Dove abita il razzismo
Il sistema di valori e disvalori, stili di vita e di comportamento,
l’anarchia e la sregolatezza quali tratti unificanti dell’omologazione
culturale, veniva qualificata da Pasolini come «fascismo». Ha senso oggi
utilizzare quella categoria? Penso di sì, e proprio nel significato
attribuitogli da Pasolini. Non è prerogativa esclusiva della destra ma con la
destra ha affinità.
Circola da tempo una cattiva retorica sotto-pasoliniana, rilanciata ed esaltata
dai «fatti del Pigneto». Un gran parlare, signora mia, di omologazione
culturale, degrado morale, crisi delle comunità e degli stili di vita
tradizionali; e un esercitarsi in considerazioni addirittura più antropologiche
che sociologiche sulla decadenza di «tutte le identità collettive». Sia chiaro:
c’è qualcosa di vero in ciò. E, tuttavia, analizzare quanto sta accadendo nelle
nostre città e metropoli (da Verona a Roma) solo, o principalmente, nei termini
di un dibattito culturale, che privilegia i processi di disgregazione
comunitaria e le forme nuove dell'irrazionalità, rischia di essere -se non
fuorviante- perlomeno dispersivo. Non a caso, sia l’omicidio di Verona che i
fatti del Pigneto risultano equiparati da una precipitosa esclusione
dell'analisi politica, a tutto vantaggio di quella appunto «antropologica». Si
dimentica che proprio il PierPaolo Pasolini che, se non citato, viene
costantemente evocato, nell'analizzare i processi degenerativi della cultura
proletaria e la sua progressiva «borghesizzazione», arrivava a utilizzare, alla
fine, categorie politiche.
Il fascismo che richiamava era, evidentemente, non quello ideologico e tantomeno
di regime, bensì quello culturale e, ancor più, «mentale».
Tale evocazione è ovviamente opinabile, ma non è certo campata in aria. Il
sistema di valori e disvalori, stili di vita e di comportamento, l’anarchia e la
sregolatezza quali tratti unificanti di una omologazione culturale
inarrestabile, veniva qualificata da Pasolini come «fascismo»: non per
criminalizzare quanti dal fascismo storico derivavano la loro collocazione
politica - in altri termini il Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante -
bensì per allargare ed estendere quella categoria fino a vagheggiare la
formazione di una sorta di nuovo «carattere nazionale». Ha senso utilizzare
quella categoria oggi? Penso di sì, e proprio nel significato attribuitogli da
Pasolini. Ciò esige una chiarificazione preliminare: il «fascismo» e, come in
questo caso, il «razzismo», non sono ovviamente attribuibili alla sola destra
politica e riducibili ad essa: e tanto meno alla sola destra estrema,
extraparlamentare e - sotto alcuni aspetti - neonazista. Ciò per alcune ragioni:
come insegna l’esperienza storica la sinistra non è immune da tentazioni
xenofobe, e in alcune circostanze, apertamente razzistiche. Tantomeno lo è,
immune da tentazioni xenofobe, una sinistra come quella attuale, che ha visto
sgretolarsi, o comunque vacillare, alcune certezze ideologiche e valoriali. Come
sempre, pertanto, è possibile rinvenire tracce di «razzismo» (e con maggiore
frequenza di cultura reazionaria), in numerose componenti ed espressioni del
campo che si autodefinisce di «sinistra». Resta, tuttavia, un dato. Tra
«razzismo» e «neofascismo» e destra politica, in specie italiana, esiste
incontrovertibilmente una maggiore affinità di quella intercorrente con la
sinistra politica: si tratta di una affinità culturale-ideologica, ma anche di
una sorta di corrività rinvenibile nei gruppi dirigenti e in settori organizzati
delle formazioni interne al centro destra. È questo, dunque, che autorizza a far
ricorso a quelle categorie politiche. In altre parole il «razzismo» e il
«neofascismo» esprimono un sistema di valori che non è prerogativa esclusiva
dell’area di destra, ma trova in quella stessa area assonanze culturali,
intersecazioni, simpatie e, comunque, una maggiore omertà. Più in generale,
anche quando il ricorso a linguaggi e argomenti di tipo «razzistico» o «neofascistico»
si trovano in aree della sinistra, ciò non deve essere ritenuto un
«mascheramento» o una «infiltrazione», ma appunto l’ampliarsi di quelle
categorie oltre il perimetro delle sue radici originarie, il suo diffondersi
parallelamente alla crisi delle culture e delle comunità tradizionali, il loro
attrarre umori e sentimenti, a prescindere dalla scelta politica e di voto dei
soggetti coinvolti. E allora, quel Che Guevara tatuato sull’avambraccio
dell’«eroe del Pigneto»... significa, in realtà, ben poco. Quasi nulla. Se si
andasse a vedere l’iconografia tatuata sui corpi reclusi nelle prigioni
italiane, si scoprirebbe agevolmente un caotico intreccio di simboli, immagini,
figure, slogan, che ha il solo effetto di trasmettere la sensazione di una
disperata ricerca di riferimenti cui aggrapparsi. Non è necessario pertanto, in
questo caso, riferirsi al tradizionale sincretismo di alcune sottoculture della
destra radicale che da decenni utilizza simboli e icone della sinistra estrema:
c’è anche questo, ma c’è soprattutto - per chi si tatua un avambraccio, o compie
gesti analoghi - il senso che quel simbolo immediatamente trasmette: un
avvicinamento bruciante e semplificato tra il simbolo e ciò che dice. Nessuna
mediazione, nessuna contestualizzazione e nessuna interpretazione, oltre il suo
messaggio più diretto. Che Guevara, qui, è semplicemente uno che insorge.
