La tragedia
dell’indifferenza…..
Procreazione:
neoconservatori ?No, disimpegnati
La
prima ricerca a campione sull'astensionismo al referendum del 12 e 13
giugno
ANDREA FABOZZI
La religione
determina le scelte politiche, come sostiene il presidente del senato
Marcello Pera? Dunque italiani ubbidienti cattolici devoti al cardinal
Camillo Ruini e al suo invito all'astensione? La realtà potrebbe essere
molto diversa, almeno stando al primo sondaggio di opinione realizzato
all'indomani del fallimento dei referendum sulla procreazione assistita
di dieci giorni fa.
Dietro il clamoroso crollo dei votanti non ci
sarebbero i precetti della chiesa e nemmeno l'invito ad andare al mare
amplificato da quei politici sensibili ai desideri del Vaticano.
A vincere ancora una volta sarebbe stato il
disimpegno e il disinteresse. Un dato interessante ma sicuramente non
una sorpresa proprio per il fronte astensionista. Che su questo
disinteresse ha puntato e ha puntato bene.
Il sondaggio è stato realizzato tra il 14 e il 16
giugno (dunque subito dopo la consultazione del 12 e 13) dall'istituto
Coesis research di Milano (anche committente della ricerca). Il
direttore dell'istituto Alessandro Amadori ha anticipato i risultati al
manifesto. Sono state intervistate 800 persone, campione
rappresentativo degli elettori potenziali.
Il 24% di coloro che si sono astenuti ha spiegato
di averlo fatto sulla base di una precisa scelta politica. E' l'area
dell'«astensionismo militante», molto più ristretta di quanto Marcello
Pera o altri teorici dello scontro di civiltà formato embrione
potrebbero auspicare. Soprattutto se comparata a un'area più ampia che i
ricercatori hanno battezzato l'area del «disinteresse» che raggiunge il
31% degli intervistati (ed è così articolata: «Non mi interessavano gli
argomenti», 14%, «Non ero in grado di prendere una decisione», 12%, «Non
ero informato/ non ho compreso l'argomento», 5%). Contigua a quest'area
c'è quella del «disimpegno», che pesa per il 28% (è la somma di più
risposte: «Malattia o imprevisto», 10%, «Ero via per il fine settimana,
9%, «Non mi sono ricordato di andare a votare», 3%, «Altro/ non sa/ non
risponde», 6%).
I sondaggisti del Coesis hanno poi individuato una
quarta area di astensionisti, particolarmente critici con lo strumento
referendario. La somma di coloro che non andando alle urne hanno
manifestato il loro rigetto per il referendum («Non ritenevo il
referendum uno strumento adatto a un tema così delicato», 10%, «Non voto
mai», 3%, «Ero convinto che non si sarebbe raggiunto il quorum», 3%)
raggiunge il 17%.
In sintesi stando ai risultati di questo primo
sondaggio meno di un quarto degli astensionisti hanno ascoltato i
messaggi del variegato fronte anti abrogazionista e sono rimasti lontani
dai seggi perché convinti che la legge 40 sia la migliore legge
possibile.
Si può notare che sono meno di quelli che hanno
fatto invece la scelta opposta, sono cioè consapevolmente andati a
votare (25,9% degli elettori). La parte maggiore del corpaccione
astensionista viene stretta dalla ricerca nella categoria
disimpegno-disinteresse: 59%. Sono i veri vincitori del referendum
fallito e, si può star certi, sono pronti a partire da posizioni di
vantaggio anche per i prossimi referendum. «L'Italia non è stata affatto
invasa da un'ondata montante di spirito neoconservatore o di attivismo
religioso», si legge nella relazione che accompagna i risultati del
sondaggio.
Segue la conclusione, non sapremmo dire se
rassicurante o di maggior sconforto: «Non stiamo diventando ancora
neoconservatori, più semplicemente siamo un popolo disimpegnato».
il manifesto
22/06/05
La tragedia
dell’indifferenza…
DOPO IL
REFERENDUM
Il triste
«valore» del quotidiano
GIOVANNI CESAREO
«Ciascuno per sé e
Dio per tutti». Ho proprio l'impressione che questo antico detto
riassuma bene il senso della motivazione prima dell'astensionismo che ha
affondato il referendum sulla procreazione assistita. Con questo non
voglio dire che non hanno alcuna importanza i compunti o trionfalistici
«approfondimenti» che ci sono stati offerti da tante parti in questi
giorni. Voglio dire soltanto che, temo, nella stragrande maggioranza
degli italiani la decisione di non partecipare al voto è stata
determinata dall'indifferenza e dal disinteresse per quel che non li
tocca direttamente, come ha scritto Rossana Rossanda. E proprio per
questo non c'è da stupirsi se quest'alluvione di astensioni è seguita
alle altissime percentuali di voti per il centrosinistra nelle
amministrative. Il governo di Comuni, Province e Regioni tocca
direttamente tutti, no? E, d'altra parte, è tuttora da verificare quanti
di quei voti siano stati di convinta approvazione del centrosinistra
oppure soltanto di polemico scontento per il governo delle
amministrazioni di centrodestra. Credo sia utile chiedersi se questo
egoismo astensionistico non affondi ancora una volta le sue radici in
quella permanente «cultura del quotidiano», fondata innanzitutto
sull'egoismo e sugli interessi immediati, che viene da lontano in questo
nostro paese, e che sembrava si fosse evoluta in alcuni decenni del
dopoguerra, almeno in una parte crescente della popolazione, e poi,
invece, sembra sia tornata a dilagare. Quella «cultura del quotidiano»
sulla quale la sinistra non ha mai lavorato abbastanza in profondità per
cambiarla e alla quale, anzi, dagli anni Ottanta sembra si sia adattata.
