IL DISPOTISMO DEL PROFITTO

(intervista di Massimo Novelli a Serge Latouche)

 

«Decolonizzare l’immaginario, decolonizzare gli spiriti».

Ovvero come e perché uscire dal dispotismo dell’economia e del profitto, mettendo al centro della vita degli esseri umani significati diversi rispetto a quelli dell’espansione della produzione e del mercato. Sono le condizioni necessarie per cambiare il mondo pri­ma che il cambiamento del mondo ci condanni a vivere nel dolore, quelle che l’economista Serge Latouche, diventato una sorta di padre spi­rituale del movimento noglobal, pone al centro di Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa, il suo nuovo saggio che sta per uscire da Bollati Boringhieri. Lo studioso francese sarà in Italia in questi giorni per partecipare agli incontri di «Torino Spiritualità», una rassegna di dibattiti e di riflessioni (da oggi al 25 settembre) sui temi cruciali della nostra con­temporaneità a cui parteciperanno, tra gli altri, Richard Rorty, Amos Oz, Nawal El Saadawi, Eugenio Scalfari, Gustavo Zagrebel­sky, Umberto Galim­berti, Abu Zayd, Gil­los Kepel, Nathan Englander.

 Professore Latouche, nel suo libro scrive che occorre liberarsi dall’immaginario economico fondato sull’onnipotenza del mercato, sulla credenza che «di più» sia «uguale a meglio». E’ questa la strada per costruire una società al­ternativa all’attuale dominata dal capitalismo globale?

«Certo, io concordo con quanto affermava Cornelius Castoriadis, e cioè che il capitalismo sia innanzitutto il dominio dell’immaginario economico, in cui il mercato, il de­naro, il consumo, lo sviluppo, diventano la base di ogni cosa. Invece bisogna uscire dal cir­colo vizioso, dalla gara assurda della crescita per la crescita, che sta portando il nostro pianeta alla fine».

 Siamo ormai allo stato defi­nitivo di saturazione da crescita?

«Ma sì: che cosa deve ancora crescere? Abbiamo consumato tutto. Si prenda la questione dell’occupazione. Si è constatato come la crescita non abbia creato molta occupazione, anzi. Però, nello stesso tempo, l’imperativo è quello di crescere ulteriormente per tentare di creare quell’occupazione che la stessa crescita, lo stesso svi­luppo, non sono riusciti a produrre. E’ folle».

 In che maniera si possono cambiare le abitudini radicate di milioni di uomini e di donne occidentali, che vivono in quella che nel suo saggio è definita «tossicodipendenza della crescita»?

«I concetti dell’economia sono prima di tutto mentali, spirituali. Oggi l’economia è divenuta una fede, una religione. Quindi adesso bisogna diventare degli ateisti dell’eco­nomia. Ma soltanto il primo passo per una trasformazione reale. Nei Sud del mondo, penso in particolare all’Africa, proprio le devastazioni causate dallo sviluppo imposto dall’Occidente, distruggendo il modo di vivere di milioni di persone, senza portarle peraltro alla società dei consumi, hanno costretto le popolazioni locali, per sopravvivere, a inventarsi autoproduzioni fuori dalle logiche del mercato. In Occidente dovremo cambiare per amore o per forza. Il nostro sistema produttivo, infatti, è dipendente da una fonte d’energia, il petrolio, che si sta esaurendo, e soprattutto non è più a buon mercato».

 La fuoriuscita dal regno dell’economia globalizzata è pensabile senza una fuoriuscita dal sistema capitalista?

«Ma chi so oggi che cosa sia il capitalismo? E poi sappiamo, sulla base dell’esperienza dell’Unione Sovietica e dei paesi con regimi analoghi, che abo­lire la proprietà privata e il mercato non basta per costruire una vera società alternativa. Di sicuro il denaro, per esem­pio, è molto distruttivo, però il problema non è tanto abolirlo, bensì cercare di far sì che la gente comune se ne riappro­pri. Occorre incastonare tute queste istituzioni  la moneta, il mercato, la proprietà  dentro il sociale. E riequilibrare pertanto la logica economica con quella sociale. Deve essere fatto in fretta, ormai i limiti sono davvero stretti».

 

(Da La Repubblica del 20 Settembre 2005)