EGEMONIA PLANETARIA

L'undici settembre del 2001 è ormai diventato nel sentire comune uno spartiacque nella storia del mondo. “Nulla sarà più come prima” è stato ripetuto infinite volte. L'attentato alle Torri Gemelle, opera di kamikaze islamici, è apparso frutto di un odio talmente cieco e disumano da giustificare la dichiarazione di una guerra al terrorismo, da combattere senza limiti temporali e in qualunque luogo del pianeta esso ponga le sue basi. La chiave di lettura di quanto avveniva sotto gli occhi di un Occidente sorpreso e smarrito era offerta pochi giorni dopo l'attentato, in un discorso televisivo, da G. W. Bush: "L'America è stata presa di mira perché noi siamo il faro più luminoso del mondo per la libertà e le opportunità. E nessuno impedirà a questa luce di risplendere". L'America dunque, con la sua civiltà e i suoi valori, era sotto l'attacco delle forze del male e nello stesso mese di settembre, in un discorso al Congresso, il presidente degli Stati Uniti ribadiva solennemente: "Odiano le nostre libertà, la nostra libertà di religione, la nostra libertà di parola, la nostra libertà di votare e di riunirci e di essere in disaccordo tra noi". Un odio assolutamente incomprensibile, come a un mese esatto dall'attentato dichiarava Bush nel corso di una conferenza stampa: "Non capisco come alcuni possano detestarci... Io sono come la maggior parte degli americani, non posso crederlo, perché so quanto siamo buoni".

Ma davvero una nuova storia ha avuto inizio nel 2001? Davvero l'America è stata vittima innocente di una violenza tanto improvvisa quanto immotivata, e perciò sostanzialmente incomprensibile? L'interpretazione fornita dall'amministrazione americana, e prontamente divulgata dai media occidentali, sembra rinunciare a priori a una seria ricerca delle cause, sino ad assumere i connotati di una mera operazione propagandistica. Come è possibile, infatti, comprendere realmente l'attentato dell'undici settembre se lo si vede come un'ingiustificata e quindi folle esplosione di odio, isolandolo dalle circostanze politiche ed economiche che lo precedono? Anche se si tratta di un'ovvietà, sembra inevitabile ricordare che, come è doveroso fare per tutti gli avvenimenti storici, è necessario leggere quei tragici eventi, che in ogni caso restano da condannare senza riserve, nel loro contesto: allora sarà possibile comprenderne meglio il senso, e l'inizio di una nuova fase storica andrà ragionevolmente anticipato di qualche anno.



Contesto politico

Forse il 9 novembre del 1989, caduta del muro di Berlino, o il 25 dicembre del 1991, dissoluzione dell'URSS, sono date di ben più significativa portata storica, in quanto pongono fine a quella guerra fredda tra USA e URSS che ha caratterizzato la seconda metà del '900. Gli Stati Uniti, rimasti unica superpotenza planetaria, a poco a poco si rendono conto che per loro si aprono nuove prospettive, tanto che il presidente Bush senior dichiara che ci sono ormai le condizioni per instaurare un Nuovo Ordine Mondiale. E in effetti già nel gennaio del 1991 la prima guerra del Golfo, sostenuta da un largo consenso internazionale in seguito all'invasione irakena del Kuwait e autorizzata dall'ONU senza che l'URSS, ormai vicina al collasso, sia in grado di opporsi, consente agli Stati Uniti di istallare permanentemente le loro basi militari in Arabia Saudita modificando così a proprio vantaggio gli equilibri geopolitici.

