Il dolore oltre il dolore


C’è una tragedia nella tragedia che pochi capiscono. C'è una tragedia umana che, malgrado tutto, un
senso ancora ce l'ha. E c'è una tragedia artificiale tutta dentro quella umana, cui è difficile dare un
senso. La tragedia umana cui la mia famiglia è stata sottoposta è quella che la sorte ci ha riservato il 18
gennaio 1992: un incidente stradale ad una figlia di ventuno anni è una disgrazia che capita alle famiglie sfortunate.

È l'imprevedibile di cui è costellata l'esistenza dagli inizi del tempo, a cui siamo
abituati perché contrappasso della stessa possibilità del vivere: accettare che accadano cose sulle
quali non è possibile per l'uomo avere un controllo, un governo, che non è possibile prevedere né
impedire. Mia figlia uscì da questo incidente in coma profondo, intubata, la testa piena delle lesioni
subite, fogliolina muta a brandelli, malamente attaccata all’albero della vita.
Ci dissero di attendere le prime quarantotto ore, poi altre quarantotto, poi ancora. Noi genitori
eravamo del tutto sgomenti per quello che vedevamo accadere, ma fin qui ci sembrava di vivere
nell'umana consuetudine, cui fa la sua parte vischiosa e drammatica anche il dolore - quello che fa
piangere nei corridoi degli ospedali, quello che ti lascia un senso di precarietà così acuto da
avvertirlo sotto lo sterno, una vertigine da perdere il fiato, da perdere il senno.
La tragedia maestra, sfidando la legge dell'umana sopportazione e lasciandoci di stucco perché
credevamo di essere già sul fondo della disperazione possibile, doveva ancora arrivare. Mia figlia,
in piena salute, aveva avuto modo di vedere nel caso di un amico che cosa adesso le volevano fare,
lo aveva visto con i suoi occhi ed aveva intuito che la strada intrapresa dalla medicina d'urgenza era
piena di pericoli, o meglio ne sfiorava uno solo, ma profondo come un burrone.
Quando si interviene con i soccorsi e si salvano le persone dalla morte non va sempre bene. È
questa una realtà di fatto quasi sconosciuta. I medici possono impedire il decesso ma creare un
danno che è ben peggiore. Ben peggiore se viene sbarrata la porta di uscita, se non si può scegliere
per la dipartita. Lo stato vegetativo permanente - SVP, è proprio ciò a cui mi riferisco. La
sopravvivenza obbligatoria ad oltranza è poi la sua punta nauseabonda d'eccellenza.
Mi spiego: se i medici intervengono e grazie al loro soccorso qualcuno non muore ma entra in SVP,
attualmente, non ne può più uscire. Anche se si era espresso in passato dicendo che non avrebbe
voluto stare in vita senza accorgersene, con le mani altrui che violano ogni intimità, ogni distanza
fra la sfera personale, il proprio corpo, e il resto del mondo, non ne può più uscire.
Mi accorsi con incredulità che i medici con cui parlavo e la gente tutta intorno, avevano un punto di
vista antitetico al mio, avevano valori opposti ai nostri; guardando lo stesso punto vedevamo cose
diverse. Eccola, la vera tragedia: la civiltà a cui appartenevo, in quel preciso momento storico,
aveva fatto valere per tutti dei valori nei quali Eluana, sua madre Saturna ed io non ci
riconoscevamo e non ci riconosciamo. Essa difendeva, con i suoi ordinamenti giuridici e
deontologici, il dovere di far sopravvivere gli individui in SVP contro la loro volontà per rendere
omaggio alla vita, a questo bene personalissimo. Che lo SVP sia eretto, come ora accade, a
paradigma della difesa del valore della vita umana, che sia fatto strumento per innalzare osanna
verso supposte divinità, mi sembra una follia. Che esso incarni lo stato dell'arte della medicina
d'urgenza, dopo un prodigioso acceleratissimo sviluppo, anche.
