La tragedia dell’indifferenza…..

 Procreazione: neoconservatori ?No, disimpegnati
La prima ricerca a campione sull'astensionismo al referendum del 12 e 13 giugno
ANDREA FABOZZI

La religione determina le scelte politiche, come sostiene il presidente del senato Marcello Pera? Dunque italiani ubbidienti cattolici devoti al cardinal Camillo Ruini e al suo invito all'astensione? La realtà potrebbe essere molto diversa, almeno stando al primo sondaggio di opinione realizzato all'indomani del fallimento dei referendum sulla procreazione assistita di dieci giorni fa.

Dietro il clamoroso crollo dei votanti non ci sarebbero i precetti della chiesa e nemmeno l'invito ad andare al mare amplificato da quei politici sensibili ai desideri del Vaticano.

A vincere ancora una volta sarebbe stato il disimpegno e il disinteresse. Un dato interessante ma sicuramente non una sorpresa proprio per il fronte astensionista. Che su questo disinteresse ha puntato e ha puntato bene.

Il sondaggio è stato realizzato tra il 14 e il 16 giugno (dunque subito dopo la consultazione del 12 e 13) dall'istituto Coesis research di Milano (anche committente della ricerca). Il direttore dell'istituto Alessandro Amadori ha anticipato i risultati al manifesto. Sono state intervistate 800 persone, campione rappresentativo degli elettori potenziali.

Il 24% di coloro che si sono astenuti ha spiegato di averlo fatto sulla base di una precisa scelta politica. E' l'area dell'«astensionismo militante», molto più ristretta di quanto Marcello Pera o altri teorici dello scontro di civiltà formato embrione potrebbero auspicare. Soprattutto se comparata a un'area più ampia che i ricercatori hanno battezzato l'area del «disinteresse» che raggiunge il 31% degli intervistati (ed è così articolata: «Non mi interessavano gli argomenti», 14%, «Non ero in grado di prendere una decisione», 12%, «Non ero informato/ non ho compreso l'argomento», 5%). Contigua a quest'area c'è quella del «disimpegno», che pesa per il 28% (è la somma di più risposte: «Malattia o imprevisto», 10%, «Ero via per il fine settimana, 9%, «Non mi sono ricordato di andare a votare», 3%, «Altro/ non sa/ non risponde», 6%).

I sondaggisti del Coesis hanno poi individuato una quarta area di astensionisti, particolarmente critici con lo strumento referendario. La somma di coloro che non andando alle urne hanno manifestato il loro rigetto per il referendum («Non ritenevo il referendum uno strumento adatto a un tema così delicato», 10%, «Non voto mai», 3%, «Ero convinto che non si sarebbe raggiunto il quorum», 3%) raggiunge il 17%.

In sintesi stando ai risultati di questo primo sondaggio meno di un quarto degli astensionisti hanno ascoltato i messaggi del variegato fronte anti abrogazionista e sono rimasti lontani dai seggi perché convinti che la legge 40 sia la migliore legge possibile.

Si può notare che sono meno di quelli che hanno fatto invece la scelta opposta, sono cioè consapevolmente andati a votare (25,9% degli elettori). La parte maggiore del corpaccione astensionista viene stretta dalla ricerca nella categoria disimpegno-disinteresse: 59%. Sono i veri vincitori del referendum fallito e, si può star certi, sono pronti a partire da posizioni di vantaggio anche per i prossimi referendum. «L'Italia non è stata affatto invasa da un'ondata montante di spirito neoconservatore o di attivismo religioso», si legge nella relazione che accompagna i risultati del sondaggio.

Segue la conclusione, non sapremmo dire se rassicurante o di maggior sconforto: «Non stiamo diventando ancora neoconservatori, più semplicemente siamo un popolo disimpegnato».

il manifesto 22/06/05

 

 

 

La tragedia dell’indifferenza…

 DOPO IL REFERENDUM
Il triste «valore» del quotidiano
GIOVANNI CESAREO

«Ciascuno per sé e Dio per tutti». Ho proprio l'impressione che questo antico detto riassuma bene il senso della motivazione prima dell'astensionismo che ha affondato il referendum sulla procreazione assistita. Con questo non voglio dire che non hanno alcuna importanza i compunti o trionfalistici «approfondimenti» che ci sono stati offerti da tante parti in questi giorni. Voglio dire soltanto che, temo, nella stragrande maggioranza degli italiani la decisione di non partecipare al voto è stata determinata dall'indifferenza e dal disinteresse per quel che non li tocca direttamente, come ha scritto Rossana Rossanda. E proprio per questo non c'è da stupirsi se quest'alluvione di astensioni è seguita alle altissime percentuali di voti per il centrosinistra nelle amministrative. Il governo di Comuni, Province e Regioni tocca direttamente tutti, no? E, d'altra parte, è tuttora da verificare quanti di quei voti siano stati di convinta approvazione del centrosinistra oppure soltanto di polemico scontento per il governo delle amministrazioni di centrodestra. Credo sia utile chiedersi se questo egoismo astensionistico non affondi ancora una volta le sue radici in quella permanente «cultura del quotidiano», fondata innanzitutto sull'egoismo e sugli interessi immediati, che viene da lontano in questo nostro paese, e che sembrava si fosse evoluta in alcuni decenni del dopoguerra, almeno in una parte crescente della popolazione, e poi, invece, sembra sia tornata a dilagare. Quella «cultura del quotidiano» sulla quale la sinistra non ha mai lavorato abbastanza in profondità per cambiarla e alla quale, anzi, dagli anni Ottanta sembra si sia adattata. Si parla tanto di «valori». Non sarebbe il caso di chiedersi perché non si parla più di «ideali»? Per esempio, si è spesso affermato - da destra ma anche da sinistra - che il «valore» centrale oggi è la famiglia (ma il richiamo a «Dio, Patria, Famiglia» non mi pare risalga a tempi tanto recenti ...). Ora, si può anche passare per blasfemi se si dice che questo «valore» conduce a una visione ristretta ed egoistica del mondo, ma a me pare che proprio così sia. La famiglia è certamente un luogo degli affetti, ma guardare al mondo soprattutto nell'ottica della famiglia, non può che condurre appunto al «ciascuno per sé» o almeno «per i suoi». Il «valore» famiglia, tra l'altro, aveva un senso al tempo della famiglia contadina allargata, ne ha uno ben diverso al tempo della famiglia nucleare monogamica. Nel secondo caso, infatti, siamo al rifugio o alla gabbia: non per caso tanti giovani vogliono rimanere a lungo in famiglia ma non essere nel contempo condizionati dalla famiglia (anche se poi tanti di loro, nelle loro relazioni, continuano a sentire e agire secondo quanto detta quella «cultura del quotidiano»). Ora, proprio in occasione di un referendum come quello sulla procreazione assistita, quanto peso può avere avuto questa familistica «cultura del quotidiano»? Forse bisognerebbe partire dalle convinzioni di coloro - e sono pur sempre milioni - che hanno votato «sì» per riflettere e decidere di lavorare giorno dopo giorno e in profondità, con programmi e ideali forti, sulla «cultura del quotidiano» di questo nostro disgraziato paese.

 Il manifesto 21/06/05

 

 

 

Il sacro e la piazza

                                          

            Sarà difficile per le forze politiche di sinistra mettere tra parentesi il risultato del recente referendum. Non solo per le ricadute grezzamente politiche sulla coalizione di centrosinistra, con lo sconquasso della Margherita, la posizione di Rutelli arruolato tra i laici clericali e i teocons, lo sconcerto tra i prodiani e le inevitabili ricadute sulla posizione dei DS, etc. etc. Sarà difficile soprattutto non riconoscere la vittoria politica, anche se pragmaticamente politica, del duo Ruini-Ratzinger e delle gerarchie vaticane che sono riuscite a compattare le associazioni cattoliche più importanti CISL compresa.

Infatti, se è vero – come sostengono alcuni commentatori illuminati – che la vittoria della Chiesa cattolica è una vittoria “temporale” di una Chiesa secolarizzata che, superato il crollo della DC come partito dei cattolici, si presenta essa medesima come il partito dei cattolici senza mediazioni, è anche vero che essa si è presa l’appalto di valori etici e di norme di comportamento (gliel’abbiamo concesso?). Un vero centro di potere la cui forza ‘sovrapolitica’ unificante delle coscienze è stata preparata dalla potenza massmediatica di Giovanni Paolo II e dalla messa in scena della sua lunga e dolorosa agonia, assorbita in diretta da masse in preghiera, e ha trovato il suo culmine nella elezione di un Papa davvero occidentale.

Il sacro si è immediatamente tradotto nel credo cattolico, spettacolarizzato e presentato come valore unico e intoccabile, cemento superiore di una umanità confusa e atomizzata, bisognosa di forme grandiose di autoidentificazione. Il sacro non è in ciascuno di noi, il sacro è in piazza. Il sacro è la piazza. In una piazza così fatta trionfa il pensiero unico, dove la differenza diventa dissenso, la laicità viene stigmatizzata come laicismo di cui vergognarsi, elemento di antiquariato che deve lasciare il passo ad uno spirito laico compatibile, anzi riconoscente verso il magistero cattolico che ci dà valori. Il sacro non si presenta con il suo vero volto di proiezione dell’ansia di eternizzazione di un patriarcato che tende ad inglobare la differenza politica femminile in una femminilizzazionedisponibile’; anzi il sacro a volte si presenta camuffato da antiliberismo, da antimodernizzazione e da difesa della femminilità, quella vera. La Chiesa cattolica oggi opera a due livelli, da una parte come una sorta di sindacato (richiesta di tutela degli insegnati di religione cattolica, leggi regionali sulla famiglia e sui sacerdoti negli ospedali, soldi per le scuole private e per gli oratorî annessi alle parrocchie etc.), dall’altra parte si presenta come forza di coesione sociale superparte.