Si parla tanto di «valori». Non sarebbe il caso di chiedersi perché non
si parla più di «ideali»? Per esempio, si è spesso affermato - da destra
ma anche da sinistra - che il «valore» centrale oggi è la famiglia (ma
il richiamo a «Dio, Patria, Famiglia» non mi pare risalga a tempi tanto
recenti ...). Ora, si può anche passare per blasfemi se si dice che
questo «valore» conduce a una visione ristretta ed egoistica del mondo,
ma a me pare che proprio così sia. La famiglia è certamente un luogo
degli affetti, ma guardare al mondo soprattutto nell'ottica della
famiglia, non può che condurre appunto al «ciascuno per sé» o almeno
«per i suoi». Il «valore» famiglia, tra l'altro, aveva un senso al tempo
della famiglia contadina allargata, ne ha uno ben diverso al tempo della
famiglia nucleare monogamica. Nel secondo caso, infatti, siamo al
rifugio o alla gabbia: non per caso tanti giovani vogliono rimanere a
lungo in famiglia ma non essere nel contempo condizionati dalla famiglia
(anche se poi tanti di loro, nelle loro relazioni, continuano a sentire
e agire secondo quanto detta quella «cultura del quotidiano»). Ora,
proprio in occasione di un referendum come quello sulla procreazione
assistita, quanto peso può avere avuto questa familistica «cultura del
quotidiano»? Forse bisognerebbe partire dalle convinzioni di coloro - e
sono pur sempre milioni - che hanno votato «sì» per riflettere e
decidere di lavorare giorno dopo giorno e in profondità, con programmi e
ideali forti, sulla «cultura del quotidiano» di questo nostro
disgraziato paese.
Il
manifesto 21/06/05
Il sacro e la
piazza
Sarà
difficile per le forze politiche di sinistra mettere tra parentesi
il risultato del recente referendum. Non solo per le ricadute
grezzamente politiche sulla coalizione di
centrosinistra, con lo sconquasso della Margherita, la posizione di
Rutelli arruolato tra i laici clericali
e i teocons, lo sconcerto tra i
prodiani e le inevitabili ricadute sulla
posizione dei DS, etc. etc. Sarà difficile soprattutto non
riconoscere la vittoria politica,
anche se pragmaticamente politica, del
duo Ruini-Ratzinger e delle gerarchie
vaticane che sono riuscite a compattare le associazioni cattoliche
più importanti CISL compresa.
Infatti, se è vero – come sostengono alcuni commentatori illuminati
– che la vittoria della Chiesa cattolica è una vittoria “temporale”
di una Chiesa secolarizzata che, superato il crollo della DC come
partito dei cattolici, si presenta essa medesima come
il partito dei cattolici
senza mediazioni, è anche vero che essa si è presa l’appalto di
valori etici e di norme di comportamento (gliel’abbiamo concesso?).
Un vero centro di potere la cui forza ‘sovrapolitica’
unificante delle coscienze è stata
preparata dalla potenza massmediatica di
Giovanni Paolo II e dalla messa in scena della sua lunga e dolorosa
agonia, assorbita in diretta da masse in preghiera, e ha trovato il
suo culmine nella elezione di un Papa davvero
occidentale.
Il sacro si è immediatamente tradotto nel credo cattolico,
spettacolarizzato e presentato come
valore unico e intoccabile, cemento superiore di
una umanità confusa e atomizzata, bisognosa di forme
grandiose di autoidentificazione. Il
sacro non è in ciascuno di noi, il sacro è
in piazza. Il sacro è la piazza. In una piazza così fatta trionfa il
pensiero unico, dove la differenza diventa dissenso, la laicità
viene stigmatizzata come laicismo di cui
vergognarsi, elemento di antiquariato che deve lasciare il passo ad
uno spirito laico compatibile,
anzi riconoscente verso il magistero cattolico che ci dà valori. Il
sacro non si presenta con il suo vero volto di proiezione dell’ansia
di eternizzazione
di un patriarcato che tende ad inglobare la differenza politica
femminile in una femminilizzazione ‘disponibile’;
anzi il sacro a volte si presenta camuffato da antiliberismo, da
antimodernizzazione e da difesa della femminilità, quella
vera. La Chiesa
cattolica oggi opera a due livelli, da una parte come una sorta di
sindacato (richiesta di tutela degli insegnati
di religione cattolica, leggi regionali sulla famiglia e sui
sacerdoti negli ospedali, soldi per le scuole private e per gli
oratorî annessi alle parrocchie etc.), dall’altra parte si presenta
come forza di coesione sociale superparte.
Che
fare?
