Dove finisce l'otto
per mille segreto da un miliardo di euro (2)
Nove milioni per la campagna pubblicitaria sullo tsunami ma alle vittime è
andato solo un terzo. E alla fine l´ottanta per cento dei contributi assegnati
rimane alla Chiesa cattolica
Le campagne dell´«otto per mille» della Chiesa cattolica, che ogni primavera
invadono ´etere, Rai, Mediaset e radio nazionali, sono considerate nel mondo
pubblicitario un modello di comunicazione. Ben girate, splendida fotografia,
musiche di Morricone, storie efficaci, a volte indimenticabili. Chi non ricorda
quella del 2005, imperniata sulla tragedia dello tsunami? Lo spot apre su un
fragile villaggio di capanne, dalla spiaggia i pescatori scalzi scrutano
l´orizzonte cupo. Voce fuori campo: «Quel giorno dal mare è arrivata la fine,
l´onda ha trasformato tutto in nulla». Stacco sul logo dell´otto per mille: «Poi
dal niente, siete arrivati voi. Le vostre firme si sono trasformate in barche e
reti». Zoom su barche e reti. «Barche e reti capaci di crescere figli e pescare
sorrisi». Slogan: «Con l´otto per mille alla Chiesa cattolica, avete fatto tanto
per molti». Un capolavoro.
La campagna 2005, affidata come le precedenti alla multinazionale Saatchi &
Saatchi, secondo Il Sole 24 Ore è costata alla Chiesa nove milioni di euro. Il
triplo di quanto la Chiesa ha poi donato alle vittime dello tsunami, tre milioni
(fonte Cei), lo 0,3 per cento della raccolta. Nello stesso anno, l´Ucei,
l´unione delle comunità ebraiche italiane, versò per lo Sri Lanka e l´Indonesia
200 mila euro, il 6 per cento dell´«otto per mille». Un´offerta in proporzione
venti volte superiore, in un´area dove non esistono comunità ebraiche.
Gli spot della Chiesa cattolica sono per la maggioranza degli italiani l´unica
fonte d´informazione sull´otto per mille. Consegue una serie di pregiudizi assai
diffusi. Credenti e non credenti sono convinti che la Chiesa cattolica usi i
fondi dell´otto per mille soprattutto per la carità in Italia e nel terzo mondo.
Le due voci occupano la totalità dei messaggi, ma costituiscono nella realtà il
20 per cento della spesa reale, come conferma Avvenire, che pubblica per la
prima volta il resoconto sul numero del 29 settembre. L´80 per cento del
miliardo di euro rimane alla Chiesa cattolica.
Tanto meno gli spot cattolici si occupano d´informare che le quote non espresse
nella dichiarazione dei redditi, il 60 per cento, vengono comunque assegnate
sulla base del 40 per cento di quanto è stato espresso e finiscono dunque al 90
per cento nelle casse della Cei. Questo compito in effetti spetterebbe allo
Stato italiano. Lo Stato avrebbe dovuto illustrare e giustificare ai cittadini
un meccanismo tanto singolare di «voto fiscale», unico fra i paesi concordatari.
In Spagna per esempio le quote non espresse nel «cinque per mille» restano allo
Stato. In Germania lo Stato si limita a organizzare la raccolta dei cittadini
che possono scegliere di versare l´8 o 9 per cento del reddito alla Chiesa
cattolica o luterana o ad altri culti.
Il principio dell´assoluta volontarietà è la regola nel resto d´Europa. Lo Stato
italiano lo adotta infatti per il «cinque per mille». Anzi, fa di peggio. Il
«cinque per mille» è nato nel 2006 per destinare appunto lo 0,5 dell´Irpef (660
milioni di euro, stima ufficiale delle Entrate) a ricerca e volontariato. Nel
primo (e unico) anno hanno aderito il 61 per cento dei contribuenti, contro il
40 dell´ «otto per mille»: un successo enorme. Le sole quote volontarie
ammontano a oltre 400 milioni. Ma con la Finanziaria del 2007 il governo ha
deciso di porre un tetto di 250 milioni al fondo, che si chiama sempre «cinque
per mille» ma è ridotto nei fatti a meno del due. Le quote eccedenti verranno
prelevate dall´erario. Con una mano lo Stato dunque regala 600 milioni di quote
non espresse alla Cei e con l´altra sottrae 150 milioni di quote espresse a
favore di onlus e ricerca. Nella stessa pagina del modulo 730 il «voto fiscale»
espresso da un cittadino in alto a favore delle chiese vale in termini economici
quattro volte il voto nel «cinque per mille». Perché due pesi e due misure?
