Dove cominciano rabbia e paura
fenomenologia di uno spazio urbano

Un mondo da reinterpretare che vive tra creatività e violenza, slanci e rassegnazione
Le rivolte a Parigi, gli slums londinesi, i ghetti di New York, le favelas brasiliane


Nella Bibbia si legge che Dio portò il suo popolo fuori dall´Egitto guidandolo con una colonna di nubi di giorno e una colonna di fuoco la notte. Oggi la gioventù povera dei ghetti extraurbani della Francia parla a tutti noi attraverso una colonna di fumo di giorno e una colonna di fuoco la notte. Le loro sono colonne fatte di automobili date alle fiamme – oltre 7000 ad oggi – ma questa violenza apparentemente gratuita ha un messaggio chiaro quanto quello seguito da Mosè. L´Europa, che ai loro genitori immigrati sembrava la terra promessa, si è trasformata in una nuova schiavitù.
«Sai», ha detto un ragazzo di nome Bilal a un giornalista in visita al complesso di edilizia popolare 112 di Aubervilliers, «Brandire una molotov è un modo di gridare aiuto. Ti mancano le parole per dire il tuo disagio, sai solo esprimerti dando fuoco». Quindi sanno che cosa stanno facendo. Parlano tramite il fuoco.

Dir questo non significa giustificare il ricorso alla violenza. Nulla al mondo può giustificare il pestaggio a morte di un anziano innocente passante, Jean-Jacques le Chenadec, un operaio in pensione che stando alle cronache cercava solo di estinguere le fiamme in un cassonetto vicino a casa sua. Nulla. Ma anche una volta ristabilita, ce lo auguriamo, una fragile pace sociale attraverso la drastica misura di dichiarare lo stato d´emergenza, dobbiamo iniziare a capire quello che vien detto tramite le fiamme.
Alcuni commentatori hanno contrapposto la Gran Bretagna pacifica e multiculturale alla Francia esplosiva e monoculturale. A mio giudizio si tratta di un pericoloso atto di autocompiacimento. Ovviamente il messaggio delle Renault e delle Citroen in fiamme è indirizzato innanzitutto e soprattutto ai leader francesi. Nessun paese in Europa registra una percentuale più elevata di discendenti di immigrati, in gran parte provenienti dal continente africano e in gran parte musulmani: sei o sette milioni, secondo le stime, ovvero più del dieci per cento della popolazione.
In pochi altri paesi europei i discendenti degli immigrati sono così drasticamente ghettizzati come nei poveri complessi di edilizia popolare stile quello numero 112 di Aubervilliers. In pochi altri paesi un ministro dell´interno potrebbe inveire contro i rivoltosi definendoli "feccia", e mantenere la popolarità di cui gode nel paese. Il fatto che il primo ministro francese in un momento come questo sia un aristocratico che intinge frequentemente la penna nell´inchiostro rosso, rende difficile resistere alla tentazione di parlare di un ancien régime. In realtà pochi paesi europei hanno un´ élite metropolitana più esclusiva.

Solo pochi discendenti degli immigranti trans-mediterranei del dopoguerra fanno comparsa nella vita pubblica francese. La loro posizione a mio giudizio è perfettamente condensata in una foto recentemente pubblicata da Le Monde in cui l´aristocratico primo ministro dalle chiome argentee Dominique de Villepin, salutava Monsieur Azouz Begag, ministro per le Pari opportunità, con una pacca sulla testa. Pat, pat, caro piccolo Azouz. Invece la realtà sociale delle "pari opportunità" è riassunta al meglio dal titolo del libro di un imprenditore nato in Marocco, L´ascensore sociale è rotto, io faccio le scale. Esistono prove schiaccianti che nel mercato del lavoro francese il razzismo è endemico. Lo scrittore britannico Jonathan Fenby narra la storia di un artista abitante in una di quelle case popolari che presenta due domande di impiego ad un canale della televisione pubblica. In una indicava il suo nome africano e il vero indirizzo, nell´altra un nome francese e un indirizzo migliore. La prima lettera ottiene un rifiuto, la seconda la convocazione per un colloquio.