Occorre lucidamente evitare di considerare l’esito
refendario un incidente di percorso
sulla strada vittoriosa del centrosinistra alle prossime elezioni
politiche. Il referendum, a mio avviso, ci costringe a
riparametrare l’analisi della società
italiana, in particolare di un Mezzogiorno che abbiamo forse un po’
troppo mitizzato. Il Sud – dice
Nichi Vendola
(Manifesto del 15 giugno) – ha percepito il dibattito sul
referendum come “il riverbero di una contesa tra gli stati maggiori
degli schieramenti politici, interna al ceto del palazzo”. Forse è
vero, ma quello che dobbiamo chiederci è perché noi antiliberisti/e
ma laici/laiche
(credenti o no) non ci poniamo il problema di concorrere a costruire
un progetto di etica civile che faccia
delle nostre comunità o organizzazioni politiche non stati maggiori
ma – arendtianamente – spazi pubblici di
confronto, luoghi della politica? Non sarebbe questo un progetto di
“vita activa” (ancora
H. Arendt)?
Il successo della “vigliacca” campagna astensionista di
Ruini, in particolare nel Sud, non è
forse la spia dello stigma dell’antipolitica,
per cui – come dice Rina Gagliardi (Liberazione del 15
giugno) – “la società italiana (io aggiungo, in particolare il Sud)
può virare a sinistra, nel voto politico, nel desiderio di liberarsi
di Berlusconi, ma in troppi suoi luoghi
si è “desertificata” in quanto a valori
e presenza della sinistra”? Io penso di si,
come pure penso che, se è vero (io spero) che le recenti elezioni
regionali hanno segnato la fine del
berlusconismo, è anche vero che questo referendum, per come
si sono collocate le forze “avversarie”, getta una luce ambigua sui
limiti di un cambiamento che non è trasformazione
sociale e
culturale, dunque
politica. Una politica che, appunto, senza etica (un’altra etica
possibile) non vive, diventa politicismo,
alternanza di ceti politici, gestione dell’esistente, infine delega.
Che
c’è, insomma, tra la piazza entusiasta e commossa e il suo, i suoi
leader? Ci può andar bene una sorta di
affidamento salvifico? Una partecipazione vissuta come delega
liberatoria? Quanto siamo riusciti nel
Sud, noi Rifondazione, a vivere i movimenti come soggettività in
movimento piuttosto che come masse in movimento? Quanto nei
movimenti meridionali siamo riusciti a costruire
una idea complessiva
di alternatività, uno spazio pubblico di
confronto, un’etica civile laica e antiliberista che si faccia parte
attiva anche
nell’affermazione dell’autodeterminazione delle donne fuori dalla
cappa della sacralità degli embrioni e dell’onnipotenza della
biogenetica?
Giacché di questo si è trattato, almeno per come molte di noi hanno
condotto la campagna referendaria, nella quale sin dall’inizio
abbiamo messo in evidenza la libertà
femminile come autodeterminazione e insieme responsabilità, fuori
dai rischi apocalittici di quello scientismo di cui parlano con
preoccupazione Marcello Cini (Manifesto
del 15 giugno) e Claudio Magris (Corsera
del 15 giugno).
Abbiamo sempre lucidamente temuto i rischi della
invasività della scienza o
dell’affidamento all’”ultima scoperta”, ma abbiamo fiducia nelle
scelte responsabili delle donne piuttosto che nei divieti del
patriarcato vaticano e di maggioranze parlamentari compiacenti.
A
un’autorità religiosa che chiede potere sulle anime attraverso leggi
dello stato non possiamo appaltare il sacro. Questo tipo di sacro
sarebbe onnivoro, punta a prenderci
l’anima, come Mefistofele con
Faust. Ma
noi, che non vogliamo l’eterna giovinezza come
Faust, noi che abbiamo il senso del limite, possiamo dire di
no a Mefistofele. Diciamolo da subito.
Da ora.
(di
Imma Barbarossa)
Liberazione 17 giugno 2005
Io vescovo sono andato a
votare |
La riflessione
del giorno dopo...
Mons. Luigi Bettazzi (Vescovo emerito di Ivrea)
14 giugno 2005 |
Ho votato per il Referendum, anche se a risultati già scontati.
Ho sempre partecipato alle civiche consultazioni, per principio
e per la consapevolezza "storica" che le astensioni - oltreché
accomunarti con chi lo è per spirito anticivile o per
trascuratezza - non di rado (e questo...fin dal Risorgimento!)
ti rendono corresponsabile della vittoria delle posizioni
opposte.. Ero dunque particolarmente perplesso di fronte alla
posizione tempestivamente proposta dai vertici della CEI ed
inevitabilmente accolta dagli altri vescovi (logicamente anche
dal Papa) e poi da tutta l'istituzione ecclesiale. Tanto più che
a farla interpretare come un espediente astuto (anche se meno
determinante del "no", che esclude per cinque anni il testo
rifiutato), quasi l'invito ad un compattamento trasversale e
manifesto dei cattolici, sopravveniva l'adesione entusiasta di
tanti settori della politica, anche di quelli per sé meno
interessati in quanto in grado di affrontare viaggi onerosi
verso Paesi con leggi più permissive, o di quanti di solito non
sono così sensibili a motivazioni ispirate da principi religiosi
(denominati per l'occasione "atei devoti").
Una conferma veniva anche da una autorevole Rivista cattolica,
che suggeriva di controllare la sera della domenica la
percentuale dei votanti, perché nel caso di una forte
partecipazione, ritenuta favorevole al "sì" (cioè alla modifica
della legge) si potesse il lunedì mattina andare a votare per il
"no".
Trovavo che in atmosfera di testimonianza aperta e di confronto
fraterno sarebbe stato più sereno anche il dialogo con chi non
esclude che l'identità umana possa riconoscersi nell'embrione
solo al precisarsi del DNA individuale o all'annidamento nel
seno materno, sembrando inconcepibile che la natura stessa
(quindi il piano divino) disperdendo molti ovuli già fecondati,
distrugga tante vite umane estromesse dallo sviluppo; facendo
anche comprendere che, nell'incertezza, la Chiesa deve sostenere
la parte più sicura.
Qualunque fosse l'opinione personale, mi sembrava dovermi
comunque adeguare - tanto più come vescovo - all'opinione di S.