Una potenza che gode di un'indiscutibile superiorità militare, e ormai senza rivali, perchè non dovrebbe assicurarsi uno stabile predominio mondiale, trasformandosi di fatto in un impero? In effetti, è questo il progetto che comprensibilmente comincia ad affascinare alcuni settori della classe dirigente americana. Così nel 1997 viene fondato da Dick Cheney e Donald Rumsfeld un istituto di ricerca chiamato "Progetto per un nuovo secolo americano". Tale istituto - di cui faranno parte, oltre a Jeb Bush, fratello dell'attuale presidente, anche Paul Wolfowitz, Richard Perle, Lewis Libby, tutti uomini che ricopriranno incarichi di primo piano nell'amministrazione repubblicana - prendendo le mosse dal presupposto che la leadership statunitense sia un bene non solo per l'America ma anche per il resto del mondo, propone, al fine di mantenere quest'egemonia, l'incremento delle spese militari e la promozione della libertà politica ed economica su tutto il pianeta, sfidando i regimi ostili agli interessi e ai valori americani.

Di questi regimi fa certamente parte l'Iraq che, nonostante la sconfitta della prima guerra del Golfo, pone ostacoli agli ispettori dell'ONU incaricati di verificare che non sia in possesso di armi di distruzione di massa, tanto che nel 1998 il gruppo di repubblicani conservatori riunito nel suddetto istituto scrive al presidente democratico Clinton una lettera per invitarlo a rimuovere Saddam anche ricorrendo all'uso della forza e senza preoccuparsi eccessivamente di eventuali opposizioni all'interno del Consiglio di sicurezza dell'ONU. Clinton, contrario a interventi americani decisi in maniera unilaterale, non accetta il consiglio, accontentandosi di mantenere l'embargo dell'Iraq e di bombardarne il territorio nelle due zone vietate agli aerei irakeni. Il progetto di Clinton non è certo quello di rinunziare all'uso della forza ma di operare nell'ambito delle tradizionali alleanze, che hanno il loro perno nella NATO.

Infatti proprio sotto la sua presidenza e mentre sono in corso, senza esplicita autorizzazione dell'ONU, i bombardamenti alleati sulla Serbia, in un vertice della NATO svoltosi a Washington nell'aprile del 1999 viene approvato all'unanimità - gli stati europei adattandosi, volenti o nolenti, alle proposte della Superpotenza - un nuovo "Concetto Strategico dell’Alleanza atlantica" che ne stravolge le finalità. Mentre nel 1949, all’articolo 5 del Trattato istitutivo dell'Alleanza, le parti prevedevano come casus foederis solo "un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale", cinquant'anni dopo i 19 Paesi membri attribuiscono alla NATO il diritto di intervenire anche militarmente in qualunque parte del globo per fronteggiare minacce di qualunque tipo alla loro sicurezza: non solo, dunque, attacchi armati ma anche pericoli derivanti da terrorismo, criminalità organizzata, sabotaggi, violazioni dei diritti umani, instabilità politica ed economica, diffusione di armi di distruzione di massa, conflitti etnici... La NATO, cioè, da alleanza difensiva tra stati che possono fare uso della forza solo con l'autorizzazione dell'ONU si è trasformata in un soggetto sovrano che si è riappropriato del diritto di guerra. E, dietro lo schermo della NATO, sono in realtà gli Stati Uniti che si sono arrogati il diritto di diventare i gendarmi del mondo.

Eppure ciò non è sufficiente per il gruppo conservatore che si riconosce nel "Progetto per un nuovo secolo americano", tanto che Clinton, grazie alle improvvide dichiarazioni relative alle sue avventure sessuali, negli ultimi anni del suo mandato è oggetto di una dura campagna repubblicana volta alla sua destituzione. Il pensatoio conservatore vorrebbe, infatti, una politica ben più aggressiva e nel settembre 2000, approssimandosi le elezioni che vedranno vincitore, anche se in modo poco trasparente, Bush junior, pubblica quello che può essere considerato il suo manifesto programmatico: un rapporto di 90 pagine intitolato "Ricostruire le difese dell'America: strategie, forze, e risorse per un nuovo secolo". Il rapporto traccia le linee di un progetto che mira a "conservare la preminenza globale degli Stati Uniti, impedendo il sorgere di ogni grande potenza rivale, e modellando l'ordine della sicurezza internazionale in modo da allinearlo ai principi e agli interessi americani", e perciò caldeggia un maggiore impegno in campo militare sia per conquistare il totale controllo del ciberspazio sia per produrre armi biologiche, anche se messe al bando da una convenzione internazionale del 1980.