Che fare?

Occorre lucidamente evitare di considerare l’esito refendario un incidente di percorso sulla strada vittoriosa del centrosinistra alle prossime elezioni politiche. Il referendum, a mio avviso, ci costringe a riparametrare l’analisi della società italiana, in particolare di un Mezzogiorno che abbiamo forse un po’ troppo mitizzato. Il Sud – dice Nichi Vendola (Manifesto del 15 giugno) – ha percepito il dibattito sul referendum come “il riverbero di una contesa tra gli stati maggiori degli schieramenti politici, interna al ceto del palazzo”. Forse è vero, ma quello che dobbiamo chiederci è perché noi antiliberisti/e ma laici/laiche (credenti o no) non ci poniamo il problema di concorrere a costruire un progetto di etica civile che faccia delle nostre comunità o organizzazioni politiche non stati maggiori ma – arendtianamente – spazi pubblici di confronto, luoghi della politica? Non sarebbe questo un progetto di “vita activa” (ancora H. Arendt)?

Il successo della “vigliacca” campagna astensionista di Ruini, in particolare nel Sud, non è forse la spia dello stigma dell’antipolitica, per cui – come dice Rina Gagliardi (Liberazione del 15 giugno) – “la società italiana (io aggiungo, in particolare il Sud) può virare a sinistra, nel voto politico, nel desiderio di liberarsi di Berlusconi, ma in troppi suoi luoghi si è “desertificata” in quanto a valori e presenza della sinistra”? Io penso di si, come pure penso che, se è vero (io spero) che le recenti elezioni regionali hanno segnato la fine del berlusconismo, è anche vero che questo referendum, per come si sono collocate le forze “avversarie”, getta una luce ambigua sui limiti di un cambiamento che non è trasformazione sociale e culturale, dunque politica. Una politica che, appunto, senza etica (un’altra etica possibile) non vive, diventa politicismo, alternanza di ceti politici, gestione dell’esistente, infine delega.

Che c’è, insomma, tra la piazza entusiasta e commossa e il suo, i suoi leader? Ci può andar bene una sorta di affidamento salvifico? Una partecipazione vissuta come delega liberatoria? Quanto siamo riusciti nel Sud, noi Rifondazione, a vivere i movimenti come soggettività in movimento piuttosto che come masse in movimento? Quanto nei movimenti meridionali siamo riusciti a costruire una idea complessiva di alternatività, uno spazio pubblico di confronto, un’etica civile laica e antiliberista che si faccia parte attiva anche nell’affermazione dell’autodeterminazione delle donne fuori dalla cappa della sacralità degli embrioni e dell’onnipotenza della biogenetica?

Giacché di questo si è trattato, almeno per come molte di noi hanno condotto la campagna referendaria, nella quale sin dall’inizio abbiamo messo in evidenza la libertà femminile come autodeterminazione e insieme responsabilità, fuori dai rischi apocalittici di quello scientismo di cui parlano con preoccupazione Marcello Cini (Manifesto del 15 giugno) e Claudio Magris (Corsera del 15 giugno).

Abbiamo sempre lucidamente temuto i rischi della invasività della scienza o dell’affidamento all’”ultima scoperta”, ma abbiamo fiducia nelle scelte responsabili delle donne piuttosto che nei divieti del patriarcato vaticano e di maggioranze parlamentari compiacenti.

A un’autorità religiosa che chiede potere sulle anime attraverso leggi dello stato non possiamo appaltare il sacro. Questo tipo di sacro sarebbe onnivoro, punta a prenderci l’anima, come Mefistofele con Faust. Ma noi, che non vogliamo l’eterna giovinezza come Faust, noi che abbiamo il senso del limite, possiamo dire di no a Mefistofele. Diciamolo da subito. Da ora.

(di Imma Barbarossa Liberazione 17 giugno 2005

 

 

 

Io vescovo sono andato a votare
 

La riflessione del giorno dopo...
Mons. Luigi Bettazzi (Vescovo emerito di Ivrea)
14 giugno 2005

 

Ho votato per il Referendum, anche se a risultati già scontati.
Ho sempre partecipato alle civiche consultazioni, per principio e per la consapevolezza "storica" che le astensioni - oltreché accomunarti con chi lo è per spirito anticivile o per trascuratezza - non di rado (e questo...fin dal Risorgimento!) ti rendono corresponsabile della vittoria delle posizioni opposte.. Ero dunque particolarmente perplesso di fronte alla posizione tempestivamente proposta dai vertici della CEI ed inevitabilmente accolta dagli altri vescovi (logicamente anche dal Papa) e poi da tutta l'istituzione ecclesiale. Tanto più che a farla interpretare come un espediente astuto (anche se meno determinante del "no", che esclude per cinque anni il testo rifiutato), quasi l'invito ad un compattamento trasversale e manifesto dei cattolici, sopravveniva l'adesione entusiasta di tanti settori della politica, anche di quelli per sé meno interessati in quanto in grado di affrontare viaggi onerosi verso Paesi con leggi più permissive, o di quanti di solito non sono così sensibili a motivazioni ispirate da principi religiosi (denominati per l'occasione "atei devoti").
Una conferma veniva anche da una autorevole Rivista cattolica, che suggeriva di controllare la sera della domenica la percentuale dei votanti, perché nel caso di una forte partecipazione, ritenuta favorevole al "sì" (cioè alla modifica della legge) si potesse il lunedì mattina andare a votare per il "no".
Trovavo che in atmosfera di testimonianza aperta e di confronto fraterno sarebbe stato più sereno anche il dialogo con chi non esclude che l'identità umana possa riconoscersi nell'embrione solo al precisarsi del DNA individuale o all'annidamento nel seno materno, sembrando inconcepibile che la natura stessa (quindi il piano divino) disperdendo molti ovuli già fecondati, distrugga tante vite umane estromesse dallo sviluppo; facendo anche comprendere che, nell'incertezza, la Chiesa deve sostenere la parte più sicura.
Qualunque fosse l'opinione personale, mi sembrava dovermi comunque adeguare - tanto più come vescovo - all'opinione di S. Paolo il quale, posto di fronte al problema delle parti di animali immolati per i riti ufficiali e vendute a basso prezzo sul mercato, dichiarava di rinunciare alla sua disponibilità a servirsene - data l'inesistenza degli idoli - se questo avesse potuto scandalizzare chi invece si sarebbe sentito coinvolto dal culto idolatrino (v. 1 Cor cap. 8).
Mi ero chiesto se questa modalità di impegno, che potrà portare l raggiungimento di un traguardo immediato, non possa avere risvolti meno positivi nella sensibilità dei cittadini, forse degli stessi fedeli, a cui si è arrivati a dichiarare (anche da parte di un Cardinale!) che non solo votare "sì", ma semplicemente andare a votare fosse peccato mortale!
Spero di non incorrere nella conseguenza di essere considerato un cristiano "disobbediente" (anche se autorevolmente era stato precisato che si trattava solo di un suggerimento, sia pure forte e insistente).
Ma mi sembrava doveroso - a Referendum concluso per non turbare l'indirizzo ufficiale - tranquillizzare la coscienza di quanti hanno ritenuto che partecipare al voto fosse moralmente legittimo, quale testimonianza civica più efficace.

[18-06-2005 06:58 - Mons. Luigi Bettazzi ]

da  http://www.namaste-ostiglia.it/

 

Noi sconfitti loro vincitori effimeri


Tra i maggiori sconfitti nel referendum appena conclusosi, vi è sicuramente il concetto voltairiano "non condivido la tua opinione ma sono pronto a dare la vita perché tu possa esprimerla".
Invece i referendum sono stati vinti dal peggiore egoismo. E dall'astensionismo. Non dal cardinal Ruini o da "Scienza e vita", ma dall'apatia, dal disimpegno politico e civile, dal menefreghismo; hanno contribuito a questa fasulla vittoria i bacchettoni e i talebani di casa nostra. Ha perso, ormai in modo irreparabile, l'istituto referendario stesso e con esso l'unico modo che abbiamo per partecipare direttamente alla vita civile e politica del nostro Paese. E con il referendum ha perso anche la democrazia. Altri più esperti di me, faranno dotte analisi sul senso politico del risultato referendario, su quanto questo peserà sugli equilibri interni dei due schieramenti, sugli errori del Ministero dell'Interno, sul quorum e sulla necessità di mantenerlo, se abolirlo del tutto o misurarlo in base alle percentuali di votanti delle elezioni precedenti. Una cosa è certa: in una democrazia vera, non possono essere i menefreghisti a decidere per tutti, non si può permettere ad una maggioranza di disinteressati alla politica, che è la maggioranza di coloro che non sono andati a votare, di decidere per tutti gli altri, altrimenti il "partito degli astensionisti" dovrebbe contare anche nell'assegnazione dei seggi parlamentari: se ci sono 1000 seggi da dividere, il 25% dovrebbe essere assegnato all'opposizione, il 45% alla maggioranza, il resto dei seggi, cioè quelli che corrispondono alla percentuale di coloro che si astengono, dovrebbe restare…vuoto! Se coloro che non votano "decidono" i referendum, dovrebbero "decidere" anche in materia di leggi, di programmazione e di bilancio dello Stato; e un giorno si potrebbe così anche arrivare ad eleggere il "vuoto", di uno dei seggi assegnati agli astensionisti, alla seconda o terza carica dello Stato, che forse potrebbe risultare anche migliore di quelle attuali!