Paolo il quale, posto di fronte al problema delle parti di
animali immolati per i riti ufficiali e vendute a basso prezzo
sul mercato, dichiarava di rinunciare alla sua disponibilità a
servirsene - data l'inesistenza degli idoli - se questo avesse
potuto scandalizzare chi invece si sarebbe sentito coinvolto dal
culto idolatrino (v. 1 Cor cap. 8).
Mi ero chiesto se questa modalità di impegno, che potrà portare
l raggiungimento di un traguardo immediato, non possa avere
risvolti meno positivi nella sensibilità dei cittadini, forse
degli stessi fedeli, a cui si è arrivati a dichiarare (anche da
parte di un Cardinale!) che non solo votare "sì", ma
semplicemente andare a votare fosse peccato mortale!
Spero di non incorrere nella conseguenza di essere considerato
un cristiano "disobbediente" (anche se autorevolmente era stato
precisato che si trattava solo di un suggerimento, sia pure
forte e insistente).
Ma mi sembrava doveroso - a Referendum concluso per non turbare
l'indirizzo ufficiale - tranquillizzare la coscienza di quanti
hanno ritenuto che partecipare al voto fosse moralmente
legittimo, quale testimonianza civica più efficace.
[18-06-2005 06:58 - Mons. Luigi Bettazzi ]
da
http://www.namaste-ostiglia.it/ |
Noi sconfitti loro vincitori effimeri
Tra i maggiori sconfitti nel referendum appena conclusosi, vi è
sicuramente il concetto voltairiano "non condivido la tua opinione ma
sono pronto a dare la vita perché tu possa esprimerla".
Invece i referendum sono stati vinti dal peggiore egoismo. E
dall'astensionismo. Non dal cardinal Ruini o da "Scienza e vita", ma
dall'apatia, dal disimpegno politico e civile, dal menefreghismo; hanno
contribuito a questa fasulla vittoria i bacchettoni e i talebani di casa
nostra. Ha perso, ormai in modo irreparabile, l'istituto referendario
stesso e con esso l'unico modo che abbiamo per partecipare direttamente
alla vita civile e politica del nostro Paese. E con il referendum ha
perso anche la democrazia. Altri più esperti di me, faranno dotte
analisi sul senso politico del risultato referendario, su quanto questo
peserà sugli equilibri interni dei due schieramenti, sugli errori del
Ministero dell'Interno, sul quorum e sulla necessità di mantenerlo, se
abolirlo del tutto o misurarlo in base alle percentuali di votanti delle
elezioni precedenti. Una cosa è certa: in una democrazia vera, non
possono essere i menefreghisti a decidere per tutti, non si può
permettere ad una maggioranza di disinteressati alla politica, che è la
maggioranza di coloro che non sono andati a votare, di decidere per
tutti gli altri, altrimenti il "partito degli astensionisti" dovrebbe
contare anche nell'assegnazione dei seggi parlamentari: se ci sono 1000
seggi da dividere, il 25% dovrebbe essere assegnato all'opposizione, il
45% alla maggioranza, il resto dei seggi, cioè quelli che corrispondono
alla percentuale di coloro che si astengono, dovrebbe restare…vuoto! Se
coloro che non votano "decidono" i referendum, dovrebbero "decidere"
anche in materia di leggi, di programmazione e di bilancio dello Stato;
e un giorno si potrebbe così anche arrivare ad eleggere il "vuoto", di
uno dei seggi assegnati agli astensionisti, alla seconda o terza carica
dello Stato, che forse potrebbe risultare anche migliore di quelle
attuali!
Abolendo l'anacronistico quorum si deciderebbe esclusivamente tra chi si
esprime attraverso il voto e si stimolerebbe chi non vota a farlo.
Ovviamente io difendo la libertà personale ad astenersi dal voto, che è
un sacrosanto diritto di ciascuno. Ma considero immorale e incivile
l'invito, fatto agli elettori da personalità religiose e politiche, di
non presentarsi ai seggi elettorali per non far raggiungere il quorum:
questo costituisce un'aperta istigazione a violare la segretezza del
voto, presidio indiscusso di ogni sistema democratico, altro sconfitto
in questa competizione. Alcuni miei amici che vivono in monastero, mi
hanno confessato che sarebbero andati a votare volentieri ma hanno
temuto ritorsioni da parte dei superiori, visto l'ordine di non recarsi
alle urne, la cui osservanza è particolarmente controllabile quando si
vive in ambienti ristretti.
C'è un'altra vittima di questi referendum, ed è la laicità dello Stato,
che ne esce schiacciata da una gerarchia cattolica invadente e
impicciona, che vuol far sentire sempre più il proprio peso nella vita
politica del nostro Paese, come ai "bei tempi" di Gedda e della peggiore
Dc.; alla faccia di quella parte di sinistra che, per illusori calcoli
elettoralistici, ha fatto finta di non scorgerne i segnali premonitori -
che da tempo sono sotto gli occhi di tutti - e, sempre più prona, ha
esagerato in apprezzamenti e sviolinate nei confronti dei vertici
cattolici. Il nostro Paese e i cattolici stessi hanno bisogno di Pastori
che, come affermava don Tonino Bello, "non usino i segni del potere ma
il potere dei segni", che si pongano al sevizio della politica e del
Paese e non si servano di questi per accrescere il proprio potere:
"Compito dei vescovi - afferma il Concilio Vaticano II nella Lumen
Gentium - è indicare valori, non imporre ai credenti scelte che
competono alla coscienza e alla fede di ognuno, proprio perché il
cristianesimo non è mai stato solo potere e lotta fra poteri. Il Vangelo
e la profezia hanno incessantemente animato la crescita dell'umanità
lungo l'asse dei valori democratici, fra cui il primato della coscienza,
il pluralismo, l'etica della responsabilità".
