Una
nuova rottura della legalità, un’ulteriore ferita inferta allo Stato di
diritto. L’ultimo atto della vicenda Englaro indigna chi ritiene che
l’osservanza delle regole costituisca il fondamento della convivenza
civile. Vittima, ancora una volta, Eluana Englaro, alla quale una sorta
di «prepotenza governativa» rifiuta il diritto di morire che le era
stato riconosciuto da una sentenza definitiva della Cassazione.
All’origine della nuova questione si pone un nebuloso provvedimento
amministrativo «di indirizzo» assunto, in tutta fretta, dal ministro
Sacconi quando pareva che, dopo l’ultima sentenza, la vicenda si stesse
avviando al suo epilogo logico e naturale. Abbiamo letto tutti il
comunicato con il quale la clinica «Città di Udine» ha reso pubbliche le
ragioni della sua decisione: ciò che era stato ormai organizzato, e cioè
il ricovero di Eluana e il suo accompagnamento a una morte dignitosa, è
stato bloccato per il timore che, infrangendo l’atto di indirizzo
ministeriale, alla struttura ospedaliera fosse revocata la convenzione
regionale e venissero pertanto a mancare i denari che le consentivano di
lavorare.
La vicenda solleva, immagino, complessi problemi giuridici di natura
amministrativa, coinvolge delicati rapporti di competenza fra Stato e
Regioni in materia di sanità, decine di giuristi si interrogheranno sui
poteri ministeriali nell’imporre direttive in materia e sui doveri delle
Regioni di ottemperarle. Si discuterà, soprattutto, fino a che punto gli
elementi di diritto richiamati a sostegno del menzionato atto di
indirizzo (un parere del Comitato nazionale di bioetica privo, in
realtà, di qualsiasi rilevanza giuridica e una convenzione Onu sui
diritti dei disabili non ancora del tutto operativa in Italia e che,
comunque, non riguarda specificamente il caso Englaro) siano davvero in
grado di giustificare, in qualche modo, il provvedimento ministeriale.
Al di là dei possibili cavilli, delle possibili interpretazioni più o
meno interessate, c’è peraltro un profilo giuridico, chiarissimo, sul
quale non è consentito neppure discutere: che di fronte a una sentenza
irrevocabile della Cassazione che, tenendo conto delle leggi operanti in
Italia, ha stabilito determinati principi (ad esempio, che Eluana si
trova in una condizione giuridica di coma persistente, che un intervento
di idratazione e di nutrizione artificiale mediante sondino ipogastrico
non costituisce semplice alimentazione, bensì intervento medico) e ha
conseguentemente riconosciuto a Eluana, o a chi per lei, il diritto di
staccare quel sondino, nulla, sul terreno giuridico, è più consentito
obiettare. La sentenza deve essere eseguita, punto e basta. Nessuno è
più legittimato a vietare, bloccare, frapporre ostacoli, ritardare.
Al di là delle convinzioni personali di ciascuno di noi sul merito
complessivo della dolorosissima vicenda e, conseguentemente, sulla
bontà, o meno, della decisione giudiziale assunta dalla Corte Suprema,
oggi ci troviamo pertanto, a valle del problema principale, di fronte a
una importante questione di principio sulla quale occorre essere chiari,
determinati, inflessibili: che le sentenze irrevocabili della
Cassazione, piacciano o non piacciano, siano condivise o non siano
condivise, devono essere, in ogni caso, applicate, adempiute, eseguite.
Infrangere tale regola significherebbe innescare una rottura
gravissima del principio di legalità attorno al quale ruota l’intero
nostro sistema giuridico. In certo senso, addirittura, fare saltare lo
stesso sistema, basato, come sappiamo, sui principi fondamentali secondo
i quali il Parlamento legifera, la magistratura interpreta e applica le
leggi, l’esecutivo governa rispettando leggi e sentenze.
La rottura della legalità appare d’altronde, nel caso di specie, tanto
più grave ove si consideri che a impedire l’esecuzione di una sentenza
della Cassazione è, addirittura, e ufficialmente, il governo, che
frappone un suo atto di indirizzo alla normale, logica e ormai doverosa
sequenza di atti e fatti che dovrebbero, ragionevolmente, seguire alle
decisioni assunte dai giudici che si sono pronunciati sulla vicenda. E
appare ancora più grave ove si rammenti che, in precedenza, vi era già
stato il tentativo dell’attuale maggioranza parlamentare di bloccare
l’esecuzione della sentenza, sollevando un peregrino conflitto di
attribuzione tra il Parlamento e la Magistratura che, per la sua palese
inconsistenza, era stato respinto in tempi brevissimi, e con durezza,
dalla Corte Costituzionale. Ieri i giornali hanno pubblicato la notizia
che, a seguito di una denuncia presentata dai radicali, la Procura di
Roma ha iscritto il ministro Sacconi nel registro degli indagati per
violenza privata e che gli atti sono stati trasmessi al competente
Tribunale dei Ministri. Non so francamente dire se il ministro abbia, o
non abbia, commesso il reato contestato, e se impedendo l’esecuzione
della sentenza Englaro abbia addirittura commesso ulteriori reati.
Confesso che tali circostanze non mi interessano neppure più di tanto.
Mi preoccupa invece, moltissimo, la questione di carattere
generale, a un tempo giuridica e politica: la rottura del principio di
legalità, l’alterazione degli equilibri fra i poteri dello Stato,
l’impressione, soprattutto, che la semplice legittimazione politica
ottenuta dal voto popolare si stia trasformando ormai, nei fatti, in
strumento di prevaricazione, di sopraffazione, di cancellazione di
diritti e garanzie riconosciute dalla legge e dichiarate dai giudici. Se
ciò stesse davvero accadendo, se, in particolare, dovesse diventare
prassi di governo, sarebbe la fine dello Stato di diritto.
CARLO
FEDERICO GROSSO La Stampa
19/1/2009 |