In questa prospettiva l'Europa e la Cina appaiono ovviamente come possibili concorrenti mentre il Regno Unito è considerato un alleato chiave e l'ONU un organismo ormai superato, da delegittimare nel caso in cui si opponga alle direttive statunitensi. Si sottolinea, poi, l'importanza strategica fondamentale che ha per l'egemonia americana la regione del Golfo, che gli USA debbono continuare a presidiare per fronteggiare la minaccia costituita dall'Iraq, anche se Saddam dovesse cadere, e dall'Iran. Si osserva, infine, che la crescente utilizzazione delle tecnologie informatiche a fini militari sarà un processo lento a meno che si verifichi un "evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl Harbour": parole che danno da pensare, alla luce di quanto accadrà l'undici settembre.

Sull'attentato alle Torri Gemelle restano, infatti, molte ombre. La CIA, ad esempio, il 10 giugno 2001 era stata avvertita dai servizi segreti tedeschi che terroristi arabi stavano progettando d’impadronirsi di aerei civili americani per usarli come armi di distruzione contro simboli americani. Ad agosto i servizi segreti russi rinnovano l'avvertimento e il 20 dello stesso mese il governo francese segnala addirittura con precisione data esatta, circostanze e luoghi dell’attacco. Eppure, non solo non si riesce a sventare l'attentato, e già questo è strano, ma si aggiungono ancora altri misteri: non si trovano le scatole nere dei due aerei schiantatisi sulle Torri, mentre si ritrova il passaporto appena bruciacchiato di uno degli attentatori; il governo americano non risarcisce le famiglie delle vittime se non si impegnano a perseguire legalmente solo gli attentatori e i loro diretti mandanti, legittimando il sospetto che ci siano altri soggetti da tenere al riparo dalle indagini; la notizia dell'aereo abbattutosi sul Pentagono non viene adeguatamente supportata da immagini televisive, e anzi su di essa cade presto il silenzio...

Ma una cosa è certa: a una presidenza che si era trascinata per mesi nel grigiore più desolante quell'attentato, che fa salire alle stelle il consenso attorno a Bush, offre l'occasione per attuare progetti da tempo elaborati. Le forze del Bene si mettono immediatamente all'opera per schiacciare le forze del Male, bombardando il Paese che ospita Bin Laden, subito individuato come il responsabile del crollo delle Torri. Così l'intervento in Afghanistan (con la conseguente installazione permanente di basi americane in Asia centrale), che stranamente tre alti funzionari statunitensi avevano annunciato come imminente ai membri dello spionaggio russo e britannico nel corso di un incontro tenutosi a Berlino già nel luglio del 2001, e quindi prima dell'undici settembre, ad ottobre può essere attuato sull'onda di un vasto consenso internazionale. L'emozione patriottica suscitata dall'attacco sul suolo americano permette sempre nell'ottobre del 2001 di limitare, con la rapida approvazione del “Patriot Act”, i diritti di libertà che sono fondamentali in uno stato democratico.

Finalmente il 20 settembre del 2002, raccogliendo in una sintesi organica le idee espresse nei discorsi tenuti nel corso di un anno, Bush trasmette al Congresso un documento di trentatré pagine intitolato "La strategia degli Stati Uniti in materia di sicurezza nazionale". Questo documento, subito chiamato “Dottrina Bush”, annuncia con estrema chiarezza la necessità di attuare una svolta radicale in campo politico e militare. Infatti, mentre nei lunghi anni della guerra fredda gli Stati Uniti hanno potuto combattere l'URSS facendo ricorso alla politica del contenimento e della deterrenza, perché avevano "di fronte un avversario favorevole al mantenimento dello status quo e a evitare rischi", ora la situazione è cambiata, a causa della nuova minaccia costituita dagli Stati-canaglia, stati cioè che sono pronti a ricorrere al terrorismo e all'impiego di armi di distruzione di massa contro i nemici che odiano, giocando "d'azzardo con la vita dei loro concittadini e la ricchezza delle loro nazioni" sino al punto di rischiare l'autodistruzione. Gli USA, quindi, se vogliono salvare se stessi e i loro alleati, non possono aspettare di avere la certezza assoluta circa l'effettiva volontà di certi avversari irresponsabili di servirsi di tali armi o circa il momento e il luogo del prossimo attentato terroristico. La posta in gioco è troppo alta, e perciò "per prevenire e impedire questi atti gli Stati Uniti devono, se necessario, agire preventivamente", con l'aiuto dei loro alleati o, eventualmente, anche da soli. E, si aggiunge, "per far fronte alla minaccia terroristica verranno usati tutti i mezzi a disposizione dell'arsenale americano", non escluse, par di capire, neanche armi di distruzione di massa come quelle chimiche o nucleari.