La Chiesa di base, le comunità e le parrocchie, i fedeli cristiani
laici, escono particolarmente sconfitti da questa competizione
referendaria: essi, come sempre, non sono stati né consultati, né
coinvolti nelle decisioni della gerarchia cattolica; essi sono quelli
che hanno perso di più. Ora dovremo abituarci a vedere i fastidiosi
volti gongolanti e pavoneggianti degli effimeri vincitori, certi però,
che il pavone quando, "pavoneggiandosi" appunto, apre a ruota la sua
bellissima coda… scopre il culo!
don Vitaliano
Della Sala,
parroco rimosso di Sant'Angelo a Scala
da Liberazione
15 giugno 2005
Chi ha vinto e chi ha perso nel referendum
Il referendum
sulla procreazione assistita non ha raggiunto il quorum del 50% (ha anzi
raggiunto solo il 25) e quindi decade, la legge 40 resta per ora intatta
con le sue interdizioni, incoerenze e vizi; e non ci soccorre se non la
tenue speranza che lo stesso parlamento che l’ha fatta, ora la corregga.
Quest’esito negativo non ha nulla di sorprendente, tutt’altro, se si
pensa che le forze dell’astensione avevano già in partenza il vantaggio
di quel 25% che abitualmente non vota; avevano poi i partiti della
coalizione di governo autori della legge (sia pur con qualche
eccezione); e avevano infine e soprattutto la pressione imperiosa della
gerarchia ecclesiastica con tutto ciò che da essa dipende, in teoria
tutto il mondo cattolico.
Era essa la grande propugnatrice dell’astensione. Da gennaio, da quando
aveva escogitato questo mezzo come il più semplice per far fallire il
referendum; e aveva quindi mobilitato il suo grandioso apparato di
vescovi e parroci e azione cattolica e associazioni varie e stampa. E il
suo capo per l’Italia, Ruini, era intervenuto con regolare insistenza. E
il papa stesso era intervenuto di rincalzo, con qualche cautela ma con
indubbio significato.
Ha ottenuto dunque il risultato, ma è difficile dire che abbia vinto,
sul piano morale e globale, nell’insieme della situazione italiana.
Piuttosto ha perso, e molto.
Anzitutto ha interferito nell’adempimento di una funzione politica del
cittadino, l’esercizio della sovranità popolare che avviene nel
referendum; ha interferito pesantemente nel politico, contravvenendo
alla distinzione dei due poteri. Non gli era lecito imporre al cittadino
cattolico di astenersi, ma solo chiedergli di votare secondo coscienza,
tenendo presente la dottrina della gerarchia. E non è vero quanto alcuni
hanno sostenuto, che i vescovi hanno solo espresso il loro parere in
materia e, come tutti, avevano il diritto di farlo; non hanno solo
espresso, hanno imposto; hanno detto, con tutto il peso della loro
autorità, che il cittadino doveva astenersi (“opporsi nella maniera più
efficace ai contenuti del referendum”). E, del resto, anche
nell’esprimersi, un vescovo dev’essere cauto, perché la sua parola è
sempre carica della sua autorità e del suo potere.
L’interferenza, poi, è stata particolarmente pesante a livello
parrocchiale, in misura maggiore o minore, certo; ma con interventi
nella predicazione, come da tempo non accadeva, e con un controllo
almeno indiretto su quanti si recavano al voto.
Inoltre, quando Ruini ha sostenuto che, scegliendo l’astensione, si
sceglieva semplicemente una delle tre possibilità offerte dalla legge,
diceva solo in parte il vero. Perché l’astensione era anche, per la
gente, la via che assecondava l’ignoranza e il disinteresse; oltre ad
avvantaggiarsi (furbescamente, hanno detto alcuni) di quel 25% che
abitualmente non vota. Ed era proprio il contrario di ciò che la
gerarchia avrebbe dovuto fare, se fosse stata davvero sollecita della
coscienza dei fedeli, e non solo della loro supina acquiescenza; avrebbe
dovuto suscitare una discussione nella chiesa, una libera discussione,
formativa della coscienza, e di una coscienza libera e critica.
Si apre qui un vasto problema, che è quello del laicato cattolico, della
sua condizione di totale passività, totale assenza dalle decisioni cha
si prendono in quel corpo di cui egli è parte integrante; ed è la parte
– direbbe Thomas More – “di gran lunga maggiore e di gran lunga
migliore”. Bene, la gerarchia si comporta nei suoi riguardi come nel
medioevo, quando il popolo era analfabeta, e il sapere era posseduto
solo dai chierici.
Ma il problema si apre anche su di un altro versante, quello dei
teologi. La dottrina che la gerarchia ha difeso contro il referendum, e
che è contenuta nell’Istruzione dell’87 “Sul rispetto della vita umana
nascente”, firmata da Ratzinger, non invita i teologi alla ricerca sui
delicati problemi, ma solo alla diffusione di quella dottrina. E non
tiene conto del parere dei maggiori teologi, che è difforme proprio nei
due punti chiave del documento, il “principio di natura” e lo statuto
dell’embrione. Infatti essi contrappongono al principio di natura (di
una procreazione che sarebbe lecita solo nell’ordine di natura, cioè
nella congiunzione fisica dei partner) il “principio di persona”: di una
persona che ha ricevuto da Dio un potere sulla natura, e quindi anche
sulle proprie funzioni di natura, per la loro gestione razionale, col
sussidio anche della scienza e della tecnologia. E i maggiori teologi
non riconoscono all’embrione lo statuto di persona.