Lo Stato in diciassette anni non ha speso una parola pubblica, uno spot, una
pubblicità Progresso, per spiegare il senso, il meccanismo e la destinazione
reale dell´otto per mille. Ed è l´unico «concorrente» che ne avrebbe i mezzi,
oltre al dovere morale. Gli altri (Valdesi, Ebrei, Luterani, Avventisti,
Assemblee di Dio) dispongono di fondi minimi per la pubblicità, peraltro
regolarmente denunciati nei resoconti. Mentre la Chiesa cattolica è l´unica a
non dichiarare le spese pubblicitarie, riprova di scarsa trasparenza.
L´unica voce a rompere il silenzio dello Stato fu nel 1996 quella di una
cattolica, come spesso accade, la diessina Livia Turco, allora ministro per la
Solidarietà. Turco propose di destinare la quota statale di otto per mille a
progetti per l´infanzia povera. Il «cassiere» pontificio, monsignor Attilio
Nicora, rispose che «lo Stato non doveva fare concorrenza scorretta alla
Chiesa». Fine del dibattito. Oggi Livia Turco ricorda: «Nella mia ingenuità,
pensavo che la mia proposta incontrasse il favore di tutti, compresa la Chiesa.
L´Italia è il paese continentale con la più alta percentuale di povertà
infantile. Al contrario la reazione della Chiesa fu durissima, infastidita, e
dalla politica fui subito isolata. Ho vissuto quella vicenda con grande
amarezza».
La politica non ha mai più osato fare «concorrenza» alla Chiesa cattolica, anzi
l´ha favorita con un pessimo uso del fondo. Nel 2004 i media hanno dato grande
risalto alla trovata del governo Berlusconi di utilizzare 80 dei 100 milioni
ricevuti dall´otto per mille per finanziare le missioni militari, in particolare
in Iraq. Degli altri venti milioni, quasi la metà (44,5 per cento) sono finiti
nel restauro di edifici di culto, quindi ancora alla Chiesa. La percentuale di
«voti» allo Stato italiano è crollata dal 23 per cento del 1990 all´8,3 del
2006.
All´atteggiamento remissivo dello Stato italiano ha fatto da contraltare una
crescente aggressività da parte delle gerarchie ecclesiastiche e soprattutto dei
politici al seguito, cattolici e neo convertiti, nel rivendicare il denaro
pubblico. In agosto, quando la commissione europea ha chiesto lumi al governo
Prodi sui privilegi fiscali del Vaticano, nell´ipotesi si tratti di «aiuti di
Stato» mascherati, l´ex ministro Roberto Calderoli, già protagonista delle
battaglie anticlericali della Lega anni Novanta, ha chiesto al Papa di
«scomunicare l´Unione Europea». Rocco Buttiglione ha avanzato un argomento in
disuso fra gli intellettuali dai primi del ‘900, ma oggi di gran moda. Secondo
il quale i privilegi concessi dalla Stato al Vaticano sarebbero «una
compensazione per la confisca dei beni ecclesiastici dello Stato Pontificio».
Un revanscismo già sepolto dalla Chiesa del Concilio. Nel 1970 Paolo VI aveva
«festeggiato» con la visita in Campidoglio la breccia di Porta Pia: «atto della
Provvidenza», una «liberazione» per la Chiesa da un potere temporale che ne
ostacolava l´autentica missione. Joseph Ratzinger scrive ne «Il sale della
terra»: «Purtroppo nella storia è sempre capitato che la Chiesa non sia stata
capace di allontanarsi da sola dai beni materiali, ma che questi le siano stati
tolti da altri; e ciò, alla fine, è stata per lei la salvezza».
La legge 222 del 1985 istitutiva dell´otto per mille, perlopiù sconosciuta ai
polemisti, in ogni caso non accenna ad alcuna forma di «risarcimento» per le
confische (argomento insensato nell´Italia di vent´anni fa). Lo scopo primario
della legge di revisione del Concordato fascista del ‘29 era di garantire un
sostituto della «congrua», ovvero lo stipendio di Stato ai sacerdoti. Nei primi
anni lo Stato s´impegnava infatti a integrare l´otto per mille, fino a 407
miliardi, nel caso di una raccolta insufficiente per pagare gli stipendi. In
cambio il Vaticano accettava che una commissione bilaterale valutasse ogni tre
anni l´ipotesi di ridurre l´otto per mille nel caso contrario di un gettito
eccessivo.