Ma la “dottrina Bush” non si occupa solo degli Stati-canaglia; essa proclama il diritto degli USA all'egemonia mondiale, da mantenere grazie al primato militare, che nessuna potenza d'ora in poi dovrà tentare di insidiare: "Le nostre forze armate avranno la capacità di dissuadere potenziali avversari dal riprendere la corsa agli armamenti nella speranza di raggiungere o superare la potenza militare degli Stati Uniti". Non si può dire che il resto del mondo (e anzitutto la Cina) non sia stato avvertito con parole di una chiarezza addirittura brutale! Tale egemonia però non è un atto di prepotenza: spetta giustamente all'America perché essa ha una "grande missione" da compiere, una missione sacra, come Bush ha ripetuto più volte riecheggiando una lunga tradizione: "la nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo". Il documento si affretta a chiarire, infatti, che gli Stati Uniti intendono avvalersi del loro strapotere militare ed economico "non per ottenerne vantaggi unilaterali, ma bensì per facilitare l'evoluzione verso un mondo libero e democratico, aperto agli scambi commerciali e al libero mercato".

I Paesi che non accettano questo modello politico ed economico, che "rifiutano i valori umani basilari e odiano gli Stati Uniti e tutto ciò che essi rappresentano", costituiscono di fatto un obiettivo pericolo non solo per gli interessi americani ma anche per quelli di tutto il mondo libero: perciò contro tali Paesi gli USA si dichiarano pronti ad "agire ogni qual volta i nostri interessi siano minacciati" e addirittura combatteranno "le minacce emergenti prima che esse abbiano preso pienamente forma". E perché sia chiaro che non sono vuote parole quelle che assegnano a Washington una giurisdizione planetaria, la “dottrina Bush” viene immediatamente messa in pratica col sostegno di una coalizione di stati volenterosi, e forse anche un po' servili, dando inizio all'invasione dell'Iraq. Manca l'autorizzazione dell'ONU, l'attentato delle Torri non ha nulla a che fare con l'Iraq, le prove relative alle armi di Saddam esibite in sede ONU da Colin Powell sono fasulle, come ha riconosciuto poi lo stesso segretario di Stato americano, e sulle giustificazioni addotte per la guerra nuove ombre si addensano oggi a causa del Nigergate, a cui sembra non siano stati estranei i servizi segreti italiani. Tutto ciò non importa: la guerra va fatta per attuare il progetto egemonico elaborato dall'amministrazione americana, anche se per raggiungere l'obiettivo si violerà la convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri, si ricorrerà alla pratica della tortura e, utilizzando il fosforo bianco contro la popolazione irakena, si useranno quelle armi di distruzione di massa che, come gli americani stessi hanno ammesso nel gennaio del 2005, non erano più in possesso di Saddam. Certo, la decisione è stata presa dopo aver pregato intensamente: ma, come ricordava Voltaire, "ogni capo degli assassini fa benedire le proprie bandiere e invoca solennemente Dio prima di dedicarsi a sterminare il prossimo".



