Drogati di sicurezza
Nelle sabbie mobili dell'insicurezza percepita - che è
cosa differente dai dati materiali dell'insicurezza reale - si sta giocando una
partita di assoluto rilievo che riguarda la politica, la cultura diffusa, le
forme della convivenza in una società sempre più complessa e sempre più
inquieta.
I lavavetri sono «eroi del nostro tempo», piccola umanità che la globalizzazione
sbalza negli spigoli dei nostri marciapiedi: all'ombra dei nostri sospettosi
semafori, armati di secchio e spugna, attentano alla nostra quiete borghese. La
guerra ai lavavetri somiglia troppo a tutti i fenomeni di criminalizzazione dei
poveri che hanno accompagnato le epoche di transizione: all'alba della modernità
europea l'accattonaggio e il vagabondaggio vennero perseguiti come reati. Ognuno
può inventarsi la propria idea di insicurezza, il proprio fantasma, il proprio
capro espiatorio: con l'accortezza di non soffermarsi su ciò che è più
pericoloso, ma su ciò che più infastidisce. La quiete, appunto, e l'estetica, e
il sentimento dell'ordine.
Il lavavetri merita più accanimento criminologico del grande inquinatore, del
piromane, dell'usuraio, dell'evasore fiscale. Il graffitaro sporca più di
qualsiasi palazzinaro. I clandestini sono tutti in agguato sui nostri
pianerottoli. E gli zingari comunque «rubano» i nostri bambini, e poco importa
che i loro bambini possano essere molestati dai piccoli Klu klux klan leghisti o
possano ardere vivi nelle nostre povere periferie.
Quando si sgombera il campo da qualsiasi analisi differenziata di fenomeni
distinti e peculiari quali la criminalità, la devianza e il disagio sociale, si
imbocca un vicolo cieco. Che non ci spianta solo dai valori della sinistra, ma
dai valori minimi della cultura liberal-democratica. E l'ossessione della
governabilità s'impenna nella prospettiva di un nuovo blocco d'ordine: questa
sembra la svolta che i sindaci di Firenze e Bologna propongono al nascente
Partito Democratico. Si tratta di una vera fascinazione per il «sorvegliare e
punire», assunto come antidoto darwiniano alla propria crisi, cioè alla crisi di
quel «riformismo rosso» che seppe fare del governo delle città un laboratorio
collettivo di incivilimento.
L'ideologia securitaria insegue la morte della politica (la politica intesa come
autoeducazione e solidarietà) e veste come una panciera elastica l'Italia del
basso ventre, dei rancori corporativi e delle fobie; insegue la destra lungo i
dirupi delle semplificazioni superstiziose, predispone il terreno per
l'edificazione di tanti dissimulati apartheid. Non porta più sicurezza, offre
una droga potente che ci fa dimenticare le nostre banali e prosaiche insicurezze
quotidiane: quella di 5 morti sul lavoro tutti i santi giorni, quella della
precarietà che rimbalza dal mercato del lavoro al mercato della vita, quella di
periferie degradate e degradanti, quella di una tv-spazzatura che ha surrogato
tutte le agenzie formative, quella delle mafie finanziarie internazionali che da
internet precipitano nella locride o nella megalopoli napoletana o nelle
campagne pugliesi abitate da antichi schiavi e moderni caporali.
La legalità è il contrario delle rincorse emergenziali e degli stati di
«eccezione», non puoi impastarla con la farina del diavolo pensando che venga un
buon pane. Se questi pensieri mi fanno essere inadeguato alle funzioni di
governo, poco male. Di «radicale» nella nuova sinistra vorrei portare
soprattutto il sentimento dell'inviolabilità della vita e della dignità di
ciascun essere umano.
Nichi Vendola Il manifesto 23/09/07