Ma il problema si apre persino sul versante dei vescovi; tra i quali non
si è mai aperta una discussione su questa materia. E anche nella
preparazione di questo referendum nessuno si è alzato ad affermare il
principio della libertà di coscienza (che pure è stato riconosciuto,
seppur tardivamente, dal Vaticano II), o a richiamare una partecipazione
attiva del popolo di Dio. Nessuno ha osato un parere difforme.
Di chi è dunque questa dottrina che tanto aspramente è stata propugnata,
fino ad aprire un “vulnus” nella laicità dello stato italiano, e una
scissione nel suo popolo, soprattutto nella sua “intellighenzia”? di
Ratzinger, prefetto della Congregazione della fede, che non si è degnato
di ascoltare neppure i maggiori tra i suoi colleghi teologi, e tanto
meno il popolo di Dio? dei papi, di cui cita abbondantemente i discorsi?
ma i discorsi dei papi non possono definire una dottrina.
Ricadiamo dunque nella questione di fondo, quella di una chiesa
cattolica in cui permane ancora intatto, dal retaggio medievale e
feudale, un potere assoluto, un potere dogmatico e dispotico; abituato
all’imposizione e all’interdizione, abituato a decidere da solo, senza
molti riguardi né per la collegialità episcopale, né – tanto meno – per
il tessuto popolare, per quel popolo di Dio che è il corpo vivente della
chiesa.
Bisognerà che questo popolo faccia sentire la sua voce, che si ribelli a
questa servitù; come si è ribellato al potere monarchico e aristocratico
che per millenni lo aveva oppresso. Intanto questo referendum lascia
l’Italia ferita e divisa, lo stato come il popolo feriti nella loro
laicità, nella loro autonomia, nella loro dignità e diritto
Arrigo Colombo
Da
Il Nuovo Quotidiano di Puglia
Dopo la caduta
Quindici anni e
più di spoliticizzazione della società italiana precipitano in quella
cristallina cifra del 25,9% di cittadini e cittadine italiani che hanno
ritenuto utile esprimersi sulla legge sulla procreazione assistita.
Cifra cristallina, e sconfitta cristallina per chi, noi compresi, aveva
creduto nel referendum non solo per correggere una pessima legge, ma
anche per imporre all'attenzione pubblica un tema importante e i suoi
importanti risvolti politici. Tecnicamente, sarebbe stato meglio
attendere che la legge venisse bocciata - come prima o poi accadrà - da
una pronuncia della Corte. Tatticamente, sarebbe stato meglio affidarsi
al solo quesito abrogativo complessivo, quello proposto dai radicali e
bocciato dalla Consulta, più chiaro e più comunicabile dei quattro
quesiti parziali, troppo oscuri e troppo tecnici. Ma ormai non è questo
il punto. E non è nemmeno l'usura dello strumento referendario, che pure
c'è e pure domanda una riforma, ma non può diventare un alibi -
l'ennesimo alibi da ingegneria istituzionale - per non leggere più
spietatamente il risultato. Il punto è che la valenza generale,
culturale e politica, del referendum non è passata nell'opinione
pubblica, che evidentemente l'ha vissuto come una marginale
consultazione su una questione di pochi e per pochi (fatti loro), o
peggio, come un sibillino regolamento di conti interno alle due
coalizioni che si contendono il governo del paese. Il che vuol dire però
che il fronte referendario non è riuscito a comunicare nemmeno al suo
elettorato di riferimento l'importanza dirimente delle poste in gioco
che la materia della procreazione assistita trascinava con sé: libertà
personali, laicità dello Stato, qualità della legiferazione, statuto
della maternità, della paternità e della famiglia, rapporto fra
politica, scienza e diritto nel governo della vita. S'era già visto del
resto negli otto anni di iter della legge: a sinistra mancava un
discorso all'altezza della sfida bioetica, non subalterno al moralismo
cattolico e non ossessionato dalla contrapposizione o dalla mediazione
con le gerarchie vaticane.
E' in questo vuoto
che i fondamentalismi attecchiscono, non solo in Italia; è in questo
vuoto che le «guerre culturali» prosperano, seminando certezze
sull'Embrione, la Vita, Frankenstein, e gettando nel discredito l'intera
tradizione critica della modernità. Non è l'antico conflitto fra laici e
cattolici, Repubblica e Vaticano, Peppone e Don Camillo. E' una nuova
mappa delle appartenenze in cui il tradizionalismo cattolico si salda
con la rivoluzione conservatrice dei teo-con: una miscela aggressiva che
consente alla Cei di cantare vittoria contro «l'assioma
modernizzazione-secolarizzazione», spalleggiata dai nuovi intellettuali
atei che recitano cinicamente il Verbo di Dio.
L'America che ha
premiato Bush è arrivata in Italia? Si direbbe di sì, ma con molta
convinzione in meno e molta indifferenza in più: lì si contavano voti
con le percentuali di partecipazione in salita, qui contiamo astensioni
con i quorum in discesa. Il nuovo fondamentalismo germoglia nel deserto
dell'apatia e del disincanto. Malgrado la convinzione spesa nella
campagna referendaria dalle principali testate nazionali della carta
stampata, segno inequivocabile di una rottura allarmante nel circuito di
formazione dell'opinione pubblica, forse ormai irreversibilmente
prigioniera dell'audience televisiva. E segno altresì di una crisi di
rappresentazione, prima che di rappresentanza, della società, diventata
imperscrutabile nei suoi umori e nelle sue oscillazioni. Quand'è così, è
da un paziente lavoro culturale che la politica deve ripartire:
preoccupandosi di incollare le parole all'esperienza, prima che i leader
alle sigle di partito e di coalizione.