Contesto economico

Sembra, dunque, che l'undici settembre più che l'inizio di una nuova fase storica sia stato l'occasione per realizzare un progetto politico da tempo in gestazione. Ma tale progetto in quale contesto economico viene elaborato? Col crollo dell'URSS il modello economico capitalista non ha più rivali e si impone senza grossi ostacoli una globalizzazione di stampo liberista. Quando, nel 2000, Clinton sta per concludere il suo secondo mandato, l'economia americana va, almeno apparentemente, a gonfie vele: mai gli USA avevano conosciuto un così lungo periodo di crescita continua, la new economy garantiva profitti strabilianti e la borsa di Wall Street macinava record su record. Ma mentre la locomotiva americana procedeva ancora trionfalmente, il resto del mondo già cominciava a dare segni di cedimento: una serie di crisi in Asia e in America centromeridionale, il Giappone fermo e l'Europa in affanno.

In effetti, non si stanno realizzando le promesse del pensiero unico, cioè che la crescita della ricchezza avrà effetti benefici anche per i più poveri. Anzi, aumenta la distanza tra ricchi e poveri all'interno dei Paesi industrializzati e quella tra questi e i Paesi detti eufemisticamente in via di sviluppo. La crescita spettacolare della finanza americana si accompagna ad una contrazione dei ritmi di crescita della produzione mondiale, sicchè i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Nel 1998 un rapporto del "Programma di sviluppo delle Nazioni Unite", che è un'agenzia dell'ONU, rivela che il divario tra il 20% più ricco e il 20% più povero della popolazione mondiale è passato da 1 a 30 nel 1960 a 1 a 82 nel 1995. Ciò significa che alla fine del '900, mentre meno di un miliardo di persone consuma i quattro quinti delle risorse mondiali, una maggioranza di oltre quattro miliardi deve spartirsi il quinto che rimane per cercare di sopravvivere. La situazione è particolarmente critica nell'Africa subsahariana, dove i sottoalimentati sono diventati 220 milioni: e ogni anno nel mondo 50 milioni di persone muoiono di fame. Ma in un vertice mondiale patrocinato dall'ONU nel 1996 gli Stati Uniti si oppongono al riconoscimento del diritto di tutti gli uomini ad avere accesso a un cibo sano e nutriente.

E non si tratta certo di un'eccezione: gli Stati Uniti, spesso da soli, si oppongono regolarmente alle risoluzioni dell'Assemblea generale dell'ONU volte alla tutela dei diritti umani, al consolidamento della pace o all'impegno per la giustizia economica. Quest'andazzo ha indotto nel 1999 Boutros Boutros-Ghali, segretario generale delle Nazioni Unite dal 1992 al 1996, ad affermare che gli USA vogliono che quell'organismo internazionale sia ad esclusivo servizio dei loro interessi e che per raggiungere questo obiettivo non esitano a utilizzare le intimidazioni, le minacce e il ricorso al potere di veto. Essendo queste le sue convinzioni, ovviamente Boutros-Ghali su pressione degli Stati Uniti non era stato riconfermato nella sua carica per un secondo mandato.

Che al potere in America ci siano i Democratici o i Repubblicani, i dogmi del pensiero unico neoliberista restano quindi intangibili. La politica economica di tutti i governi del mondo deve ispirarsi ai principi del libero mercato, che consentono gli enormi profitti delle multinazionali, in prevalenza americane, e perciò non sono ammissibili interventi statali che intralcerebbero la libera circolazione di merci e servizi, neanche nel caso in cui siano in gioco diritti fondamentali come quello al cibo o alla salute o all'istruzione. Per garantire il rispetto dei principi liberisti sono stati creati organismi internazionali come l'Organizzazione mondiale del commercio, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, i cui vertici sono sempre occupati da americani o da europei, e che riescono spesso ad imporre le loro scelte di politica economica ai Paesi recalcitranti mediante la concessione o il diniego di prestiti o la minaccia di ritorsioni contro le loro esportazioni.