«Ti strappiamo alla morte, non sei con i vermi», ho dovuto anche sentirmi dire dai medici «non ti
basta»? No, non mi basta è la mia risposta. Non riesco a concepire che questa cultura del «non
morto encefalico» (così mi fu definita questa condizione in cui non sei più come le altre persone e
non sei in stato di morte cerebrale) si faccia chiamare «cultura della vita». E mi sconvolge la tenacia
con cui vogliono difendere questa conquista dell'invasività tecnologica che, ai miei occhi, è un
macroscopico fallimento e miete vittime in modo inaudito, come le guerre. Mi sembra di scorgere
quello che è accaduto: la morale medica e religiosa dominante, nel nostro Paese e nella nostra
politica, non è stata in grado di stare al passo dell'evoluzione medica e si è limitata a stazionare in
quella che era la scelta consona per il secolo scorso, quando l'80% delle persone non moriva, come
avviene adesso, nei letti ferrosi degli ospedali.
La tragedia nella tragedia è che Eluana sopravvive finora per il volere di alcune persone che si sono
messe tra lei ed i fatti tutti suoi, tra lei ed il suo desiderio di essere lasciata morire senza prima
sostare nel corridoio vuoto dello SVP. Mai e poi mai può essere dato ad alcune persone il potere di
creare queste cose e ad altre il potere di imporle.
È di una violenza inaudita non poter rifiutare l'offerta terapeutica. Eluana, Saturna ed io sapevamo
come evitarlo, avevamo ben presenti i problemi della rianimazione ad oltranza e lo sbocco possibile
nello SVP. Tutto era stato chiarito. I nostri pensieri convergevano verso un'unica opinione: è
preferibile rinunciare a questa insensata possibilità di sopravvivenza.
Vorrei fosse sempre chiaro che noi, al contrario di altri, non esprimiamo giudizi su chi nutre
fermamente un'opinione diversa dalla nostra. Per la libertà che difendiamo, rispettiamo il desiderio
di chiunque riguardo a se stesso. E nonostante gli scontri e le batoste ricevute non abbiamo mai
smesso di cercare il dialogo, il confronto, perché sentiamo la nostra posizione umanamente e
razionalmente sostenibile è sempre più condivisa.
Ho notato, con amarezza, che le persone restie ai condizionamenti - delle quali Eluana era una
evidente esemplare - vengono mal tollerate dalla nostra società perché, reclamando l'esercizio delle
loro libertà fondamentali, sovvertono l'ordine prestabilito, e questo infastidisce e spaventa. Non si
coglie che essi sono una ricchezza per la collettività, uno sprone al pensare da sé, un contributo al
pacifico e prezioso fermento civile. Forse si teme il contagio che la libertà, come l'allegria, sanno
muovere tra le persone dalle sensibilità affini.
Con la sentenza della Corte Suprema di Cassazione del 16 ottobre 2007 e con il decreto della Corte
d'appello del 9 Luglio 2008, è iniziata la controtendenza: da randagio che abbaiavo alla luna son
passato ad araldo di un diritto sentito da molti (diritto che, non dimentichiamolo, in alcuni paesi è
stato riconosciuto trent'anni fa!). La Cassazione ha ammesso che nessuno può decidere né «per» né
«al posto» di Eluana. Nei fatti sono dovuti trascorrere 5750 giorni, 15 anni e 9 mesi, per poter
intravedere la possibilità di decidere «con» Eluana, la stessa che ho osato rivendicare dal lontano
gennaio 1992.
Ho sempre dato per scontato che la possibilità di rifiutare la sopravvivenza in SVP dovesse rientrare
tra le nostre libertà ed i nostri diritti fondamentali. Credo che le Corti non tarderanno a ribadirlo
nonostante l'ultimo ricorso della Procura della Repubblica della Corte d'Appello di Milano.

Beppino Englaro       l'Unità del 30 agosto 2008

*Socio della Consulta di bioetica