IDA DOMINIJANNI
Da
il manifesto del 14 giugno 2005
Laici a giorni alterni
L’altissima
percentuale di non votanti non lascia luogo ad equivoci: chi ha promosso
e sostenuto il referendum è stato duramente sconfitto. Non vale
recriminare sul tipo di armi usate dall’avversario, che del resto non
aveva fatto mistero di volerle usare, né esercitarsi nel difficile
esercizio di individuare le diverse componenti del variegato arcipelago
dei non votanti. Tentarlo può servire, però, per non commettere errori
di valutazione sull’importanza di chi li ha promossi. Ci sono certo, in
primo luogo, i non votanti di sempre, circa il 30 per cento. Il restante
quarantacinque per cento è costituito dagli astenuti convinti per motivi
ideologici e politici e dagli astenuti in conseguenza dell’intervento di
Ruini e della gerarchia italiana e vaticana. Tra questi possiamo
distinguere, senza poterli quantificare, gli obbedienti, gli obbligati
per timore di sanzioni, i timorosi dell’emarginazione all’interno della
comunità ecclesiale. A questi vanno assimilati i preoccupati
dell’emarginazione sociale nei paesi ad ampia densità mafiosa: i dati
della Calabria e della Sicilia vorranno pur dire qualcosa. Tanti quindi
i padri del mancato raggiungimento del quorum. Difficile districarsi nel
distribuire meriti e demeriti, è certo, però, che Ruini ha individuato
una strategia vincente ed è inutile lamentarsi che è poco rispettosa
della laicità dello stato, quasi fosse di sua competenza difenderla.
Molto più proficuo riflettere sullo stato della laicità in Italia
Chi, come il direttore di un autorevole giornale nazionale definisce la
sconfitta referendaria “il naufragio dell’Italia laica”, non si deve
essere reso conto che l’Italia non è più laica – se mai lo è stata da
quando è diventata Repubblica – da oltre trent’anni come in molti, poco
ascoltati, siamo andati denunciando. Molta strada era stata fatta
dall’approvazione dell’articolo 7 della Costituzione al 1966, quando si
cominciò a parlare di “revisione del Concordato”, al 1981 quando,
nonostante il papa fosse morente dopo l’attentato di Alì Agca, gli
italiani si rifiutarono di abrogare la legge sull’interruzione della
gravidanza. Poi, nel 1984, tutto cominciò a cambiare a partire
dall’applicazione delle clausole del nuovo Concordato. Voluto da Craxi,
fu approvato anche dai comunisti, si oppose solo la sinistra
indipendente. Bisogna partire da qui per riflettere sul rapporto della
sinistra con la laicità. Non ci occupiamo della sinistra che si rifugia
nella comoda nicchia del privato sociale indifferente alle dinamiche
istituzionali nelle quali, lo voglia o non, è necessariamente coinvolta.
Pensiamo alla sinistra che si candida a gestire lo spazio pubblico
nell’interesse della collettività: ignora o misconosce il nesso
inscindibile tra laicità e democrazia. Se democrazia non è solo forma
per selezionare i governanti, ma è sostanziata di libertà, uguaglianza e
solidarietà, laicità non è solo forma dei rapporti stato/chiesa, ma è la
dimensione culturale che legittima tale sostanza. Laicità significa che
nello spazio pubblico – lo stato – non può esserci ideologia o
confessione religiosa privilegiata e che i principi e i valori fondanti
la civile convivenza e ispiratori della cultura della scuola pubblica
sono principi e valori condivisi e definiti nella Carta costituzionale.
La laicità, come nuova cultura democratica autonoma e autosufficiente,
senza essere autoreferenziale, non riconosce a centrali religiose
l’esclusiva nell’elaborazione dell’etica e nella promozione di valori
morali. Alle nuove sfide poste alla società dal rapido avanzamento della
ricerca scientifica e dall’accelerazione nell’innovazione tecnologica,
si risponde rifugiandosi nell’affermazione del primato della scienza e
nell’ineluttabilità del suo sviluppo. Sul governo di tale sviluppo e sul
rapporto tra quel primato e la solidarietà planetaria non ci si
confronta apertamente e criticamente. Di laicità si parla quando il tema
diventa “di moda”.
Ridicoli quindi gli “alti lai” levati dagli esponenti dell’opposizione
sulla laicità violata dall’interventismo di Ruini, dalle novene usate
come spot elettorali, dal terrorismo contro i negatori della personalità
dell’embrione. Sono gli stessi che hanno applaudito il papa in visita al
Parlamento, favorito le manifestazioni liturgico-mondane del potere
della Curia enfatizzate dai media durante il giubileo, e plaudito alla
spettacolarizzazione della sua morte. Nessuna opposizione al dilagare
nel servizio pubblico dell’informazione religiosa, della propaganda
cattolica e dell’interventismo di sacerdoti e cardinali, nessun
distinguo dai cori di esaltazione delle virtù di papa Giovanni Paolo II.
Anzi si propone d’intitolargli la stazione di Roma o l’aeroporto di
Bari. Se c’è tanta dignità in chi regge l’istituzione ecclesiastica,
come può non esserci più quando lancia la crociata contro gli avversari
della Legge 40? Diventa poco credibile il furore laico che scoppia a
giorni alterni.