Già all'inizio degli anni '90 è ormai di dominio pubblico che il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale si adeguano a quello che è stato definito il “consenso di Washington”, cioè una rete di accordi informali tra la Federal americana, le principali multinazionali e alcune grandi banche: organismi apparentemente super partes sono in realtà diventati, persino a giudizio del più prestigioso giornale della comunità degli affari, uno strumento "della politica estera occidentale, e in particolare americana"(The Economist 18/9/1999). E infatti il divieto di aiuti statali alla produzione delle merci viene imposto dall'Organizzazione Mondiale del Commercio con ampie eccezioni, tanto che gli USA (e la UE) sovvenzionano abbondantemente la loro agricoltura, sicché esportano beni a un costo talmente basso da provocare la crisi dell'economia agricola dei Paesi sottosviluppati. E, se questo non bastasse, non mancano ai più forti mezzi ancora più efficaci per difendere i propri interessi: solo nel 1998 gli Stati Uniti avevano messo in atto sanzioni economiche contro 75 Paesi, in cui viveva il 52% della popolazione mondiale. Con un commercio internazionale regolamentato a vantaggio dei Paesi avanzati è veramente difficile immaginare che le economie arretrate possano decollare e si capisce come nell'agosto del 2000 un gruppo di studio creato dall'ONU abbia potuto definire "l'Organizzazione Mondiale del Commercio un 'incubo' per i Paesi in via di sviluppo".

La politica neoliberista ha provocato, in sostanza, effetti che non era difficile prevedere: la concentrazione delle risorse nelle mani di un numero ristretto di super-ricchi, danni incalcolabili all'ambiente e miseria crescente tra le masse diseredate di tutto il mondo. Ma se miliardi di consumatori possono comprare sempre meno, tutto il sistema si inceppa e cominciano i guai anche per le aziende produttrici. E' esattamente ciò che è avvenuto: già nell'aprile del 2001 è finito il lungo ciclo espansivo e l'economia americana è entrata in recessione, ma lo si ammetterà ufficialmente solo nel novembre successivo, e cioè dopo l'undici settembre. Aziende in crisi, aumento della disoccupazione, crolli in borsa per lo scoppio della bolla speculativa. Il panico si impadronisce del mercato globale, l'Unione Europea è incapace di parlare con una sola voce e di proporre strategie innovative in campo politico o economico: i falchi dell'amministrazione Bush, invece, hanno un loro progetto e sanno che ormai potranno attuarlo col sostegno della maggioranza degli americani.

Come verrà affrontata, dunque, una situazione così esplosiva? Con una politica di rigore volta a ridurre il deficit del bilancio statale, convincendo gli americani che debbono rinunciare agli eccessi consumistici e ridistribuendo la ricchezza in modo che anche i cittadini più poveri possano acquistare i beni necessari alla vita? Niente di tutto questo. Sin dall'inizio del suo mandato Bush aveva chiarito che, il tenore di vita degli americani (almeno di quelli benestanti) non essendo negoziabile, il costo della crisi avrebbe dovuto pagarlo il resto del mondo. Quindi, riduzione delle tasse per i ricchi e sostegno alle aziende americane, insofferenti di vincoli internazionali: ed ecco la denuncia degli accordi di Kyoto sul contenimento delle emissioni di gas a effetto serra, l'abbandono del Trattato per la limitazione dei missili e la ripresa del progetto di scudo spaziale, con un impressionante aumento degli investimenti nel settore militare.

E nel 2002 la “Dottrina Bush”, lungi dal mettere in discussione i principi del neoliberismo, che sono la vera causa del disastro, pone, come abbiamo ricordato, proprio la realizzazione di "un mondo libero e democratico, aperto agli scambi commerciali e al libero mercato" tra gli obiettivi che gli USA debbono perseguire se non vogliono venir meno alla loro missione. L'economia americana, dunque, va rilanciata con altri mezzi, e cioè sostituendo con la forza delle armi, nelle aree strategiche del pianeta, regimi ostili con governi che, magari sotto apparenze democratiche, siano pronti a mettere le risorse del proprio Paese a disposizione degli Stati Uniti: e già di per se stessa la guerra è stata sempre un ottimo carburante per la ripresa economica. Certo, per iniziare una guerra, e specialmente una guerra che nelle previsioni impegnerà più generazioni, ci vuole un'occasione: perciò il minimo che si possa dire dell'attentato dell'undici settembre è che sia stato davvero 'provvidenziale'. I bombardamenti in Afghanistan e in Iraq hanno causato decine e decine di migliaia di vittime, ma l'economia americana ha ricominciato a correre.



