Dottori

Era un mondo di analfabeti il cui linguaggio risultava quasi incomprensibile ai dotti, così come alla plebe incomprensibile (e minaccioso) sembrava l’eloquio dei Signori. Ignoranza e superstizione dominavano le popolazioni, stringevano in una morsa di paura gli abitanti di un’Europa devastata da guerre senza fine e a cui sembrava di avvertire da lontano il galoppo dei cavalli dell’Orda d’Oro. Le eclissi di sole o di luna, le comete, i terremoti, le nascite di animali deformi nelle stalle o nei pollai, le epilessie, la lebbra seminavano nei villaggi un terrore che si univa a quello che fermentava nell’oscurità delle notti, in cui le streghe celebravano orge con diavoli dalle terga caudate. Dio mandava carestie e alluvioni per punire peccati che la gente non sapeva di avere commesso. Spaventose epidemie falcidiavano le popolazioni, ma anche quando le catastrofi non azzannavano l’intera umanità, la grandissima maggioranza della gente moriva senza che mai un medico si fosse chinato sui suoi affanni. In quei tempi, tuttavia – il Medioevo dei secoli XIII e XIV – alcuni ecclesiastici o laici di nobile casato o uomini mantenuti da generosi mecenati incarnarono la figura del doctor universalis, colui che conosceva tutto lo scibile umano. Teologo, filosofo, poeta, giurista, geografo e talvolta scienziato, il doctor universalis aveva letto e riletto non soltanto la Bibbia e i libri liturgici ma tutti i venti tomi della sua biblioteca o i cento della biblioteca abbaziale: era, insieme al Papa, l’unico che potesse spiegare i misteri delle anime, dei corpi e dell’universo intero.

Nessuno, dopo questi uomini (Alan di Lilla, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino…), avrebbe incarnato un sapere enciclopedico così vasto e indiscutibile. Profferivano sentenze che delineavano la civiltà, la verità, la giustizia. Garantivano certezze, placavano dubbi. Ma la storia andò avanti e la scienza e le tecniche moltiplicarono le loro acquisizioni. Con l’aiuto di Gutenberg e dei suoi discendenti, i libri negli scaffali aumentarono impetuosamente di numero e di pagine ma le differenze fra i loro contenuti andarono crescendo. Poco a poco i dotti furono costretti ad arrendersi a una dolorosa constatazione: se si voleva progredire nella civiltà, era inevitabile rompere quella che era sembrata una assoluta necessità di unità fra i saperi. Cominciava a nascere la specializzazione, in cui gli studiosi dovevano, per economia di tempo e di forze, muoversi in aree delimitate, talvolta in isole lontane l’una dall’altra. Etica e scienze naturali cominciarono a denegarsi reciprocamente o almeno a considerarsi detentrici di verità ultime che gli “altri” non possedevano. La storia europea è piena di queste incomprensioni, diffidenze e ignoranze del pensiero altrui e delle altrui esperienze. Difficile, forse sempre più difficile, si è fatto il dialogo fra scienze, fra scienze e filosofia, fra scienze e teologia. Anche quando, generosamente, si sforzino di capirsi, gli “specialisti” scoprono che le parole con le quali cercano di esprimersi hanno per gli “altri” un diverso significato. Noi siamo i figli di questo dissidio, che talvolta ci getta in tormentosa confusione. Neppure la crescita dell’istruzione di base - immensa conquista della civiltà, suprema conquista della democrazia - ha risolto il problema di definire il nostro essere. È cresciuta enormemente la massa di informazioni di cui gli individui dispongono oggi, quindi la possibilità di costruire ragionamenti e di scegliere la propria etica, ma in realtà il semplice nozionismo non basta. Il grande pedagogista brasiliano Paolo Freire ha mostrato come vi sia persino un’alfabetizzazione con la quale il Mercato solleva ondate di conformismo invece che di libertà interiore.

