Don Colmegna:
stranieri e diritti, Milano difenda i più deboli
Mille persone di cui 300 bambini presenti ogni anno, quasi 80 mila pasti, una
media di 130 ospiti
fissi al giorno, provenienti da 75 Paesi diversi: il tutto portato avanti con
volontari pronti a muoversi
24 ore al giorno, e donazioni di sponsor che tengono duro ma sono in lotta con
la crisi come tutti, e
un sostegno comunale che fu di due milioni di euro ai tempi del sindaco
Albertini ma che da allora
segna il passo. La morale è che il saldo attuale della Casa della Carità, a
fronte di un indubbio segno
positivo quanto a servizi resi alla città, marca quest'anno un rosso di oltre
250 mila euro quanto a
bilancio. Appunto come tutti, si dirà, di questi tempi. E infatti il suo
presidente don Virginio
Colmegna si guarda bene dal bussare a quattrini. Ma giunto alla vigilia di
quello che ormai è il
quarto Natale di vita della «sua» struttura non rinuncia a lanciare con forza e
nonostante tutto un
appello. Non per parlare di soldi, come si è detto, ma di diritti: «Il punto
non è l'elemosina, ma la
difesa dei diritti di tutti. Su questo Milano non può rassegnarsi
all'indifferenza: perché quando un
povero non ha da mangiare forse si consuma "solo" un dramma umano, ma quando i
poveri sono
anche "poveri di diritti" si consuma un'ingiustizia. Ed è più grave, perché
interpella tutti noi».
Alcune storie della Casa della Carità in questo senso sono emblematiche di altre
centinaia in tutto
simili. E sono il simbolo di una città che magari in una delle sue tante mense
caritatevoli è
capacissima di offrire un piatto a chi non ce l'ha: ma stranamente non riesce a
riconoscere a tanti ciò
che la legge pure dovrebbe garantir loro di default.
Storie come quella di Zing la cinese, ragazza madre di 31 anni, che non capisce
una parola d'italiano
e che dopo essersi ribellata al laboratorio schiavista di alcuni suoi
connazionali si rivolge ai servizi
sociali: che la ricoverano in psichiatria, le tolgono la bambina, le impediscono
di portarle cibo
cinese. Vive per strada. Finché un giorno, non si sa come, raccoglie stracci e
bambina e se ne torna
in Cina.
Storie come quella di Omar l'egiziano, che dopo aver vinto una borsa di
studio-lavoro come
idraulico e aver imparato piuttosto bene l'italiano ha avuto la sfortuna di
compiere 18 anni: finita la
borsa, se non avrà un lavoro sarà rimpatriato.
Storie come quella di Juri il romeno: che in base alla legge sui neocomunitari
può lavorare solo
nell'edilizia, salvo permessi speciali che richiedono un anno e che di lavori
gliene hanno già fatti
perdere altri due. O come quella della famiglia Ewe, arrivata dalla Nigeria per
sfuggire a una guerra
tribale in cui padre e madre avevano rischiato la pelle. Ma alla loro richiesta
di asilo politico manca
un timbro, peccato: a meno di un miracolo questo sarà il Natale del loro
rimpatrio.
Paolo Foschini Corriere della
Sera 21 dicembre 2008