Un progetto imperiale

L'America vittima innocente del terrorismo islamico? Alla luce dei fatti, sarebbe davvero difficile sostenerlo. Infatti, inserire l'attentato dell'undici settembre nel suo contesto non porta certo a giustificarlo ma permette di comprenderne meglio il significato: non è un atto inconsulto, una cieca esplosione di odio ma una reazione violenta lucidamente preparata. Una vera e propria dichiarazione di guerra: non però contro i valori della civiltà occidentale ma contro una politica imperiale che, interpretando gli interessi di un 'comitato d'affari' costituito dalle multinazionali americane, ma anche europee, mira a un dominio globale e allo sfruttamento a proprio vantaggio delle risorse dell'intero pianeta. Il Nuovo Ordine Mondiale che, finito quello bipolare, stanno costruendo gli USA non è infatti di tipo democratico, basato sul potenziamento del ruolo dell'ONU, su un rinnovato spirito di collaborazione tra le Nazioni, su una più equa distribuzione delle ricchezze e su uno sviluppo ecologicamente sostenibile, ma di stampo decisamente unipolare e imperiale. Così, la fine della guerra fredda, e cioè di un ordine che, pur nella sua precarietà, frenava il ricorso alla guerra e alla politica di potenza, ha coinciso con l'inizio di un periodo di instabilità e di guerre calde. I fatti, purtroppo, hanno dato ragione a un acuto osservatore come Norberto Bobbio che, qualche anno prima della caduta del muro di Berlino, affermava che "l'equilibrio del terrore bipolare e' pericoloso, ma un monopolarismo sarebbe peggiore".

Non è strano, dunque, che una globalizzazione che impone un'egemonia politica tendenzialmente planetaria e che riduce miliardi di esseri umani al livello della pura sussistenza generi un profondo risentimento. Neanche c'è da stupirsi se questo capitale di odio contro la superpotenza americana si sia accumulato soprattutto nei Paesi musulmani. I motivi non mancano: dai ripetuti bombardamenti in Libia, in Libano e in Iraq (dove, alla fine della guerra del Golfo, sono stati massacrati dalle bombe americane 150.000 militari che si erano arresi), all'appoggio incondizionato fornito allo stato israeliano anche quando esso viola le risoluzioni dell'ONU e i diritti dei palestinesi, alla permanenza delle basi militari americane nei luoghi santi dell'Islam... Alla violenza economica dello sfruttamento, che prende il nome di globalizzazione, e alla violenza militare dei bombardamenti, a cui si dà il nome di guerra, gli oppressi - e la stragrande maggioranza dei musulmani vive in Paesi economicamente arretrati, fertile terreno di reclutamento per chi dispone di ingenti risorse finanziarie - rispondono anch'essi con la violenza, etichettata come terrorismo.

Si capisce come la maggioranza degli uomini politici europei non voglia o non possa denunciare con franchezza il progetto egemonico degli USA - dichiarato senza possibilità d'equivoci, come abbiamo visto, nei documenti redatti da chi oggi governa quel Paese - e come la maggioranza dei mezzi d'informazione, anche in Europa, sia connivente con il potere e concentri l'attenzione dei cittadini esclusivamente sui pericoli derivanti dal terrorismo islamico, alimentando la favola dello scontro di civiltà. Ma è incoraggiante il fatto che, nonostante il servilismo di tanti governi e l'opera di disinformazione dei media, ormai divenuti il principale ostacolo alla comprensione della realtà, l'opinione pubblica mondiale abbia percepito chiaramente le responsabilità americane nel progressivo deterioramento dei rapporti internazionali. Da un sondaggio condotto pochi mesi dopo l'undici settembre al di fuori degli Stati Uniti tra rappresentanti del mondo degli affari, della politica e dell'informazione, e pubblicato dall'International Herald Tribune (20/12/2001), è emerso che il 58% degli intervistati considerava la politica di Washington "causa primaria" del risentimento diffuso nei confronti degli USA. E un sondaggio del novembre 2005 mostra che anche in America la guerra irakena è ormai approvata solo da 4 cittadini su 10.