La televisione, maestra principale del nostro pensare, attiva questo processo di banalizzazione: intorno a un fatto “importante” (ma basta vedere la programmazione di “Porta a Porta” per constatare quanto sia frivola quella definizione) si crea un dibattito ma, secondo i moduli dell’audience, quel dibattito somiglia, per lo più, a una rissa. Si orchestrano personaggi grintosi, i maleducati, gli “esperti” capaci di azzuffarsi con i loro simili. La possibilità di fornire chiavi interpretative è annullata dalla scelta dei contendenti. Davanti al piccolo schermo, come diceva Dante: “Un Marcel (cioè un leader) diventa ogni villan che parteggiando viene”. E anche più triste è la presenza (del resto rara) di autentici intellettuali, i quali accettano sorridendo le “regole del gioco”: “Professore, mancano due minuti alla pubblicità. Può spiegarci brevemente che cosa si intende per senso della vita?”. Scrivo queste cose (come certamente avete già compreso) a pochi giorni dai furibondi dibattiti sul caso di Eluana. In accordo con le teorie del sociologo Mac Luhan, il vero evento non è stato la vicenda di un padre eroicamente fedele alla volontà della figlia ma l’acrimonia delle discussioni che hanno lasciato il grande pubblico alla mercé di emozioni da elaborare faticosamente. Poiché sono fra i tanti che sono usciti confusi dalla nebbia ideologica in cui la storia è stata avvolta, vorrei provare a riflettere con voi su quello che mi sembra il quesito fondamentale: cos’è vita? Lo farò, per non impantanarmi nelle astrazioni, parlando di tre miei amici. Laura A. è, in seguito a un grave incidente stradale, tetraplegica: vuol dire che non muove braccia e gambe, soltanto un polso e una mano, con la quale però non sempre riesce ad afferrare oggetti e soltanto leggeri. L’avevo conosciuta, ragazza, trent’anni fa, l’anno scorso l’ho ritrovata ricoverata al Gervasutta, un istituto di riabilitazione, a Udine. Guida con perizia una carrozzina elettrica; si è fatta costruire una specie di braccialetto con un punzone con il quale riesce a scrivere al computer. Al Gervasutta è stata curata con profonde umanità e bravura terapeutica, ma Laura è soprattutto una lottatrice. Adesso che è tornata a casa, so che al Gervasutta la ricordano e la propongono, a chi è tentato di lasciarsi andare, come esempio di sorridente coraggio, di voglia di vivere. Anche il mio amico Luigino Rocchi (1932-1979) era diventato tetraplegico, a causa di una distrofia Scriveva a malati disperati per consolarli, lui che era un crocifisso vivente: e parlava a una radio locale e amava pregare in compagnia e in compagnia ridere e scherzare con la sua voce grossa, di popolano marchigiano. Dicono che lo faranno santo. Lasciò scritto: “Essere capaci di amare significa possedere la capacità di restare vivi e non di apparire vivi. La vera sofferenza, la terribile sofferenza, quella che veramente mi fa orrore, è non essere più capaci di amare”.

