Enzo Bianchi: «Ai
laici vorrei dire: basta ateismo, restate in ricerca»
intervista ad Enzo Bianchi a cura di Lorenzo Fazzini
Una fede detta in modo più «antropologico», un ateismo non dogmatico ma
aperto alla ricerca. Per Enzo Bianchi, priore della comunità monastica
di Bose e apprezzato biblista, sono questi due i poli di un’auspicata stagione
di confronto tra laici e credenti.
Cos’era e cosa dice oggi la figura del «cortile dei gentili»?
«Era la parte più esterna del Tempio di Gerusalemme, che si divideva in tre
zone: una per il popolo di Israele, una per i sacerdoti, e poi il
Santo dei santi. Attorno vi era uno spazio con un colonnato delimitato da un
muro. Qui potevano entrare i gentili, come attestato da
un’iscrizione rinvenuta su questa parete, quella di cui Paolo parla nella sua
lettera agli Efesini quando scrive di un "muro di divisione" tra
il popolo eletto e le genti. Il cortile era una zona di silenzio dove alcuni
rabbini erano disponibili a parlare su Dio e sulla Torah.
Giustamente Benedetto XVI auspica che tra cristianesimo e i diversamente
credenti vi sia una possibilità di dialogo. L’atrio dei gentili
costituisce una cifra in cui è possibile ravvisare un confronto in cui ci si
ascolti a vicenda e dove chi non è cristiano possa dar corso al
proprio indagare».
Oggi c’è questo spazio di dialogo?
«Abbiamo avuto negli ultimi decenni alcuni esempi, come la Cattedra dei non
credenti del cardinale Martini a Milano. Anche qui a Bose si fa in
modo che non cristiani e atei possano essere ascoltati sulla fede e il senso
della vita. Penso che ogni Chiesa locale dovrebbe trovare una
possibilità simile. Molte iniziative vengono fatte da non cristiani che
invitano i credenti: non è che noi cattolici siamo più audaci e
irrequieti nel cercare il dialogo! Spesso si vede tutto questo ai
festival delle varie città».
Diversi interlocutori credenti hanno rilevato una necessaria purificazione
della fede. Cosa significa questo a livello culturale?
«Credo che dobbiamo tener conto di quanto Benedetto XVI afferma, ovvero
l’esigenza di purificare la ragione. C’è bisogno di pazienza e audacia
per mettere la fede al vaglio della ragione e saper rispondere a chi chiede le
ragioni del nostro credere. Non in nome di un razionalismo
stretto ma per il fatto il logos, riflesso del Logos divino,
accomuna gli uomini. Questo è il primo sforzo da fare, ma ci crea difficoltà:
dobbiamo parlare un linguaggio antropologico, non teologico e dogmatico,
per far capire a tutti che quello cristiano è un cammino di
umanizzazione. Per far comprendere che tra fede e antropologia non c’è
antagonismo, bensì che il cristianesimo è a servizio dell’essere umano».
Lei ha spesso messo in guardia il mondo ecclesiale dalla tentazione del
clericalismo. Cosa vorrebbe chiedere ai non credenti?
«Che la loro condizione di ateismo non sia un dato assoluto ma una condizione
di ricerca. Chiederei loro di restare in una laica ricerca di
apertura. E aggiungerei: sconfiggiamo insieme il dogmatismo.
Altrimenti ne nasce un dualismo che ha la sua ragione d’essere nell’offrire solo
le proprie posizioni senza che ci sia un confronto vero. Su questo la situazione
in Italia è diversificata: vi sono alcuni laici che, inseriti
in questo atteggiamento di ricerca, non vogliono stare immobili in dogmatismi
sul non credere e si mettono in cammino. C’è poi un’altra parte
in cui l’anticlericalismo è tale che scivola in un ateismo degradato e che
rifiuta tutto quello che concerne la fede. Questi dimenticano che la
fede è anzitutto un atto umano. Il primo passo del credere è davvero umano e per
questo dovremmo considerarlo qualcosa che ci unisce. L’amore
tra un uomo e una donna, l’amicizia, la politica come possibilità di costruire
la polis sono tutti atti di fede e di fiducia nel fatto che può
esistere un legame, una storia, una politica».
Avvenire 17 febbraio 2010