Abolendo l'anacronistico quorum si deciderebbe esclusivamente tra chi si esprime attraverso il voto e si stimolerebbe chi non vota a farlo. Ovviamente io difendo la libertà personale ad astenersi dal voto, che è un sacrosanto diritto di ciascuno. Ma considero immorale e incivile l'invito, fatto agli elettori da personalità religiose e politiche, di non presentarsi ai seggi elettorali per non far raggiungere il quorum: questo costituisce un'aperta istigazione a violare la segretezza del voto, presidio indiscusso di ogni sistema democratico, altro sconfitto in questa competizione. Alcuni miei amici che vivono in monastero, mi hanno confessato che sarebbero andati a votare volentieri ma hanno temuto ritorsioni da parte dei superiori, visto l'ordine di non recarsi alle urne, la cui osservanza è particolarmente controllabile quando si vive in ambienti ristretti.

C'è un'altra vittima di questi referendum, ed è la laicità dello Stato, che ne esce schiacciata da una gerarchia cattolica invadente e impicciona, che vuol far sentire sempre più il proprio peso nella vita politica del nostro Paese, come ai "bei tempi" di Gedda e della peggiore Dc.; alla faccia di quella parte di sinistra che, per illusori calcoli elettoralistici, ha fatto finta di non scorgerne i segnali premonitori - che da tempo sono sotto gli occhi di tutti - e, sempre più prona, ha esagerato in apprezzamenti e sviolinate nei confronti dei vertici cattolici. Il nostro Paese e i cattolici stessi hanno bisogno di Pastori che, come affermava don Tonino Bello, "non usino i segni del potere ma il potere dei segni", che si pongano al sevizio della politica e del Paese e non si servano di questi per accrescere il proprio potere: "Compito dei vescovi - afferma il Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium - è indicare valori, non imporre ai credenti scelte che competono alla coscienza e alla fede di ognuno, proprio perché il cristianesimo non è mai stato solo potere e lotta fra poteri. Il Vangelo e la profezia hanno incessantemente animato la crescita dell'umanità lungo l'asse dei valori democratici, fra cui il primato della coscienza, il pluralismo, l'etica della responsabilità".

La Chiesa di base, le comunità e le parrocchie, i fedeli cristiani laici, escono particolarmente sconfitti da questa competizione referendaria: essi, come sempre, non sono stati né consultati, né coinvolti nelle decisioni della gerarchia cattolica; essi sono quelli che hanno perso di più. Ora dovremo abituarci a vedere i fastidiosi volti gongolanti e pavoneggianti degli effimeri vincitori, certi però, che il pavone quando, "pavoneggiandosi" appunto, apre a ruota la sua bellissima coda… scopre il culo!

don Vitaliano Della Sala,   parroco rimosso di Sant'Angelo a Scala

da Liberazione 15 giugno 2005

 

Chi ha vinto e chi ha perso nel referendum


Il referendum sulla procreazione assistita non ha raggiunto il quorum del 50% (ha anzi raggiunto solo il 25) e quindi decade, la legge 40 resta per ora intatta con le sue interdizioni, incoerenze e vizi; e non ci soccorre se non la tenue speranza che lo stesso parlamento che l’ha fatta, ora la corregga.

Quest’esito negativo non ha nulla di sorprendente, tutt’altro, se si pensa che le forze dell’astensione avevano già in partenza il vantaggio di quel 25% che abitualmente non vota; avevano poi i partiti della coalizione di governo autori della legge (sia pur con qualche eccezione); e avevano infine e soprattutto la pressione imperiosa della gerarchia ecclesiastica con tutto ciò che da essa dipende, in teoria tutto il mondo cattolico.

Era essa la grande propugnatrice dell’astensione. Da gennaio, da quando aveva escogitato questo mezzo come il più semplice per far fallire il referendum; e aveva quindi mobilitato il suo grandioso apparato di vescovi e parroci e azione cattolica e associazioni varie e stampa. E il suo capo per l’Italia, Ruini, era intervenuto con regolare insistenza. E il papa stesso era intervenuto di rincalzo, con qualche cautela ma con indubbio significato.

Ha ottenuto dunque il risultato, ma è difficile dire che abbia vinto, sul piano morale e globale, nell’insieme della situazione italiana. Piuttosto ha perso, e molto.

Anzitutto ha interferito nell’adempimento di una funzione politica del cittadino, l’esercizio della sovranità popolare che avviene nel referendum; ha interferito pesantemente nel politico, contravvenendo alla distinzione dei due poteri. Non gli era lecito imporre al cittadino cattolico di astenersi, ma solo chiedergli di votare secondo coscienza, tenendo presente la dottrina della gerarchia. E non è vero quanto alcuni hanno sostenuto, che i vescovi hanno solo espresso il loro parere in materia e, come tutti, avevano il diritto di farlo; non hanno solo espresso, hanno imposto; hanno detto, con tutto il peso della loro autorità, che il cittadino doveva astenersi (“opporsi nella maniera più efficace ai contenuti del referendum”). E, del resto, anche nell’esprimersi, un vescovo dev’essere cauto, perché la sua parola è sempre carica della sua autorità e del suo potere.

L’interferenza, poi, è stata particolarmente pesante a livello parrocchiale, in misura maggiore o minore, certo; ma con interventi nella predicazione, come da tempo non accadeva, e con un controllo almeno indiretto su quanti si recavano al voto.

Inoltre, quando Ruini ha sostenuto che, scegliendo l’astensione, si sceglieva semplicemente una delle tre possibilità offerte dalla legge, diceva solo in parte il vero. Perché l’astensione era anche, per la gente, la via che assecondava l’ignoranza e il disinteresse; oltre ad avvantaggiarsi (furbescamente, hanno detto alcuni) di quel 25% che abitualmente non vota. Ed era proprio il contrario di ciò che la gerarchia avrebbe dovuto fare, se fosse stata davvero sollecita della coscienza dei fedeli, e non solo della loro supina acquiescenza; avrebbe dovuto suscitare una discussione nella chiesa, una libera discussione, formativa della coscienza, e di una coscienza libera e critica.

Si apre qui un vasto problema, che è quello del laicato cattolico, della sua condizione di totale passività, totale assenza dalle decisioni cha si prendono in quel corpo di cui egli è parte integrante; ed è la parte – direbbe Thomas More – “di gran lunga maggiore e di gran lunga migliore”. Bene, la gerarchia si comporta nei suoi riguardi come nel medioevo, quando il popolo era analfabeta, e il sapere era posseduto solo dai chierici.

Ma il problema si apre anche su di un altro versante, quello dei teologi. La dottrina che la gerarchia ha difeso contro il referendum, e che è contenuta nell’Istruzione dell’87 “Sul rispetto della vita umana nascente”, firmata da Ratzinger, non invita i teologi alla ricerca sui delicati problemi, ma solo alla diffusione di quella dottrina. E non tiene conto del parere dei maggiori teologi, che è difforme proprio nei due punti chiave del documento, il “principio di natura” e lo statuto dell’embrione. Infatti essi contrappongono al principio di natura (di una procreazione che sarebbe lecita solo nell’ordine di natura, cioè nella congiunzione fisica dei partner) il “principio di persona”: di una persona che ha ricevuto da Dio un potere sulla natura, e quindi anche sulle proprie funzioni di natura, per la loro gestione razionale, col sussidio anche della scienza e della tecnologia. E i maggiori teologi non riconoscono all’embrione lo statuto di persona.

Ma il problema si apre persino sul versante dei vescovi; tra i quali non si è mai aperta una discussione su questa materia. E anche nella preparazione di questo referendum nessuno si è alzato ad affermare il principio della libertà di coscienza (che pure è stato riconosciuto, seppur tardivamente, dal Vaticano II), o a richiamare una partecipazione attiva del popolo di Dio. Nessuno ha osato un parere difforme.

Di chi è dunque questa dottrina che tanto aspramente è stata propugnata, fino ad aprire un “vulnus” nella laicità dello stato italiano, e una scissione nel suo popolo, soprattutto nella sua “intellighenzia”? di Ratzinger, prefetto della Congregazione della fede, che non si è degnato di ascoltare neppure i maggiori tra i suoi colleghi teologi, e tanto meno il popolo di Dio? dei papi, di cui cita abbondantemente i discorsi? ma i discorsi dei papi non possono definire una dottrina.

Ricadiamo dunque nella questione di fondo, quella di una chiesa cattolica in cui permane ancora intatto, dal retaggio medievale e feudale, un potere assoluto, un potere dogmatico e dispotico; abituato all’imposizione e all’interdizione, abituato a decidere da solo, senza molti riguardi né per la collegialità episcopale, né – tanto meno – per il tessuto popolare, per quel popolo di Dio che è il corpo vivente della chiesa.

