Do ut des in nome del crocifisso

Dunque il crocifisso deve rimanere nelle aule delle nostre scuole. Nessuna meraviglia: la sentenza del Consiglio di Stato era prevedibile, in un paese e in un momento nel quale la laicità è in piena crisi. Ma la chiesa? Nessuna reazione nei confronti della motivazione, a dir poco, equivoca? Nessuna contestazione? Il Consiglio di Stato ha dichiarato che il crocefisso deve rimanere perché «simbolo dei valori dello stato laico». Un crocefisso, dunque, laicizzato, offeso, appiattito. Si potrebbe dire degradato. E la chiesa prende atto, forse addirittura soddisfatta, come se questa sentenza fosse per lei una vittoria. Sembra dunque che dimentichi il valore, a dir poco «rivoluzionario» del crocefisso. Dimentichi che Gesù è stato ucciso proprio perchè si opponeva all'ordine stabilito, all'abbraccio che stringeva stato e chiesa di allora. Ucciso dai «benpensanti», certamente non in loro difesa.

Aveva annunciato non l'ossequio alle leggi, ma proprio il contrario, le beatitudini - che oggi andrebbero ricordate - degli ultimi, degli oppressi, dei poveri, degli emarginati. La sentenza del Consiglio, al contrario, lo mette insieme alle autorità, alle polizie, alle cattedre, ai mass media, ai governi. Non a caso sui muri delle scuole - e anche dei tribunali - il crocefisso si trova in compagnia della bandiera e dei simboli della autorità costituita, proprio quei simboli che Gesù aveva voluto discutere, criticare, ridimensionare.

Con questo silenzio compiacente l'autorità ecclesiastica cattolica, per lo meno in Italia, si avvia sempre più decisamente ad essere, come si suol dire, «religione civile»: religione, cioè, che sostiene lo stato e lo sorregge nei confronti delle possibili crisi. Gli fornisce «valori», ossia sostegni, approvazioni, motivazioni. Contro tutte le possibili contestazioni e incertezze. Lo stato ringrazia e continua ad appendere crocefissi e ad elargire favori. Sempre «do ut des».

 

FILIPPO GENTILONI   Il manifesto 19/02/2006