So che Rosanna Benzi, la ragazza nel polmone d’acciaio”, diventata famosa negli anni ’80, di notte, qualche volta, piangeva; me lo raccontò un giorno la sua mamma, che viveva con lei all’ospedale San Martino di Genova: “La mattina la trovo con i padiglioni delle orecchie pieni di lacrime”. Tuttavia nessuno vide mai piangere Rosanna nelle sue giornate. Una rete di solidarietà le offriva continue occasioni di impegno. Nella camera della mia amica si parlava di Palestina e di scoutismo, si redigeva un giornale, “Gli ultimi”, che duramente contrastava le mancanze della società nei confronti di chi soffriva emarginazione e negazione dei propri diritti. Capitava di non avvertire più il battito soffocato della macchina che teneva viva Rosanna. Rosanna vi rimase dentro 29 anni. Qualche volta le suore del Pronto Soccorso portavano a conoscerla i tentati suicidi. Lei scrisse un libro intitolato “Il vizio di vivere”. Concludeva: “Sono contenta di aver vissuto vent’anni che valeva la pena di vivere”. Mi pare di comprendere che dall’esperienza di questi amici (e maestri) si può ricavare una prima definizione di “vita”: vita è possibilità di relazionarsi ad altri in uno scambio di messaggi e di valori. Ma se muovo un altro passo, dalle esperienze della mia lunga vita all’astrazione dei concetti, ecco che mi vedo costretto ad ammettere che quella definizione è stretta. Mi è capitato di conoscere persone deformi o cieche o mute o mutilate (o molte di queste cose insieme) e per di più condannate dalla nostra società alla solitudine della miseria; e di scoprire con meraviglia in loro, se appena gli dedicavo qualche attenzione, capacità di saggezza, di umorismo, persino di cultura. E non basta. Mi è capitato di vedere più volte, anche recentemente, un documentario nazista sui “sotto uomini” e sui “pazzi” da uccidere perché privi di una vita “degna”. Documento spietato, funzionale al razzismodell’eugenetica che, fra il 1936 e la fine del Terzo Reich, fece più di 70 mila vittime : eppure anche in quella sequela di “mostri” e di dementi era impossibile non cogliere il lampo di un sorriso, il luccicare di una lacrima, o la manina di un bimbo tesa in confidenza assoluta al suo carnefice. Ho capito perché contro quel vero e proprio genocidio due vescovi tedeschi osarono levare con voce forte la loro condanna e uno dei più noti sacerdoti berlinesi, poi proclamato santo dalla Chiesa, Bernhard Lichtenberg, avendo più volte predicato contro l’eccidio, fu arrestato e morì mentre veniva deportato a Dachau. Mi pare che questi maestri ci insegnino che vita è vita, anche quando le relazioni fra esseri umani sono a un livello elementare, poco più che biologico. La razionalità, brillantemente sostenuta dai carnefici, in questi casi deve cedere al mistero se non vuole spalancare le porte a un’ immensa carneficina. Riconoscere la vita, difendere la vita anche quando appare misera è un dovere assoluto.

Ma Peppino Englaro, con la sua tragica eroica lotta perché fossero riconosciute le scelte della figlia, ci ha posto davanti a un’altra terribile realtà; e questa realtà è che oggi la scienza è in grado di perpetuare per anni e anni una “vita” in cui ogni interscambio relazionale con altre persone non esiste più o esiste soltanto in modo subliminale - e ciò mentre è da escludere che il “paziente” possa tornare a uno stato di almeno relativo benessere. Nel primo caso, mi sembra ovvio che non ci sia più vita ma “esistenza” artificiale; nel secondo caso, quello di una impossibilità di comunicazione con l’”altro”, si tratterebbe di uno spaventoso ergastolo, nella prigione di un corpo inerte, inflitto a un innocente in nome di un terribile accanimento sanitario, di una specie di spietato narcisismo del medico curante, il quale non vuole arrendersi alla frustrazione della morte di un suo “assistito” o si lascia guidare dalla paura di conseguenze giudiziarie. Non oso pensare alla mia sofferenza se per anni dovessi intendere intorno a me voci alle quali non posso rispondere o voci che decidono il mio destino senza che io possa interloquire; se io dovessi vivere lunghissime ore di solitudine o ascoltare il pianto e la fatica dei miei cari intorno al mio corpo senza poterli confortare, in una perpetua agonia. L’introduzione del testamento biologico con la possibilità che il malato decida quale vita gli sembri “degna” o di accettare di lasciarsi andare alla pace della morte sembra allora davvero necessaria, di fronte agli sviluppi di una tecnologia tanto più spietata perché non sorretta da altri ideali che quelli della ricerca scientifica; e il fatto che nella vicenda Englaro tanta parte della mia Chiesa non abbia saputo che ricorrere all’aridità dei manuali mi ha fatto male al cuore....

Ettore Masina      in “lettera” n. 139 del febbraio 2009