Ebraismo e Israele
Sessant’anni - e più – di passione per la politica mi hanno insegnato che nessuna persona, per quanto proba e intelligente essa sia, ha sempre e comunque ragione; e anche mi hanno insegnato che i simboli evocano emozioni altrettanto importanti delle idee, e realtà generalmente molto complesse. Dunque, io ho alcune volte votato Romano Prodi e io, anche, non brucerei mai una bandiera; e tanto meno una bandiera israeliana che racchiude simbolicamente la storia di un popolo, per tre millenni fedele, con eroica ostinazione, a una quasi prodigiosa identità. Ma, detto questo, aggiungo che odiosissimo mi è sembrato l’accenno che il presidente del Consiglio ha fatto alla bandiera israeliana, parlando, qualche giorno fa, al Congresso delle Comunità israelitiche italiane. “La bandiera di Israele – ha detto Prodi – contiene un simbolo, la stella di Davide, che esprime il contributo fondamentale dato dall’ebraismo alle radici della cultura europea”.
Non mi meraviglia che un professionista della politica adoperi disinvoltamente richiami e lusinghe capaci di procurargli il favore di un’assemblea; ma le parole di Prodi mi sono sembrate intollerabili perchè consentivano a uno dei fenomeni più tragici della nostra epoca: la quasi automatica equiparazione che la maggior parte delle comunità israelitiche della diaspora fa tra ebraismo e Stato di Israele. Questa equiparazione finisce per essere un fattore di enorme importanza nella vicenda mediorientale e nella situazione di continua violenza oppressiva cui è soggetta la popolazione palestinese. Pare a me (ma grazie al Cielo anche a non pochi ebrei, fuori e dentro Israele) che non ci sia invece più che un’esile legame storico fra uno stato razzista, teocratico e militarista e la splendida testimonianza di Giusti e di profeti, di filosofi della libertà e di scrittori che non soltanto in Europa ma in tutta la Terra animarono, con la loro fede e il loro intelletto, la causa della dignità dell’uomo; e perciò rifiutarono ogni frontiera e ogni intolleranza. Non v’è dubbio, dicono i saggi di Israele, che la ottusa brutalità dello stato “ebraico” nei confronti della gente dei territori occupati corroda innanzi tutto l’anima ebraica dello stato sorto per essere specchio dell’ebraismo; e non v’è dubbio, diciamo in molti, che l’equiparazione “stato di Israele = ebraismo” sia la causa più importante della crescente diffusione della mala pianta dell’antigiudaismo.
Ma c’è di più. Proprio mentre Romano Prodi si inchinava davanti alla bandiera israeliana, essa sventolava, ancora una volta, su un massacro. Stava sui carri armati che devastavano strade e coltivazioni della Striscia di Gaza e abbattevano case con la ferocia delle grandi calamità naturali; era piantata accanto ai pezzi d’artiglieria che distruggevano la centrale elettrica di Gaza, condannando a morte i ricoverati nelle sale di rianimazione, i malati gravi in attesa di essere operati, i pazienti in attesa di dialisi; e facevano marcire farmaci e viveri bisognosi di refrigerazione; era dipinta sugli elicotteri che uccidevano decine e decine di vecchi, donne e bambini; e sugli elmetti di soldati che portavano via, ammanettati e incappucciati ministri e deputati palestinesi democraticamente eletti. Quella bandiera, insomma, in quei giorni, era il simbolo di uno scontro talmente impari (il più moderno e armato esercito dell’area mediterranea contro alcuni poliziotti e qualche centinaio di adepti di formazioni “irregolari”) da ricordare la ferocia di certi persecutori degli ebrei. Non era possibile, naturalmente, che Romano Prodi ignorasse, che in quei giorni la bandiera israeliana era trascinata dai suoi stessi alfieri nella polvere del disonore.
Che tutto venga permesso, di fatto allo stato di Israele, con l’atroce memoria del genocidio usata come licenza di oppressione degli untermenschen palestinesi, come terribile ombra storica che allontana i riflettori sul qui e sull’oggi, tutto ciò minaccia allo stesso modo la nostra civiltà. Ha scritto una volta Franco Fornari, forse il più grande degli psicoanalisti italiani, che trattare Israele come uno stato-bambino (per la sua “recente” nascita o per la sua piccolezza in mezzo alla “marea degli stati arabi), e quindi concedergli una libertà d’azione che a nessun altro popolo sarebbe concessa, potrebbe essere una forma di razzismo: “Se è vero che Israele è simbolizzabile come bambino, è anche vero che si tratta di un bambino “viziato”, proprio nel significato infantile che ha questo termine, nel senso che è un bambino superaiutato, supervezzeggiato e ricoperto di doni. Questo ci permetterebbe di evidenziare un altro fatto importante: quello per cui i bambini viziati sono amati solo in apparenza, ma in realtà sono odiati. Mi sembra fondata l’ipotesi che gli occidentali, nella loro ammirazione per Israele, non abbiano ancora superato l’antisemitismo. E l’ipotesi potrebbe essere valida, in altra forma, anche per quegli ebrei che, restando nei paesi della diaspora, mandano aiuti a Israele. L’autentico amore per Israele sarebbe quindi quello che è espresso dal considerare Israele come tutti gli altri popoli, nel senso, cioè, di non vituperarlo né di idealizzarlo, di non perseguitarlo né di “viziarlo”.
Fornari scriveva questa pagina nel 1971. Da allora la comunità internazionale ha concesso a Israele di gettare nel cestino della carta straccia decine e decine di risoluzioni dell’ONU e di opprimere un popolo, oltre a tutto (a proposito di antisemitismo) anch’esso “semita”.
Ettore Masina – Lettera 116/2006