Bisognerà che questo popolo faccia sentire la sua voce, che si ribelli a questa servitù; come si è ribellato al potere monarchico e aristocratico che per millenni lo aveva oppresso. Intanto questo referendum lascia l’Italia ferita e divisa, lo stato come il popolo feriti nella loro laicità, nella loro autonomia, nella loro dignità e diritto

Arrigo Colombo   Da Il Nuovo Quotidiano di Puglia

 

Dopo la caduta

Quindici anni e più di spoliticizzazione della società italiana precipitano in quella cristallina cifra del 25,9% di cittadini e cittadine italiani che hanno ritenuto utile esprimersi sulla legge sulla procreazione assistita. Cifra cristallina, e sconfitta cristallina per chi, noi compresi, aveva creduto nel referendum non solo per correggere una pessima legge, ma anche per imporre all'attenzione pubblica un tema importante e i suoi importanti risvolti politici. Tecnicamente, sarebbe stato meglio attendere che la legge venisse bocciata - come prima o poi accadrà - da una pronuncia della Corte. Tatticamente, sarebbe stato meglio affidarsi al solo quesito abrogativo complessivo, quello proposto dai radicali e bocciato dalla Consulta, più chiaro e più comunicabile dei quattro quesiti parziali, troppo oscuri e troppo tecnici. Ma ormai non è questo il punto. E non è nemmeno l'usura dello strumento referendario, che pure c'è e pure domanda una riforma, ma non può diventare un alibi - l'ennesimo alibi da ingegneria istituzionale - per non leggere più spietatamente il risultato. Il punto è che la valenza generale, culturale e politica, del referendum non è passata nell'opinione pubblica, che evidentemente l'ha vissuto come una marginale consultazione su una questione di pochi e per pochi (fatti loro), o peggio, come un sibillino regolamento di conti interno alle due coalizioni che si contendono il governo del paese. Il che vuol dire però che il fronte referendario non è riuscito a comunicare nemmeno al suo elettorato di riferimento l'importanza dirimente delle poste in gioco che la materia della procreazione assistita trascinava con sé: libertà personali, laicità dello Stato, qualità della legiferazione, statuto della maternità, della paternità e della famiglia, rapporto fra politica, scienza e diritto nel governo della vita. S'era già visto del resto negli otto anni di iter della legge: a sinistra mancava un discorso all'altezza della sfida bioetica, non subalterno al moralismo cattolico e non ossessionato dalla contrapposizione o dalla mediazione con le gerarchie vaticane.

E' in questo vuoto che i fondamentalismi attecchiscono, non solo in Italia; è in questo vuoto che le «guerre culturali» prosperano, seminando certezze sull'Embrione, la Vita, Frankenstein, e gettando nel discredito l'intera tradizione critica della modernità. Non è l'antico conflitto fra laici e cattolici, Repubblica e Vaticano, Peppone e Don Camillo. E' una nuova mappa delle appartenenze in cui il tradizionalismo cattolico si salda con la rivoluzione conservatrice dei teo-con: una miscela aggressiva che consente alla Cei di cantare vittoria contro «l'assioma modernizzazione-secolarizzazione», spalleggiata dai nuovi intellettuali atei che recitano cinicamente il Verbo di Dio.

L'America che ha premiato Bush è arrivata in Italia? Si direbbe di sì, ma con molta convinzione in meno e molta indifferenza in più: lì si contavano voti con le percentuali di partecipazione in salita, qui contiamo astensioni con i quorum in discesa. Il nuovo fondamentalismo germoglia nel deserto dell'apatia e del disincanto. Malgrado la convinzione spesa nella campagna referendaria dalle principali testate nazionali della carta stampata, segno inequivocabile di una rottura allarmante nel circuito di formazione dell'opinione pubblica, forse ormai irreversibilmente prigioniera dell'audience televisiva. E segno altresì di una crisi di rappresentazione, prima che di rappresentanza, della società, diventata imperscrutabile nei suoi umori e nelle sue oscillazioni. Quand'è così, è da un paziente lavoro culturale che la politica deve ripartire: preoccupandosi di incollare le parole all'esperienza, prima che i leader alle sigle di partito e di coalizione.

 

IDA DOMINIJANNI    Da il manifesto del 14 giugno 2005

 

Laici a giorni alterni

 L’altissima percentuale di non votanti non lascia luogo ad equivoci: chi ha promosso e sostenuto il referendum è stato duramente sconfitto. Non vale recriminare sul tipo di armi usate dall’avversario, che del resto non aveva fatto mistero di volerle usare, né esercitarsi nel difficile esercizio di individuare le diverse componenti del variegato arcipelago dei non votanti. Tentarlo può servire, però, per non commettere errori di valutazione sull’importanza di chi li ha promossi. Ci sono certo, in primo luogo, i non votanti di sempre, circa il 30 per cento. Il restante quarantacinque per cento è costituito dagli astenuti convinti per motivi ideologici e politici e dagli astenuti in conseguenza dell’intervento di Ruini e della gerarchia italiana e vaticana. Tra questi possiamo distinguere, senza poterli quantificare, gli obbedienti, gli obbligati per timore di sanzioni, i timorosi dell’emarginazione all’interno della comunità ecclesiale. A questi vanno assimilati i preoccupati dell’emarginazione sociale nei paesi ad ampia densità mafiosa: i dati della Calabria e della Sicilia vorranno pur dire qualcosa. Tanti quindi i padri del mancato raggiungimento del quorum. Difficile districarsi nel distribuire meriti e demeriti, è certo, però, che Ruini ha individuato una strategia vincente ed è inutile lamentarsi che è poco rispettosa della laicità dello stato, quasi fosse di sua competenza difenderla. Molto più proficuo riflettere sullo stato della laicità in Italia
Chi, come il direttore di un autorevole giornale nazionale definisce la sconfitta referendaria “il naufragio dell’Italia laica”, non si deve essere reso conto che l’Italia non è più laica – se mai lo è stata da quando è diventata Repubblica – da oltre trent’anni come in molti, poco ascoltati, siamo andati denunciando. Molta strada era stata fatta dall’approvazione dell’articolo 7 della Costituzione al 1966, quando si cominciò a parlare di “revisione del Concordato”, al 1981 quando, nonostante il papa fosse morente dopo l’attentato di Alì Agca, gli italiani si rifiutarono di abrogare la legge sull’interruzione della gravidanza. Poi, nel 1984, tutto cominciò a cambiare a partire dall’applicazione delle clausole del nuovo Concordato. Voluto da Craxi, fu approvato anche dai comunisti, si oppose solo la sinistra indipendente. Bisogna partire da qui per riflettere sul rapporto della sinistra con la laicità. Non ci occupiamo della sinistra che si rifugia nella comoda nicchia del privato sociale indifferente alle dinamiche istituzionali nelle quali, lo voglia o non, è necessariamente coinvolta. Pensiamo alla sinistra che si candida a gestire lo spazio pubblico nell’interesse della collettività: ignora o misconosce il nesso inscindibile tra laicità e democrazia. Se democrazia non è solo forma per selezionare i governanti, ma è sostanziata di libertà, uguaglianza e solidarietà, laicità non è solo forma dei rapporti stato/chiesa, ma è la dimensione culturale che legittima tale sostanza. Laicità significa che nello spazio pubblico – lo stato – non può esserci ideologia o confessione religiosa privilegiata e che i principi e i valori fondanti la civile convivenza e ispiratori della cultura della scuola pubblica sono principi e valori condivisi e definiti nella Carta costituzionale. La laicità, come nuova cultura democratica autonoma e autosufficiente, senza essere autoreferenziale, non riconosce a centrali religiose l’esclusiva nell’elaborazione dell’etica e nella promozione di valori morali. Alle nuove sfide poste alla società dal rapido avanzamento della ricerca scientifica e dall’accelerazione nell’innovazione tecnologica, si risponde rifugiandosi nell’affermazione del primato della scienza e nell’ineluttabilità del suo sviluppo. Sul governo di tale sviluppo e sul rapporto tra quel primato e la solidarietà planetaria non ci si confronta apertamente e criticamente. Di laicità si parla quando il tema diventa “di moda”.
Ridicoli quindi gli “alti lai” levati dagli esponenti dell’opposizione sulla laicità violata dall’interventismo di Ruini, dalle novene usate come spot elettorali, dal terrorismo contro i negatori della personalità dell’embrione. Sono gli stessi che hanno applaudito il papa in visita al Parlamento, favorito le manifestazioni liturgico-mondane del potere della Curia enfatizzate dai media durante il giubileo, e plaudito alla spettacolarizzazione della sua morte. Nessuna opposizione al dilagare nel servizio pubblico dell’informazione religiosa, della propaganda cattolica e dell’interventismo di sacerdoti e cardinali, nessun distinguo dai cori di esaltazione delle virtù di papa Giovanni Paolo II. Anzi si propone d’intitolargli la stazione di Roma o l’aeroporto di Bari. Se c’è tanta dignità in chi regge l’istituzione ecclesiastica, come può non esserci più quando lancia la crociata contro gli avversari della Legge 40? Diventa poco credibile il furore laico che scoppia a giorni alterni.
In questa ambiguità si ritrova la mancanza di chiarezza sul tema della laicità che impedisce alla sinistra di capire il senso della cosiddetta rivincita di Dio e del ritorno del sacro, di distinguere l’ossequio alle gerarchie dal riconoscimento delle benemerite iniziative assistenziali e sociali, con le quali il volontariato cattolico e le congregazioni religiose suppliscono, ormai strutturalmente, alle deficienze dello stato sociale. Riconoscere tali meriti o rigettare vecchi pregiudizi contro la religione, solidarizzare con gruppi e organizzazioni cattoliche realmente democratiche o lasciarsi coinvolgere in dibattiti sul valore dell’esperienza religiosa autenticamente vissuta, non è contraddittorio con la sistematica lotta al potere ecclesiastico. Non perché ecclesiastico, ma perché potere anomalo.
La Cei è un potere anomalo: trae autorevolezza dall’essere testimoni del Vangelo, ma lo tradisce quando si fa soggetto politico sostituendo il consenso dei fedeli con il farsi potere tra gli altri poteri, economici e politici, alleandosi con quelli pronti a pagare il prezzo del suo sostegno. In Italia il prezzo è altissimo anche in termini finanziari e di presenza di ecclesiastici in strutture pubbliche. Di tutto questo la sinistra non tiene conto e finge di ignorare che c’è un prezzo che non potrà mai pagare: la rinuncia alla laicità perché sarebbe la rinuncia alla democrazia. Non solo non opera per ridurre progressivamente l’onere finanziario e le forme di presenza, ma quando, su richiesta o per iniziativa della destra integralista, Parlamento ed Enti locali si trovano a dover decidere se aumentare contributi e concessioni, entra in concorrenza con i moderati per timore essere accusata di ostilità alla religione o di perdere consensi tra i cittadini “devoti”. Questa debolezza ha reso difficile tener testa ad una campagna promozionale, come quella sulla personalità dell’embrione, nutrita di spot resi credibili dall’autorità dei gestori del sacro, ossequiati anche dagli “infedeli”, e sostenuti dalla potenza finanziaria garantita loro dal gettito dei finanziamenti pubblici.
Ogni anno oltre mille milioni di euro passano dall’erario alla Conferenza episcopale. Ad essi vanno aggiunti gli stipendi dei docenti di religione cattolica, dei cappellani militari e, in alcune regioni, dei cappellani degli ospedali. Inoltre le opere cattoliche fanno la parte del leone nel fruire dei contributi, elargiti con criteri assolutamente discrezionali, dal governo, che li trae dalla parte dell’otto per mille destinata alla sua gestione per attività culturali, assistenziali, ricreative. Non c’è dubbio che, senza le ampie disponibilità finanziarie della Cei, la generosa mobilitazione delle organizzazioni cattoliche non avrebbe potuto sostenere una campagna referendaria così intensa e dispendiosa e che, forse, non ci sarebbe stata quella di tanti comitati scientifici .
Tali disponibilità hanno una funzione essenziale nel costituirsi potere politico dell’istituzione ecclesiastica: su questo la sinistra non ha idee chiare né tanto meno sviluppa iniziative coerenti sia sul piano dell’informazione sia su quello dell’iniziativa politica. Una recente vicenda dà la misura di tale disinteresse. E’ di questi giorni la notizia che per generosa concessione del governo sono stati sottratti ai già magri bilanci dei Comuni gli introiti dell’Imposta Comunale sugli immobili (ICI) fin qui dovuti dalle scuole, cliniche, centri sportivi e strutture alberghiere gestite a scopo di lucro da enti confessionali . D’ora in avanti saranno assimilati agli enti già esentati: luoghi di culto e attività e servizi offerti gratuitamente. Una sentenza della Corte di Cassazione del 2004 aveva respinto un ricorso delle Suore del Sacro Cuore dell’Aquila che pretendevano di non essere tenute a corrispondere l’Ici per la loro benefica attività nei confronti di anziani bambini ed emarginati per la quale, però, chiedevano un pagamento. Le amministrazioni comunali avrebbero potuto imporre la tassa comunale su strutture destinate a far soldi come licei, cliniche, residenze e centri sportivi aperti al pubblico pagante. Il governo Berlusconi ha provveduto ad evitare questa “catastrofe” inserendo nel disegno di legge sulla “competitività” la norma, che impedisce ai Comuni l’imposizione dell’Ici a tutti gli enti ecclesiastici.
La presenza di queste enormi risorse rende possibile la conquista dell’egemonia da parte della gerarchia ecclesiastica, a partire dalla vittoria sulla legge 40 considerata come rivincita sulle sconfitte, subite nei referendum sul divorzio e sull’aborto. Solo un radicale ripensamento a sinistra della cultura della laicità, da non lasciare ai cultori del laicismo tradizionale, può contrastare la conquista di una supremazia culturale che, neppure ai tempi dello strapotere democristiano, la gerarchia cattolica aveva potuto realizzare.