Del resto, non si può dire che la denuncia dell'aggressività della politica statunitense sia frutto di pregiudizi antimericani dal momento che essa è condivisa anche da eminenti rappresentanti dell'establishment e della cultura di quel Paese. Ramsey Clark, ministro della giustizia sotto la presidenza di Lyndon Johnson, nel dicembre del 2002 affermava, rivisitando la politica americana dal 1991 in poi, che "gli Stati Uniti sono i più grandi autori di violenza sul pianeta". E un intellettuale prestigioso come Noam Chomsky nel settembre del 2003 sosteneva che i governanti americani avevano voluto la guerra in Iraq pur sapendo che il loro comportamento avrebbe non diminuito ma accresciuto il rischio del terrorismo perché ben altri erano i loro obiettivi: "Essi mirano, infatti, da un lato ad instaurare l’egemonia degli Stati uniti nel mondo, e dall’altro, sul piano interno, ad attuare un programma che smantelli le conquiste progressiste strappate dalle lotte popolari nel corso del XX secolo". Riferendosi poi alla “Dottrina Bush”, un anno dopo scriveva: "Forse il documento più minaccioso della nostra epoca è la Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, diffuso nel settembre 2002. La sua “messa in pratica” in Iraq è costata innumerevoli vite e ha scosso, fino nelle sue fondamenta, il sistema internazionale".

Certamente gli USA, oltre a disporre di una colossale potenza politica, economica e militare, esercitano un predominio assoluto sul piano simbolico, che consente loro di presentarsi come i difensori della libertà e della democrazia. Ma, ha ragione Chomsky, chi legge i loro documenti programmatici, e osserva i fatti che ne conseguono, sa che la realtà è ben diversa. L'argentino Adolfo Perez Esquivel, premio Nobel per la pace nel 1980, nel novembre 2005 ha dichiarato che ormai "ci troviamo in balia di un totalitarismo, quello americano, che non rispetta nulla se non i propri interessi". Ugualmente duro il giudizio che l'inglese Harold Pinter, recentemente insignito del premio Nobel per la letteratura, formulava nel 2002: gli Stati Uniti hanno esercitato "una ininterrotta, sistematica, spietata e assolutamente cinica manipolazione del potere a livello mondiale, mascherandosi da forza del bene universale". E, disgustato per la guerra in Irak che considerava un crimine privo di qualunque giustificazione, nel marzo del 2003 lanciava un invito agli uomini liberi: "Noi abbiamo un compito irrinunciabile e chiaro: resistere a tutto questo".

Gli spiriti liberi, come è facile constatare, non usano eufemismi per descrivere la realtà. Sarebbe bello se anche i leader religiosi non si limitassero a condannare il terrorismo ma denunciassero con forza il progetto egemonico degli USA. Le giaculatorie contro la guerra e la fame nel mondo, infatti, servono poco, anzi vengono del tutto vanificate se accompagnate da frasi come quelle rivolte recentemente da Benedetto XVI al nuovo ambasciatore americano presso la Santa Sede: "Confido che il vostro paese continui a dimostrare una leadership basata su un deciso impegno in favore dei valori di libertà, integrità e autodeterminazione mentre cooperate con varie istanze internazionali che [...] sviluppano un'azione unitaria nei confronti delle situazioni critiche per il futuro dell'intera famiglia umana". Evidentemente in Vaticano non si leggono i documenti dell'amministrazione americana, o non ci si informa su quanto avviene nel mondo, o forse, più semplicemente, ci si vuole accreditare come cappellani dell'impero!

Elio Rindone    da  www.italialaica.it