In questa ambiguità si ritrova la mancanza di chiarezza sul tema della
laicità che impedisce alla sinistra di capire il senso della cosiddetta
rivincita di Dio e del ritorno del sacro, di distinguere l’ossequio alle
gerarchie dal riconoscimento delle benemerite iniziative assistenziali e
sociali, con le quali il volontariato cattolico e le congregazioni
religiose suppliscono, ormai strutturalmente, alle deficienze dello
stato sociale. Riconoscere tali meriti o rigettare vecchi pregiudizi
contro la religione, solidarizzare con gruppi e organizzazioni
cattoliche realmente democratiche o lasciarsi coinvolgere in dibattiti
sul valore dell’esperienza religiosa autenticamente vissuta, non è
contraddittorio con la sistematica lotta al potere ecclesiastico. Non
perché ecclesiastico, ma perché potere anomalo.
La Cei è un potere anomalo: trae autorevolezza dall’essere testimoni del
Vangelo, ma lo tradisce quando si fa soggetto politico sostituendo il
consenso dei fedeli con il farsi potere tra gli altri poteri, economici
e politici, alleandosi con quelli pronti a pagare il prezzo del suo
sostegno. In Italia il prezzo è altissimo anche in termini finanziari e
di presenza di ecclesiastici in strutture pubbliche. Di tutto questo la
sinistra non tiene conto e finge di ignorare che c’è un prezzo che non
potrà mai pagare: la rinuncia alla laicità perché sarebbe la rinuncia
alla democrazia. Non solo non opera per ridurre progressivamente l’onere
finanziario e le forme di presenza, ma quando, su richiesta o per
iniziativa della destra integralista, Parlamento ed Enti locali si
trovano a dover decidere se aumentare contributi e concessioni, entra in
concorrenza con i moderati per timore essere accusata di ostilità alla
religione o di perdere consensi tra i cittadini “devoti”. Questa
debolezza ha reso difficile tener testa ad una campagna promozionale,
come quella sulla personalità dell’embrione, nutrita di spot resi
credibili dall’autorità dei gestori del sacro, ossequiati anche dagli
“infedeli”, e sostenuti dalla potenza finanziaria garantita loro dal
gettito dei finanziamenti pubblici.
Ogni anno oltre mille milioni di euro passano dall’erario alla
Conferenza episcopale. Ad essi vanno aggiunti gli stipendi dei docenti
di religione cattolica, dei cappellani militari e, in alcune regioni,
dei cappellani degli ospedali. Inoltre le opere cattoliche fanno la
parte del leone nel fruire dei contributi, elargiti con criteri
assolutamente discrezionali, dal governo, che li trae dalla parte
dell’otto per mille destinata alla sua gestione per attività culturali,
assistenziali, ricreative. Non c’è dubbio che, senza le ampie
disponibilità finanziarie della Cei, la generosa mobilitazione delle
organizzazioni cattoliche non avrebbe potuto sostenere una campagna
referendaria così intensa e dispendiosa e che, forse, non ci sarebbe
stata quella di tanti comitati scientifici .
Tali disponibilità hanno una funzione essenziale nel costituirsi potere
politico dell’istituzione ecclesiastica: su questo la sinistra non ha
idee chiare né tanto meno sviluppa iniziative coerenti sia sul piano
dell’informazione sia su quello dell’iniziativa politica. Una recente
vicenda dà la misura di tale disinteresse. E’ di questi giorni la
notizia che per generosa concessione del governo sono stati sottratti ai
già magri bilanci dei Comuni gli introiti dell’Imposta Comunale sugli
immobili (ICI) fin qui dovuti dalle scuole, cliniche, centri sportivi e
strutture alberghiere gestite a scopo di lucro da enti confessionali .
D’ora in avanti saranno assimilati agli enti già esentati: luoghi di
culto e attività e servizi offerti gratuitamente. Una sentenza della
Corte di Cassazione del 2004 aveva respinto un ricorso delle Suore del
Sacro Cuore dell’Aquila che pretendevano di non essere tenute a
corrispondere l’Ici per la loro benefica attività nei confronti di
anziani bambini ed emarginati per la quale, però, chiedevano un
pagamento. Le amministrazioni comunali avrebbero potuto imporre la tassa
comunale su strutture destinate a far soldi come licei, cliniche,
residenze e centri sportivi aperti al pubblico pagante. Il governo
Berlusconi ha provveduto ad evitare questa “catastrofe” inserendo nel
disegno di legge sulla “competitività” la norma, che impedisce ai Comuni
l’imposizione dell’Ici a tutti gli enti ecclesiastici.
La presenza di queste enormi risorse rende possibile la conquista
dell’egemonia da parte della gerarchia ecclesiastica, a partire dalla
vittoria sulla legge 40 considerata come rivincita sulle sconfitte,
subite nei referendum sul divorzio e sull’aborto. Solo un radicale
ripensamento a sinistra della cultura della laicità, da non lasciare ai
cultori del laicismo tradizionale, può contrastare la conquista di una
supremazia culturale che, neppure ai tempi dello strapotere
democristiano, la gerarchia cattolica aveva potuto realizzare.
Marcello Vigli
Da www.italialaica.it 16 giugno
2005
Astensione? Ha vinto il
disinteresse
Renato Mannheimer
Hanno pesato poco scelte politiche o religiose, ha prevalso la
difficoltà di comprensione. Anche nel centrosinistra |
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