Marcello Vigli   Da www.italialaica.it 16 giugno 2005

 

 

Astensione? Ha vinto il disinteresse

Renato Mannheimer

Hanno pesato poco scelte politiche o religiose, ha prevalso la difficoltà di comprensione. Anche nel centrosinistra

 

IL GRAFICO


L'analisi del voto

Lo evidenziano già i dati sull’afflusso alle urne. E lo confermano i risultati del sondaggio. Gli astenuti sono presenti «trasversalmente» in tutte le categorie socio-anagrafiche. Vi sono, com’era ragionevole aspettarsi, differenze in relazione all’orientamento politico. Ma, ha finito con l’astenersi anche la maggioranza assoluta degli elettori diessini. E, naturalmente, quella di chi dichiara di non sapere cosa votare alle prossime elezioni. Ovviamente, la quota di astenuti è massima (80%) nel sottogruppo che dichiara di recarsi a Messa una o più volte alla settimana.

Ma essa supera il 60% anche tra chi afferma di non frequentare mai le funzioni religiose. Insomma, al di là dei suoi risvolti politici e ideologici, la consultazione di domenica e lunedì ha confermato il rilievo dei due fenomeni che più sembrano contraddistinguere oggi lo scenario politico ed elettorale. 1) La frattura territoriale. Le regioni del nord si sono recate alle urne in misura grossomodo doppia di quanto è accaduto al sud. Il motivo sta, ovviamente, in un modo diverso di concepire le scelte politiche. L’esistenza di «culture civiche» differenti è stata evidente sin dai tempi del primo referendum istituzionale, nel 1946. Ma, come ha sottolineato Ilvo Diamanti, la differenziazione territoriale delle modalità di voto si è andata in qualche modo accentuando in quest’ultimo periodo. 2) Il progressivo disinteresse, la «smobilitazione» di una parte di elettorato. Come si sa, i partiti tradizionali funzionavano da «facilitatori» delle scelte elettorali e degli orientamenti politici. Chi non poteva o voleva informarsi in dettaglio sulle varie questioni, faceva, più o meno consapevolmente, riferimento alle posizioni del partito cui si sentiva più vicino.

Con la scomparsa delle ideologie tradizionali, questa funzione è venuta meno. Alcuni, pochi, si sono in qualche modo «arrangiati» documentandosi da soli sulle varie tematiche. Altri, la maggioranza, hanno ritenuto preferibile allontanarsi e disinteressarsi del dibattito politico. Rinunciando spesso a votare. Specie nei referendum. Poiché in questi ultimi si è spesso chiamati a pronunciarsi su argomenti ritenuti, a torto o a ragione, troppo complessi o settoriali. Dunque, buona parte dell’astensione rilevata in questo referendum è motivata non tanto da una scelta politica o religiosa, quanto dal rifiuto o dalla difficoltà di approfondire troppo la questione. E dalla correlata convinzione che, come ci ha detto, spazientito, un intervistato «i parlamentari sono pagati apposta per fare le leggi. Che l’aggiustassero loro una cosa così complicata». Tra i nostri intervistati, il 35% ha dichiarato, già la mattina della domenica, che non si sarebbe recato a votare. Tra i restanti, una parte (grossomodo il 20%) era deciso viceversa a recarsi alle urne. Gli altri si definivano invece indecisi.

La gran parte di costoro, come si sa, non è poi andata a votare. Li abbiamo denominati astensionisti «aggiuntivi», poiché non avevano deciso (o non avevano voluto dichiarare) il loro comportamento già all’inizio della consultazione. Si tratta di elettori diversi dagli astenuti «convinti». Lo si vede dalle motivazioni al non voto, ove prevale per costoro l’argomento: «Sono talmente indeciso da preferire forse non votare». Questo astensionismo «aggiuntivo» pare insomma suggerito più da disinteresse o difficoltà di comprensione, che da scelta «politica» vera e propria. Per questo l’astensionismo «aggiuntivo» è assai più diffuso nelle categorie poco o per nulla coinvolte dalla campagna per l’astensione. Come coloro che si recano poco o mai alla Messa, oppure votano per i partiti del centrosinistra.

Tra questi ultimi gli astensionisti aggiuntivi costituiscono addirittura la maggioranza. Insomma, l’apporto politico all’astensione da parte della Chiesa e dei partiti che l’hanno auspicata è stato solo una componente del risultato, valutabile in meno della metà delle astensioni (36% dell’elettorato). Il resto, in modo relativamente «trasversale» alle varie forze politiche, è costituito da coloro che hanno trovato troppo difficili - e troppo impegnativi - i quesiti e che, in generale, si interessano poco alla politica. Si tratta del segmento composto dagli elettori cosiddetti «lontani», di cui si è discusso ancora di recente nel dibattito sull’esistenza di un centro «consapevole».

