Dove nasce la
questione morale
La questione morale è il segno di un modo di concepire e praticare la vita
pubblica che con il
pubblico non ha nulla a che fare. Dietro il cinismo o la disonestà degli
amministratori pubblici si
annida profonda la crisi della politica, sia come funzione pubblica che deriva e
dipende dal mandato
elettorale, sia come etica del servizio pubblico. Le due dimensioni sono
strettamente legate tra loro.
È questo il legame che si è infranto in questi lunghi anni di mai compiuta
transizione verso una
democrazia dell'alternanza. A prescindere da quella che sarà la provata
responsabilità legale di
alcuni amministratori pubblici, il giudizio politico non può che essere
negativo, anche per quel
preoccupante uso del linguaggio che è emerso dalle intercettazioni:
amministratori pubblici che
parlavano di "cose loro" invece che di "cosa pubblica".
Non si tratta di una novità. Dalla fine dei partiti tradizionali e
dall'inizio dell'era Berlusconi, la
politica è venuta con sempre più frequenza ad associarsi alla dimensione del
privato: alla proprietà
prima di tutto, ma anche alle opinioni personali e ai legami amicali o di
parentela anch'essi
privatissimi. Pochi esempi recenti: il Presidente del Consiglio afferma
di voler cambiare, lui, la
Costituzione, come se la Costituzione fosse cosa sua propria; in nome delle sue
proprie opinioni
personali in merito alla vicenda di Eluana, il ministro Sacconi si rivolta
contro la decisione del
giudice violando platealmente il principio e la pratica della divisione dei
poteri. La funzione
pubblica è sempre più identificata con la persona che la svolge.
Oggetto di denuncia quando il patrimonialismo fece la sua apparizione, più di
dieci anni fa, questa
anomalia è diventata un tema di lamento inutile ma sempre tollerato, mai
effettivamente contrastato
e infine metabolizzato dall'opinione politica e da quella pubblica per diventare
un fatto di (mal)
costume ordinario. Eppure, nonostante l'abitudine al malcostume che i media
alimentano,
nonostante non faccia scandalo che il Presidente del Consiglio dica di voler
cambiare la
Costituzione o che il ministro Sacconi resista alla decisione del giudice, fa
sussultare il dubbio di
disonestà che si è abbattuto sul Pd, segno di una crisi di legittimità morale di
un partito che pare
nato vecchio - non abbastanza partito, eppure già uso all'abitudine partitica
più antica.
Fa sussultare perché l'ombra della questione morale che
si è allungata su questo fragilissimo corpo politico è un
segno preoccupante di quanto sia cambiata la coscienza collettiva del nostro
paese, un mutamento
che finora pensavamo interessare in maniera estesa solo la maggioranza, o molta
parte di essa.
Questa debolezza etica dovrebbe preoccupare quale che sia l'esito di questa o
quella indagine. Il
dubbio di cinismo e disonestà è da solo un problema. Sul Pd, sui suoi
dirigenti nazionali e regionali,
pesa una responsabilità grande: quella di riuscire a bloccare ora, subito, la
trasformazione
oligarchica e affaristica che si estende su di esso. Chi scrive ha sempre
ostinatamente pensato che il
problema del Pd non sia tanto quello di non lasciare spazio ai giovani, ma
quello di non essere stato
capace di educare alla politica (che è un agire etico) una nuova generazione di
servitori del bene
pubblico. Dalla fine dei partiti tradizionali, i quali erano comunque
grandi scuole di cittadinanza
partecipata e responsabile, il susseguirsi di sigle e l'abbattimento sistematico
delle tradizionali
forme aggregative politiche hanno creato analfabetismo etico e l'erosione del
linguaggio pubblico.
Le aziende, luoghi privati di lavoro e di carriera, sono diventate il punto di
riferimento valoriale e di
fatto l'unica scuola di funzione pubblica, ovviamente la meno adatta perché la
più distante dall'idea
di bene generale e dalle sue procedure di controllo. La narrativa delle
intercettazioni telefoniche è
rivelatrice di questa trasformazione di linguaggio e di valori; ma anche della
fragilità del Pd, una
fragilità che è stata fin qui celata dietro le varie tornate di mobilitazione
per le primarie. Ma un
partito che ha come solo momento partecipativo la competizione elettorale non è
ancora un partito.
È al più uno strumento per consentire a individui, gruppi o fazioni di competere
per vincere e fare
"carriera" politica. Le competizioni elettorali per le primarie, mentre
consentono di scegliere i
candidati, creano necessariamente divisioni di amici e nemici. Un partito che
vive solo di primarie
non è per questo un partito ma un campo di battaglia; un corpo lacerato, senza
ideali unificanti, ma
con molta adrenalina per mobilitare concorrenti rivali.
Nadia Urbinati l'Unità
29 dicembre 2008