Ora, dal 1990 al 2007, l´incasso per la Cei è quintuplicato e la spesa per gli
stipendi dei preti, complice la crisi di vocazioni, è scesa alla metà, dal 70 al
35 per cento. Eppure la commissione italo-vaticana non ha mai deciso un
adeguamento. Perché? Senza avventurarsi in filosofia del diritto, si può forse
raccontare il percorso di uno dei componenti laici della commissione, Carlo
Cardia. Il professor Cardia, insigne giurista di formazione comunista,
consigliere di Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao, ha esordito da fiero
«difensore del diritto negato in Italia all´ateismo» («Ateismo e libertà
religiose», De Donato, 1973). Nel 2001 è Cardia a invocare una riduzione
dell´otto per mille, in un saggio pubblicato dalla presidenza del consiglio: «Dall´otto
per mille derivano ormai alla Chiesa cattolica, meglio: alla Cei, delle somme
veramente ingenti, che hanno superato ogni previsione. Si parla ormai di
900-1000 miliardi l´anno di lire. Il livello è tanto più alto in quanto il
fabbisogno per il sostentamento del clero non supera i 400-500 miliardi. Ciò
vuol dire che la Cei ha la disponibilità annua di diverse centinaia per finalità
chiaramente "secondarie" rispetto a quella primaria del sostentamento del clero;
e che lievitando così il livello del flusso finanziario si potrebbe presto
raggiungere il paradosso per il quale è proprio il sostentamento del clero ad
assumere il ruolo di finalità secondaria».
Previsione perfetta. «Tutto ciò - concludeva Cardia - porterebbe a vere e
proprie distorsioni nell´uso del danaro da parte della Chiesa cattolica; e, più
in generale, riaprirebbe il capitolo di un finanziamento pubblico irragionevole
che potrebbe raggiungere la soglia dell´incostituzionalità se riferito al valore
della laicità quale principio supremo dell´ordinamento».
Nel tempo il professor Cardia è diventato illustre collaboratore di Avvenire, il
giornale dei vescovi. I suoi temi sono cambiati: l´apologia del rapporto fra i
giovani e Benedetto XVI, la lotta ai Dico, l´esaltazione del Family Day.
Ciascuno naturalmente ha il diritto di cambiare idea. Ma è opportuno che,
avendole cambiate sul giornale della Cei, continui a far parte di una
commissione governativa chiamata a stabilire quanti soldi lo Stato deve versare
alla Cei? Nell´ultimo editoriale su Avvenire il professor Cardia tuona contro
l´inchiesta di Repubblica, «una delle più colossali operazioni di
disinformazione degli ultimi tempi».
Senza contestare nel merito un singolo dato, nega con veemenza che la Chiesa
costi troppo agli italiani e s´indigna per «l´indecente» accostamento con la
«casta». E´ lo stesso professor Cardia che il 20 febbraio scorso dichiara in
un´intervista: «Io porterei la quota dell´otto per mille al sette, vista
l´imponente massa di danaro che smuove. Basti pensare che dall´84 a oggi
nessuno, se non per controversie politiche, vi ha posto mano».
Con le altre confessioni lo Stato è assai meno generoso. In risposta a
un´interrogazione dei soliti radicali, nel luglio scorso il ministro Vannino
Chiti ha citato come prova della bontà del meccanismo «il fatto che anche i
valdesi hanno chiesto e ottenuto le quote non espresse». Chiesto sì, ottenuto
mai. Incontro la «moderatrice» della Tavola Valdese, Maria Bonafede, il «Ruini»
dei valdesi, nella modesta sede vicino alla Stazione Termini. «Per motivi etici
avevamo rinunciato alle quote non espresse, ma nel 2000, visto l´uso che ne
faceva lo Stato, le abbiamo chiese. Abbiamo incontrato governi di destra e di
sinistra, il vecchio Letta e il nuovo. Ogni volta ci rinviano. Se la ottenessimo
oggi, la vedremmo solo nel 2010. Lo Stato anticipa i soldi alla Cei, ma agli
altri li versa con tre anni di ritardo».
Ai valdesi sono andati nel 2006 circa 5 milioni 700 mila euro, ma avrebbero
diritto a oltre 13 milioni. Il resto lo trattiene lo Stato. La Tavola Valdese
usa i soldi dell´otto per mille al 94 per cento per la carità e il rimanente
alla pubblicità. I pastori valdesi vivono delle donazioni spontanee. Lo
stipendio base, uguale dalla «moderatrice» all´ultimo pastore, è di 650 euro al
mese. Maria Bonafede spiega: «I soldi dell´otto per mille arrivano dalla società
e vi debbono tornare. Se una Chiesa non riesce a mantenersi con le libere
offerte, è segno che Dio non vuole farla sopravvivere.
Curzio Maltese Repubblica 3.10.07
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