In definitiva il connotato caratterizzante questo voto non è prevalentemente quello politico, ma quello del disinteresse e della disinformazione, che, peraltro, avevano caratterizzato anche diversi referendum del passato. Un quadro assolutamente differente dal 1974. Anche a quel tempo la Chiesa si mobilitò contro il divorzio. Ma la questione era assai più semplice da comprendere e specialmente, funzionava il facilitatore costituito dalle forze politiche.

14 giugno 2005  Le notizie del Corriere via SMS: invia NEWS al 48436.

 

 

I conti ambigui del cardinale
FILIPPO GENTILONI

A seggi appena chiusi dobbiamo chiederci come mai la vittoria dell'astensione sia stata così schiacciante e che cosa ciò comporti per il futuro democratico e laico del paese. La risposta alla prima questione è, forse, più facile. La mobilitazione guidata dalla gerarchia cattolica è stata decisa come non mai. Da tempo non si assisteva a qualcosa di simile: forse dal tempo della lotta al «comunismo ateo». Ma allora la gerarchia si giovava della mediazione della Dc; stavolta invece l'impegno è stato più diretto e quindi più efficace: l'astensione pareva far parte integrante della fede cattolica, chi andava a votare pareva essere un apostata, un rinnegato. La gerarchia riacquistava un protagonismo che sembrava perduto e a cui giovava, indirettamente, la commozione per la morte di Giovanni Paolo II e l'elezione del successore. Un protagonismo favorito dai media, quasi senza eccezione.

Il panorama del cattolicesimo italiano negli ultimi anni era stato piuttosto frazionato e articolato: la gerarchia era in cerca di un ricompattamento cui il referendum forniva un'occasione preziosa. Dalle parrocchie alle associazioni, tutti insieme per un astensionismo favorito anche dalla difficoltà delle questioni in discussione: nell'incertezza delle ragioni, meglio obbedire al cardinale Ruini e andare al mare. Una strepitosa vittoria cattolica, dunque? Sì e no. La vittoria, forse, non è schiacciante come appare. I numeri del referendum di ieri vanno confrontati con quelli della frequenza alla messa domenicale, delle coppie di fatto, dei matrimoni civili. Un panorama a dir poco ambiguo. La stessa opposizione al diktat astensionista è stata ampia, anche se minoritaria e parzialmente tacitata dal chiasso dei media. Il mondo cattolico è molto più spaccato di quanto il referendum non riveli. Anche perché la vicenda referendaria ha spinto la gerarchia verso Berlusconi, con il risultato di renderla molto meno imparziale e molto meno bipartisan. E' vero che Ruini ha vinto, ma è anche vero che gli sarà più difficile governare il mondo cattolico - pur se, a quanto sembra, non gli mancherà il forte sostegno del nuovo papa.

Sull'altra sponda del Tevere, la nostra, l'impegno laico appare sempre più necessario, anche se più difficile. La vicenda referendaria ha dimostrato ancora una volta quanto tale impegno faccia parte essenziale della costruzione di un paese democratico.

 Il manifesto 14/06/05

 


12-13 giugno. Cosa ha influito sulla bassa partecipazione? La data, il tema, l'informazione, il logorio dello strumento referendum. E il centrodestra se ne è avvantaggiato
Disaffezione e ostacoli. Anatomia del voto referendario
Tre/quarti degli italiani si sono sottratti al diritto-dovere di esercitare il loro diritto di voto. Hanno avuto di gran lunga la meglio i sostenitori della Legge 40 che hanno intrapreso la strada dell’astensione al referendum anziché affondare il responso delle urne. Un sì premiato da oltre 12 milioni di elettori con la pressoché unanimità dei voti espressi. Politicamente, è una vittoria con grandi e illustri padri. Ha vinto infatti l’astensione predicata da Ruini e dal Vaticano stesso, da Pera, Casini, Rutelli e Berlusconi. Ma, soprattutto, si è rivelata maggioranza assoluta un’Italia che di fronte ad un grande tema di etica, scienza e coscienza preferisce non interrogarsi, teme di prendere posizione, fugge dalle proprie responsabilità. Perde, lontana dal quorum di ben 20 punti, l’Italia laica, adulta, metropolitana, quella più colta, comunque con un buon livello scolastico, con disponibilità economiche medio-alte. Gli astensionisti hanno avuto dalla loro diverse ragion i e forti alleati. In breve.
La data. A scuole chiuse non si è mai votato in Italia e aver scelto il primo week-end dopo la conclusione delle lezioni ha costituito un ottimo servigio di Berlusconi-Pisanu alla causa vaticana e un valido alibi per chi voleva disertare il referendum.
Il tema. Non tutti i referendum sono uguali e questo presentava specificità e tecnicalità che onestamente andavano tenute in maggior considerazione dagli stessi promotori e che è stato sbagliato minimizzare. Non è servito e non ha convinto accostare i quesiti referendari sulla procreazione medicalmente assistita a quelli sul divorzio e l’aborto. A parte la quantità assoluta di cittadini interessati ai diversi temi, la difficoltà dell’argomento e la distanza rispetto alla fecondazione in vitro hanno pesato in negativo sul coinvolgimento dei cittadini e reso ancor più impervia la strada del conseguimento del quorum.
Questione democratica. C’è stato, tra chi non ha votato ma anche tra chi ai seggi si è recato, un’espressione della crisi della democrazia diretta che meriterà, a bocce ferme, un’attenta riflessione. Da dieci anni nessun referendum, dall’uninominale secco all’estensione dell’articolo 18, solo per ricordarne alcuni, raggiunge il 50% degli aventi diritto. E’ da rivedere lo strumento, come molti sostengono, elevando le firme necessarie a richiederlo con la conseguente abolizione del quorum? Oppure la partecipazione, il rapporto tra politica, rappresentanza e società civile organizzata richiede lo studio e l’attuazione di nuove forme e diversi canali da quelli che conosciamo? C’è altrettanto palese una domanda di buon funzionamento delle istituzioni della democrazia rappresentativa che suona più o meno così: "Perché, cari i nostri deputati chiamati a rappresentarci, invece di stare lì a litigare sulle formulette, listini, listoni e i posti di potere, non trovate in Parlamento soluzioni concrete ai nostri problemi?".
L’informazione. Tra i silenzi, la confusione e lo s carso servizio al cittadino abbiamo assistito ad un delle peggiori performances del nostro sistema radiotelevisivo. Se tv pubblica e privata hanno brillato in negativo, impegnati a nascondere e confondere, il discorso va ribaltato per la carta stampata. Non solo i grandi quotidiani in larga parte schierati per il sì, ma in genere l’intero comparto della comunicazione scritta si è mosso per dare ai lettori il maggior ventaglio delle posizioni su cui orientarsi. Ma la differenza di peso tra tv generalista e informazione cartacea è tutta nei risultati finali. Questione non indifferente ma da ricordare e tenere ben presente per le politiche 2006.
L’affluenza. I dati parlano chiaro. Diciamolo all’ingrosso per farci capire: ha votato ed ha votato sì l’Italia laica e di sinistra, il nocciolo duro (e puro) dell’opposizione a Berlusconi e al suo governo. Reggio Emilia, Ferrara o Modena piuttosto che Livorno o Siena (ovvero le province tosco-emiliane con le urme "meno vuote"), ma anche le " buone" percentuali di Bologna, Roma, Genova, Torino e Milano (anche queste comunque sotto il 50% dei votanti), ci dicono di un voto centro-settentrionale che corrisponde alla forza dell’insediamento sociale ed elettorale della sinistra. Così come gli astensionisti registrano i più larghi consensi nelle aree di Caserta, Crotone, Foggia tanto per citarne alcune. Si tratta, per queste come di altre zone del paese, di realtà sia del sud che del nord, in cui risulta più evidente l’ambiguità di chi ha voluto sommare storici, fisiologici assenteismi ai favorevoli e agli indifferenti alla Legge 40. Ma in genere, scorrendo i dati dell’affluenza, prendendo ad esempio di dati di Como, Bolzano o Sondrio, risulta evidente una connessione tra ispirazione politicamente centrista e di destra dell’astensione e scarsa o minore affluenza alle urne. Risulterebbe evidentemente improprio associare questi risultati a poco credibili discipline di partito. Diciamo piuttosto che i leader astensionisti hanno colto con una qualche dose di precisione gli orientamenti e le sensibilità di quella che una volta si sarebbe chiamata la propria base di riferimento. Quello del 12 e 13 giugno è stato, insomma, il voto più ideologico che si potesse immaginare.
[Altero Frigerio]

 

Premier e presidenti di Camera e Senato hanno dato il cattivo esempio. Ma qual è il ritratto dell'Italia che esce dalle urne? Un dibattito che non si esaurisce in un giorno
Vince l'astensionismo. Non è una bella lezione di democrazia