Tanto più, va detto, che non è il razzismo classico - quello basato sulla
presunzione di superiorità etnico-gerarchica - la forma assunta oggi
dall’ostilità verso lo straniero. È, piuttosto, una miscela composita e
complessa, eppure a ben vedere tutt’altro che originale, dove intervengono sia
pulsioni e argomenti esplicitamente di destra, sia pulsioni ed argomenti
esplicitamente di sinistra, sia, infine, pulsioni e argomenti che attengono a
quei processi di crisi dell’identità comunitaria o, meglio, di tutte le identità
dotate di un qualche senso razionale e di una qualche capacità di accoglienza.
Ciò viene sostituito da identità chiuse, che al paradigma della chiusura
affidano interamente l’enfasi della propria soggettività e il senso della
propria relazione (o mancata relazione) con il mondo. Ma qui si torna - si deve
tornare - alla politica. Se la xenofobia (alla lettera: paura dello straniero) è
una miscela cui contribuiscono emozioni e dinamiche di entrambi i campi
politici, la responsabilità di questi ultimi è estremamente impegnativa. A essi,
alla destra e alla sinistra, spetta il compito di elaborare strategie adeguate a
garantire sicurezza alla collettività, politiche di integrazione culturale e
sociale degli stranieri, ma anche un intransigente e intelligente ruolo
pedagogico. È diventato luogo comune della mentalità nazionale un ardito
sillogismo, cui offrono credibilità le maggiori fonti di informazione: dal
momento che tra gli immigrati irregolari c’è chi commette reato, lo straniero
irregolare diventa la minaccia; dal momento che le popolazioni locali temono
quella minaccia, quella minaccia diventa la principale domanda politica; dal
momento che punto prioritario del programma politico è la difesa dall’immigrato
irregolare, la cancellazione dell’immigrato irregolare («fuori tutti i
clandestini») viene proposta come la soluzione politica al problema
dell’insicurezza collettiva e delle ansie sociali. Ciò ha prodotto quel
sillogismo di cui si diceva, diventato rigido e ferreo come - appunto - un
dispositivo di sicurezza, una tripla mandata, un chiavistello chiodato.
Quel sillogismo si fonda, sull’equazione immigrato = clandestino = criminale. È
tale equazione che le culture politiche di sinistra e, a mio avviso, anche le
culture politiche di destra che non vogliano indulgere in tentazioni
razzistiche, devono decisamente respingere. Il respingerle non significa
combattere contro quella equazione. Ciò è, sul piano della retorica, fin troppo
facile. Si tratta, piuttosto, di sottrarre l’intero discorso pubblico e il
complesso dei messaggi che si inviano (e dunque, cruciale ruolo del sistema dei
media) alle molte implicazioni che quell’equazione comporta. Alle molte
implicazioni, cioè, corrispondenti alle tante pieghe e alle infinite espressioni
in cui quell’equazione si manifesta (o meglio: si cela), nel discorso
quotidiano. È qui, infatti, che quell’equazione si riproduce, si diffonde,
diventa verità incontrovertibile. Si pensi a quel dettaglio (che dettaglio è
solo in apparenza) costituito dal ricorso al termine clandestino. A rigor di
logica e di diritto, tale termine è improprio o comunque sproporzionato. Nella
grandissima parte dei casi, quel clandestino è uno straniero titolare di un
permesso di soggiorno scaduto o inadeguato, tale da comportare un illecito
amministrativo. Finora, infatti, di questo si è trattato: dell’infrazione alle
norme sull’ingresso e la permanenza nel territorio nazionale. Non un reato,
appunto, ma un illecito.
E la grande differenza conseguente alla diversa qualificazione di quel fatto,
(illecito amministrativo o fattispecie penale) si esprime nell’apparato
sanzionatorio che l’una o l’altra classificazione comporta: se siamo in presenza
di un illecito amministrativo non è prevista la detenzione; se siamo in presenza
di un reato, la detenzione è possibile. Ma il ricorso a quel termine
«clandestino», è profondamente e irreparabilmente denotativo e discriminatorio.
Per capirci: l’irregolarità è sanabile, la clandestinità è solo punibile. Ecco,
allora, un punto delicatissimo sul quale, davvero tutti - e senza eccezione (nel
corso di una puntata di AnnoZero, si è parlato pressoché esclusivamente di
«clandestini»)- risultano distratti. Si è consentito così che per una
popolazione di numerose centinaia di migliaia di individui valesse una equazione
grossolana e palesemente falsa.
Ovvero: in Italia si trovano tra i settecento mila e il milione di immigrati
irregolari, equiparati a settecentomila-un milione di criminali. Ma in quella
popolazione di irregolari, come è noto, ma com’è altrettanto facilmente
dimenticato, ci sono alcune centinaia di migliaia di badanti e colf, di edili e
lavapiatti, di metalmeccanici, pescatori, contadini, pastori, artigiani…Tutto
ciò, evidentemente, non significa in alcun modo che l’Italia - per rispondere
alla più triviale e ricorrente delle domande - sia diventata un paese
«razzista». Ma che si stia incattivendo, questo sì.
Luigi Manconi l’Unità 7.6.08