziale e rabbinica l’esilio viene definito
come terribile punizione.
Perché questa contraddizione? Di fatto l’esiliato deve abbandonare la propria casa, i propri cari, gli
amici, i paesaggi che hanno nutrito i suoi sguardi, i profumi che hanno inebriato le sue narici, i
suoni che hanno arricchito la sua anima. La perdita di ciò che è stata la culla della sua vita si
produce in condizioni di costrizione, di abuso, di violenza e talora di sangue. Il primo istintivo moto
verso lo sradicamento da quanto era percepito come naturale e giusto è il rifiuto, la ribellione e
un’acuta sofferenza da privazione. L’esistenza diviene incerta, angosciante, minacciosa.
Eppure l’essere umano che trova la forza interiore di accogliere in sé la semina dell’esilio vede
germogliare nell’humus della propria interiorità una nuova anima, ubiqua magari, tormentata,
instabile, ma aperta e acutamente sensibile. Nello sfumare del significato dei confini, nello stingersi
di ogni rigidità nazionale nasce una nuova consapevolezza e l’uomo esiliato si fa testimone del
senso più autentico dell’universalismo. Il valore delle radici perdute si riscatta dall’ovvietà del «ciò
che è mio» per mettersi in risonanza con il valore delle radici altrui e dare forza alla bellezza
molteplice dell’universale umano.
Il sentimento dell’esilio non è una variabile delle coordinate spaziali, si può essere esiliati nella
propria città e persino nella propria famiglia, è piuttosto uno stato interiore di appello alla libertà dal
privilegio e dalla violenza dei limiti che hanno burocraticamente colonizzato il nostro spazio
mentale, come ci ricorda un verso del poemetto
Moni Ovadia