Né spallata, né sorpresa. Piuttosto, batosta. E' inutile cercare di salvarci in corner, di fronte a percentuali di voto che stanno sotto il 30 per cento. Chiamiamo l'esito del referendum sulla fecondazione assistita per quello che è: una sconfitta.
Avevamo sperato, contro tutte le previsioni, che ci potesse essere la sorpresa di un'Italia reale diversa dalla pura somma di Conferenza episcopale italiana, partiti di governo e pezzi sparsi del centrosinistra. Una spallata contro l'astensionismo poteva venire anche dal tema oggetto del referendum. Se c'era un'indubbia difficoltà culturale a orientarsi tra libera ricerca, libertà delle donne e della coppia, considerazioni filosofiche sull'inesistente equazione embrione-persona, era però legittimo pensare che ci fosse una sensibilità trasversale – ben oltre gli steccati politici e ideologici – fatta di tanti vissuti di donne e uomini di fronte al desiderio di avere figli che contrasta con la sterilità diffusa come fenomeno moderno.
Non è stato così. La percentuale della partecipazione al voto non lascia dubbi: si è mobilitata una minoranza della società italiana, con una spaccatura tra centro-nord e sud che ripropone la "questione meridionale" come caso a sé. Dal punto di vista dell'immaginario, ha vinto quella porta chiusa di una villa in Sardegna – inquadrata più volte dalle telecamere dei tg di domenica scorsa – dove ha trascorso il week-end il presidente del consiglio. Berlusconi, senza esporsi troppo mediaticamente, non è andato a votare preferendo una nuotata in piscina nel suo bunker a una visita nel seggio elettorale di Arcore.
Hanno vinto anche i presidenti di Camera e Senato. Loro sì che si erano esposti, dando vita al brutto precedente di due importanti cariche istituzionali che sceglievano e propagandavano l'astensione. Ha vinto il cardinale Ruini, che ha usato la Cei e le parrocchie come si usavano i Comitati civic i negli anni Cinquanta. Ha vinto Benedetto XVI, alla sua prima prova come Papa. Ma sarebbe meglio dire che ha vinto il cardinale Ratzinger, quel responsabile della Dottrina della fede che ha riproposto in anni recenti un furibondo attacco a tutte le acquisizioni di autonomia tra fede e comportamenti politici (ci eravamo persuasi che l'unità politica dei cattolici fosse finita per sempre, dovremo ricrederci?).
Hanno vinto coloro che hanno coniato slogan pubblicitari truffaldini, tipo "Sulla vita non si vota", o quelle semplificazioni dannunziane che hanno dipinto i favorevoli all'abolizione della Legge 40 come una sorta di "Fronte Frankestein". Hanno vinto i nemici di chi nel governo si è caratterizzato per la propria autonomia di giudizio: innanzitutto i ministri Prestigiacomo e Fini, che ora dovranno pagare dazio alle posizioni più oltranziste (l'attacco alla legge che regola l'aborto è dietro l'angolo). Ha vinto pure Rutelli, che un po' per legittime convinzioni e un po' per ra gioni di opportunità politica ha scelto di scommettere sulla vittoria dell'astensionismo, collocando così la sua Margherita sul fronte della moderazione spacciata per buonsenso.
Questo insieme di apparati e di messaggi simbolici fatti giungere agli elettori ha fatto maggioranza. In questo modo ci terremo la legge più arretrata d'Europa sulla fecondazione assistita e sulla ricerca su embrioni e cellule staminali. Chi avrà soldi potrà viaggiare in Europa e risolvere i propri problemi di sterilità o di difficoltà a diventare madri e padri, potendo contare sulle regole della libera circolazione nell'Unione europea. Basta dare uno sguardo ai commenti della stampa estera sul voto italiano per capire che le cose stanno proprio così: siamo un fanalino di coda.
C'è già una domanda che circola insistente: hanno sbagliato qualcosa coloro che hanno promosso il referendum? Non c'è dubbio che ora l'arma referendaria risulta ancora più spuntata di prima del 12 e 13 giugno. E' da tempo che que sto istituto democratico, anche per l'uso a pioggia che se ne è fatto in passato (caro Pannella, non sei indenne da colpe), non riesce a suscitare partecipazione e mobilitazione. Occorrerà riflettere su questo punto e su come riformare i referendum (firme necessarie per promuoverli, che tipo di quorum adottare).
Inoltre, dal risultato del voto affiora una enorme questione politico-culturale. C'è un arretramento di tutte le posizioni che sembravano acquisite sulla frontiera dell'autonomia dei comportamenti individuali, collettivi e politici rispetto ai dogmi religiosi.
L'Italia, verrebbe da dire, ripiega dal processo di modernizzazione degli stili di vita, forse perché qui da noi – soprattutto negli anni Sessanta e Settanta – quei processi sono stati più veloci che altrove e non sono stati recepiti dall'insieme del corpo sociale. Tutto questo si unisce a una mancanza di autonomia culturale e progettuale di molti settori progressisti nei confronti degli affondi della cultura ca ttolica più tradizionale perfino sulle conquiste di una concezione liberale dello Stato. La cultura laica italiana si avverte tradizionalmente come minoritaria, messa ancora più in difficoltà nell'ultimo periodo da un paese in crisi economica e di prospettive, che quindi si trincera in antiche sicurezze. Quando si è insicuri, l'istinto spinge a guardare indietro: lo sguardo fa fatica ad ammirare l'orizzonte. E' dai tempi del divorzio (1974) e dell'aborto (1981) che c'è un ripiegamento su varie questioni che riguardano il welfare: dalla scuola pubblica all'autonomia dello Stato nel suo legiferare su temi imposti dalla contemporaneità (trapianti, fecondazione, donazione di organi, eutanasia).
E le forze del "sì"? I Ds sono stati in prima fila con slancio e generosità in questa battaglia, che era sì culturale ma pure politica. Non c'è nulla da recriminare. Come si sono mosse bene tutte le altre componenti della sinistra. Ora qualcuno sussurra che sarebbe stato meglio non brandire lo strumento referendario, in attesa di un pronunciamento della Corte costituzionale che avrebbe bocciato la Legge 40. Chissà. D'ora in poi, questo è certo, chi vorrà promuovere dei referendum dovrà fare i conti con il partito dell'astensionismo che parte da un forte 25-30 per cento, a cui può sommare l'atteggiamento degli elettori non più simpatetico con i referendum che pure un tempo erano sinonimo di positiva pressione e partecipazione.
Tornando all'esito delle urne del 12 e 13 giugno, il vero problema su cui riflettere è che siamo restati minoranza: non abbiamo conquistato gli indecisi e i dubbiosi. Dovremo quindi ragionare, e molto, sul ritratto degli italiani che esce da questa consultazione referendaria. In questo momento, a risultato caldo, ci interessa il profilo culturale dell'Italia, prima ancora dei suoi comportamenti politici e di voto che possono avere ripercussioni sulle elezioni politiche dell'anno prossimo (è stimolante l'analisi che ci offre Carlo Freccero in questo stesso numero di "aprileonline").
Domani, non oggi, sarà il tempo per riflettere anche sugli effetti del voto sia sul centrodestra (i regolamenti di conti con Fini in casa Alleanza nazionale) sia sul centrosinistra (il duello Rutelli-Prodi). Diciamo domani, perché l'utilizzo tutto politicista del risultato - ahinoi! - lo diamo per scontato. Nel centrodestra e nel centrosinistra.
[Aldo Garzia]

 

Interviste. ''Gli italiani degli anni 70, quelli del divorzio e dell’aborto, erano giovani e determinati. Oggi siamo un paese in crisi e la sinistra non si rinnova''.
Carlo Freccero: ''Un'Italia vecchia, subalterna alle suggestioni religiose e con poca cultura''
Il non raggiungimento del quorum per i quattro referendum sulla procreazione assistita apre un dibattito di ampio respiro sulle condizioni di salute, in senso morale e culturale, dell'Italia. Ne discutiamo con Carlo Freccero, intellettuale di lunga esperienza nel campo della comunicazione e dell’attività artistica pubblica, di cui si è occupato in qualità di direttore prima dei canali Mediaset (dagli inizi degli anni Ottanta), poi di quelli Rai (consulente Rai Uno nel 1993 e già a capo di Raidue dal 1996 al 2002), scrivendo nel frattempo una serie di saggi di carattere scientifico-divulgativo sull’argomento.

Dunque Freccero, la prima domanda è scontata. Lei è andato a votare?
Ovviamente. Un dovere svolto appieno già alle dieci di domenica mattina.

Che tipo di Italia emerge dall’esito di questo voto-non voto?
Che siamo un paese vecchio, e infatti la prima analisi che dovrebbe essere fatta da qualsiasi partito politico, quando ci si imbarca in certe avventure etico-morali, dovrebbe essere di tipo demografico. Al di là di questo, siamo un paese culturalmente deficitario, per non usare termini più pesanti. Infine, continuiamo a eleggere la religione quale insostituibile punto di riferimento. Riassumendo, credo che i tre aspetti fondamentali che si possono tirar fuori dal risultato di questo referendum siano questi: invecchiamento dominante, carenza culturale, suggestione religiosa.

E’ giusto tornare a interrogarsi sulla reale esistenza di un paese che si definisce costituzionalmente laico?
Per rispondere, voglio fare un passo indietro. L’Italia degli anni Settanta, quella del divorzio e dell’aborto, era giovane e determinata. E il potere simbolico della cultura, seppur contrastato dalle fortissime pressioni democristiane, di fatto si collocava a sinistra, in un orientamento di pensiero profondamente laico. Oggi, culturalmente, il pensiero laico è in crisi e rispecchia drammaticamente la crisi più ampia d el resto del paese.