Inoltre la Francia rappresenta in Europa l´estremo tentativo di assimilazione. Nessun altro paese europeo ha dimostrato tanta aggressiva rigidità nel bandire il velo islamico. Nessuno ha fatto minori concessioni alla diversità culturale. Come osserva Alain Duhamel nel suo saggio Le desarroi français, «L´unica comunità che la Francia riconosce è la comunità nazionale».
Tutto questo è tipico, o quanto meno rappresentato nella forma più estrema, dalla Repubblica Francese. Ma non fatevi illusioni, si tratta di un problema che affligge l´Europa intera.

Erano immigrati di seconda generazione nella Gran Bretagna pacifica e multiculturale gli autori dei ben più atroci attentati di luglio a Londra. In realtà nella forma della loro rivolta, Bilal e i suoi compagni in un certo senso parlano, pur senza parole, un francese vecchio stampo. Perché le proteste spettacolari, ma in definitiva non molto sanguinose, con blocchi stradali e barricate, rientrano in una tradizione rivoluzionaria francese vecchia di più di duecento anni. I giovani immigrati francesi di seconda generazione hanno dato alle fiamme delle automobili, quelli britannici hanno bruciato esseri umani. Che cosa preferite? E l´Olanda, pacifica e multiculturale ha assistito lo scorso anno all´assassinio rituale di Theo van Gogh.
La maggior parte delle società dell´Europa Occidentale contano grandi comunità di origine immigrata, in cui regna lo scontento. Siamo stati noi all´inizio a portarli qui, in parte come retaggio dei nostri imperi europei in ritirata, in parte come manodopera per fare quei lavori umili che gli europei rifiutavano negli anni di impressionante crescita economica dopo il 1945. Li abbiamo tenuti per lo più a distanza, trattandoli come naturalizzati invece che come cittadini europei a pieno titolo.

In Germania ad esempio i cosiddetti Gastarbeiter provenienti dalla Turchia, fino a poco tempo fa, non venivano per lo più invitati a prendere la cittadinanza tedesca, anche se da trent´anni vivevano in Germania. E la "guerra al terrorismo" dopo l´11 settembre ha aggiunto nuovi motivi all´alienazione.
E´ un problema che tocca l´Europa intera, sono tentato di dire che è il problema dell´Europa intera o quanto meno al primo posto pari merito con la necessità di creare più posti di lavoro. I due aspetti sono strettamente legati. In molti dei complessi di edilizia popolare che oggi parlano con il fuoco la disoccupazione tocca il quaranta per cento, e l´età media è sotto i trent´anni. Intanto i disoccupati più anziani, europei di nascita, sono fortemente rappresentati nell´elettorato del Fronte Nazionale di Jean-Marie le Pen e di altri partiti ostili agli immigrati in tutta Europa. Questa situazione ha tutte le caratteristiche di una spirale discendente.

In base ad ogni ragionevole previsione la popolazione di discendenza immigrata e di cultura musulmana in Europa crescerà in maniera significativa nel prossimo decennio, sia attraverso più elevati tassi relativi di natalità che a seguito di ulteriore immigrazione. Se non riusciamo a far sentire a casa neppure coloro che vivono in Europa dalla nascita, dovremo pagare un prezzo alto. Settemila auto in fiamme sembreranno solo un´ hors-d´oeuvre.
Affrontare i loro problemi socioeconomici è solo metà della soluzione, ma è difficilissimo perché la chiave sono i posti di lavoro e di posti di lavoro se ne creano più in Asia e in America che in Europa. L´altra metà della soluzione ha a che fare con la cittadinanza, con l´identità e il modo di pensare quotidiano di ciascuno dei loro concittadini.

Quella europea dovrebbe essere l´identità civica superiore che permette agli immigrati e ai discendenti degli immigrati di sentirsi a casa. A dire il vero dovrebbe riuscire più facile, in teoria, sentirsi turco-europeo, algerino-europeo o marocchino-europeo piuttosto che turco-tedesco, franco-algerino o ispano-marocchino, perché quella europea è per definizione un´identità più ampia, omnicomprensiva. Ma non è facile. Per una qualche ragione non funziona così. Gli europei di nascita possono sentirsi franco-europei, tedesco-europei o ispano-europei. Alcuni, noi pochi eletti, membri di una fratellanza, persino britannico-europei. Ed esistono esempi di individui che si sentono davvero , diciamo pakistano-britannici o franco-tunisini. Ma raramente basta il trattino. Per affrontare quelli che sono i maggiori problemi del nostro continente e non solo della Francia, non dobbiamo fare altro che ridefinire che cosa significa essere europei.

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IMOTHY GARTON ASH    la Repubblica 11-11-05