Quali sono gli obiettivi concreti di questo ritorno in massa dell’influenza clericale sulla vita politica e civile italiana?
Bisogna tener presente un elemento importante. Dal 2001 in poi si è ricominciato a parlare sempre più insistentemente di scontro di religione: dopo l’11 settembre, il valore di appartenenza a un credo religioso e la differenza religiosa vissuta come discriminazione tra soggetti sono aumentati a dismisura. E la percezione di questa tendenza era già abbastanza tangibile: da noi, basti soltanto pensare a come sono stati mediaticamente costruiti e riportati due eventi come la morte di Giovanni Paolo II e l’elezione di Benedetto XVI. Ma anche il successo di un film come "Passion" doveva essere interpretato come un inquietante campanello d’allarme. Oltre a questo, come accennavo prima, a differenza degli anni Settanta non si elaborano più visioni alternative, non c’è una prospettiva politica nuova elaborata da coloro che dovrebber o lavorare per questo: ci si limita ormai da tempo a fare solo i conti con se stessi. Di questo passo, ne vedremo delle belle. In senso negativo, naturalmente.

Malgrado la bassa percentuale nazionale, la partecipazione al voto al centro-nord e al centro-sud del paese rimane fortemente disomogenea. Si può affermare che la cultura dell’informazione, o meglio, della disinformazione, rimane lo strumento più sicuro per governare gli orientamenti della collettività?
Senza dubbio, e bisogna aggiungere che si tratta di una disinformazione ottenuta attraverso una raffinata tecnica di "rimozione inconsapevole" ai danni dell’individuo. Il lavoro di non-informazione, che nel contesto televisivo viene ormai applicato con scientifica progettualità, diviene il recupero di un modello coercitivo già in funzione nei decenni precedenti, quando veniva attuato attraverso più artigianali metodi di comunicazione. Di conseguenza, il dato che emerge dal sud del paese testimonia semplicement e che chi non ha altro medium di riferimento oltre quello pratico e convenzionale del mezzo televisivo, è condannato inevitabilmente a rimanere indietro, con tutte le conseguenze del caso. Ripeto, ne vedremo delle belle…
[Emiliano Sbaraglia]

 

12-13 giugno. Una partecipazione così lontana dal quorum fa riflettere. Adesso la coalizione candidata a governare deve inserire tra le priorità programmatiche la riscrittura della legge40
Dalle urne, una pesante sconfitta
Fra i promotori dei referendum avevamo sufficientemente chiara la percezione che il quorum sarebbe stato una specie di miracolo, ma una sconfitta così pesante non l’avevamo neppure considerata.
E invece, a poche ore dalla chiusura dei seggi, bisogna riprendersi da quella che è una profonda amarezza per cominciare a ragionare su quel che è successo, perché è successo e perché non siamo stati in grado di anticiparne la dimensione.
Il 25,9% dei partecipanti al voto, così tremendamente lontano dal quorum, è un risultato che ci costringe davvero a riflettere molto.
In questo momento riesco ad introdurre solo i titoli di alcune delle questioni che ci consegna l’esito di questo referendum.
1) Credo che questa scarsa partecipazione rappresenti solo in piccola parte la vittoria dell’astensione militante sollecitata dal Cardinale Ruini e dalla gerarchia ecclesiastica, per la ragione che il fronte astensionista in queste settimane si è sottratto e ha sottratto il Paese ad un confronto diffuso, di merito, pacato sui temi così delicati ed eticamente sensibili chiamati in causa dalla legge 40. Chi non è andato a votare sull’onda della indicazioni delle gerarchie ecclesiastiche o delle alte cariche istituzionali, lo ha fatto mettendo insieme, piuttosto che valori, meschina furbizia e tatticismo politico, una condizione di passività piuttosto che di attiva consapevolezza, l’intenzione di far fallire il referendum.Il raggiungimento del quorum avrebbe di sicuro fatto vincere le buone ragioni di questi referendum contro la legge crudele, .
2) L’astensione che ha vinto, pur sommandosi all’astensionismo fisiologico, coinvolge le pieghe più profonde della società italiana e potrebbe essere particolarmente segnata dal distacco verso la politica.
3) La politica sembra pagare il prezzo di una non sufficiente determinazione nel produrre cultura e consapevolezza diffusa sui diritti e le libertà. Purtroppo abbiamo alle spalle anni di oscilla zioni a sinistra e nei DS su questi temi mentre la politica, la nostra politica avrebbe bisogno di un lavoro di lunga lena per consolidare coscienze e conoscenze sui valori della laicità dello Stato e della affermazione dei diritti civili e delle libertà.
4) E’ una astensione che si aggiunge a tutte le altre di questi ultimi dieci anni, e che sembra ormai rendere pressoché inutilizzabile lo strumento referendario così come congegnato con quorum fisso al 50 più uno per cento.
5) Adesso bisognerebbe dire chiaro e tondo che la coalizione che si candida a governare inserirà fra le priorità programmatiche la riscrittura della legge sulla fecondazione assistita, poiché non credo ad una via parlamentare, con un parlamento così composto e dopo questo esito referendario, di correzione delle parti più mostruose della legge. Non ritengo infatti sia possibile arretrare dai giudizi che abbiamo dato sulla legge, tradotti nei quesiti sottoposti a referendum, e sui quali abbiamo costr uito in giro per l’Italia una vasta campagna di informazione e formazione.
[Katia Zanotti]

 

12-13 giugno. Mentre era in corso la campagna referendaria il centrosinistra ha parlato dei suoi problemi, non del paese
Qualche riflessione su un risultato catastrofico
Alcuni primi elementi di riflessione sul catastrofico risultato referendario.

1)La materia della fecondazione assistita è difficile, complessa, evoca questioni di coscienza. Poteva e può essere argomento di mobilitazione se inserita in una prospettiva più ampia: la necessità di modernizzare il Paese e di estendere la sfera dei diritti e della libertà in tutti i campi, compreso quello dei diritti civili. Questa impostazione della campagna elettorale non c'è stata. Basta andarsi a riprendere il duro giudizio espresso da Enrico Berlinguer sulla posizione delle gerarchie ecclesiastiche in occasione del referendum sul divorzio, e le valutazioni di apprezzamento usate invece in questa occasione. Se non si riteneva di dover fare della laicità dello Stato uno dei punti centrali dell'iniziativa referendaria, sarebbe stato meglio non promuovere il referendum. Del resto quanti elogi avevamo sentito in tutto l'arco della sinistra per la critica al relativismo etico formulata d al nuovo pontefice?

2)Chi di furbata ferisce di furbata perisce. Debolissima è stata l'incidenza della critica alla propaganda per l'astensione, proprio perché veniva da chi dirigendo i Ds aveva impostato la stessa propaganda due anni fa, in occasione del referendum sull'articolo 18. A quanto pare, però, gli elettori hanno la memoria più lunga dei politici.

3)La presenza televisiva del leader non può sostituire la presenza e l'impegno nella società di un partito radicato e vicino ai cittadini. In assenza del quale, oltretutto, mancano anche i sensori per capire che cosa accade, come dimostra il clamoroso errore previsionale sul quorum. La vera e propria demolizione dei partiti, voluta o comunque assecondata nell'ultimo decennio, ha lasciato ad altri la presenza organizzata sul territorio.

4)Il centrosinistra, durante la campagna referendaria, parlava d'altro, nel confuso dibattito su liste e listini scissioni e primarie, che certamente non solo sconcertava, ma f aceva leggere le posizioni ultradifferenziate presenti nel nostro schieramento come metafora di una lotta di potere che respinge, induce a restare a casa o andare al mare, non certo a partecipare. E' poi totalmente mancata la leadership di Romano Prodi.

5)Non è vero, come già qualcuno comincia a dire, che l'Italia è un paese arretrato, ormai strutturalmente incapace di mobilitarsi per i diritti civili. L'Italia si è mobilitata sulla pace e sull'articolo 18. Si mobilita intorno a una speranza di cambiamento. O pensiamo davvero che la società italiana sia più arretrata di quella svizzera, che qualche giorno fa ha votato il referendum a favore delle unioni civili gay?

6)Queste cose qualcuno di noi le sta dicendo da tempo. Questa pesante sconfitta della sinistra deve essere occasione per riflettere e per cambiare strada. C'è un compito di lungo periodo che la sinistra deve affrontare, a partire dall'autonomia delle sue posizioni ideali e sociali. Rutelli e Rosy Bindi sono alleati di governo decisivi, ma esprimono sui diritti civili e sulla laicità dello Stato una cultura che nessun artificio retorico potrà far ritenere tale da potersi fondere in un solo soggetto politico con una cultura socialista di sinistra e laica. Serve un partito radicato nella società, meno monolitico, capace di un suo autonomo pensiero critico che apra alla speranza di un rinnovamento profondo dell'Italia, di un'espansione della democrazia e della partecipazione politica, di una nuova stagione dei diritti civili e sociali: gli anni nei quali la sinistra concorse a conquistare il divorzio, la libertà della donna nell'interruzione della gravidanza, il nuovo diritto di famiglia, sono (e non certo a caso) gli stessi dello Statuto dei lavoratori, della scuola media unificata, del diritto al Welfare per la salute e per le pensioni. Sui diritti si deve andare avanti. Galleggiare in mezzo, conduce solo all'arretramento, come il risultato referendario purtroppo dimostra.
[Cesare Salvi]

 

Da www.aprileonline.info n° 280 del 14/06/2005