Dio, fede e confusione

 «Tutto ciò che non è tradizione è plagio», dice una frase di Eugenio D'Ors scolpita di fronte al Museo del Prado a Madrid. Ma che cos'è, propriamente, la tradizione? Il termine compare inevitabilmente nelle discussioni, interne ed esterne alla Chiesa, relative alle prese di posizione, agli indirizzi e agli orientamenti di quest'ultima, specialmente in rapporto ai problemi etico-politici di una società che, come quella contemporanea, sta trasformandosi con rapidità sconcertante e rimescolando o sgretolando i valori sui quali sinora si è fondata.

Nei dibattiti e nei commenti dedicati all'atteggiamento della Chiesa si contrappongono spesso i tradizionalisti ai progressisti, quasi sempre in riferimento al Concilio Vaticano II, che sarebbe avversato dai primi per le sue innovazioni e, per gli stessi motivi, caro ai secondi. Se le cose stessero effettivamente così, i primi non avrebbero il diritto di chiamarsi o di essere definiti con quel termine e si porrebbero anzi fuori dalla Chiesa, com'è infatti accaduto ad alcuni gruppi a suo tempo scomunicati per tali motivi (per esempio il movimento di Lefebvre) e ora rientrati all'ovile. Un autentico tradizionalista accoglie tutta la tradizione, il Concilio Vaticano II come quello I e quello di Trento; può e deve condannare le colpe mondane della Chiesa, ma deve accettare integralmente il suo magistero, anche se può personalmente sentirsi più vicino a certi momenti che ad altri e apprezzare Giovanni XXIII più di Pio XII o viceversa. Il tradizionalismo, in realtà, nega la tradizione, la sua incessante, creativa vitalità. Lo scriveva anni fa Rodolfo Quadrelli, saggista e poeta la cui scomparsa ha mutilato la cultura italiana di una delle sue più libere intelligenze. Cattolico fervente, fieramente originale nelle sue posizioni e sempre fedele alla Chiesa, Quadrelli non era un intellettuale di destra, come talora si è detto (basterebbe pensare a ciò che ha scritto su Allende e sul delittuoso colpo di Stato in Cile), ma non era certo di sinistra e ha criticato spietatamente — con una lucidità intellettuale che gli ha permesso di cogliere in anticipo tanti aspetti involutivi della nostra società — la supponenza progressista, la secolarizzazione che appiattisce la vita, il conformismo laicista. La Tradizione — che egli amava e che scriveva con la maiuscola — era a suo avviso negata e vilipesa dai tradizionalisti che guardano al passato e solo al passato, come se lo spirito cristiano-cattolico si fosse esaurito dopo i primi secoli di vita della Chiesa e dunque quest'ultima non avesse successivamente più nulla da dire e potesse solo ripetersi. La Tradizione, egli diceva, è la creatività spirituale della Chiesa che non perde mai la sua freschezza sorgiva e la sua vitalità, bensì si accresce di continuo, senza rinnegare nulla del passato, ma aprendosi al presente e al futuro e rispondendo alle sempre nuove esigenze della storia dell'uomo, inserendole e integrandole nella sua unità e nella sua continuità. Il tradizionalista che si ferma al passato nega e offende la Chiesa e la sua cattolicità ovvero universalità, perché la considera di fatto una morta reliquia.

I cosiddetti «teocon» — termine alquanto infelice, da gergo di gruppuscolo o da complesso rock — possono capire poco di queste cose, perché in genere non hanno alcuna esperienza del Cristianesimo e del Cattolicesimo, non l'hanno frequentato e magari credono che l'Immacolata Concezione indichi la maternità verginale di Maria anziché il suo essere immune dal peccato originale.

Della Chiesa hanno un'immagine vagamente nobile e consolatoria, così come si sa che nell'induismo ci sono divinità raffigurate con molte teste e molte braccia. La stessa autodefinizione di «atei devoti» — in cui l'arrogante professione di ateismo vorrebbe darsi una patina di cinismo libertino settecentesco, come quello degli abati galanti dell'ancien régime

— non è la migliore premessa per occuparsi di cose di fede.

La laicità è altra cosa; non si contrappone alla religione e alla Chiesa, ma è la capacità di distinguere ciò che è oggetto di fede da ciò che è oggetto di dimostrazione razionale, ciò che compete allo Stato e ciò che compete alla Chiesa. Essa si contrappone al clericalismo intollerante come al laicismo intollerante; veri laici sono stati sia credenti e praticanti, quali ad esempio Jemolo, sia non credenti e non praticanti. Che il cristianesimo e, in Paesi come l'Italia, il cattolicesimo, costituiscano un punto fondamentale di riferimento anche per i non credenti e i non praticanti è ovvio, perché la Scrittura è, insieme alla tragedia greca, il più grande sguardo gettato nell'abisso della vita ed è una linfa e radice essenziale dell'universalità umana e della nostra civiltà in particolare.

I «teocon», come chiunque altro, hanno tutto il diritto di trarre dal loro atteggiamento verso la religione l'orientamento politico che credono e di operare politicamente secondo i loro principi e interessi. Ma né essi — né chi la pensa all'opposto — possono pretendere di tirare Dio dalla loro parte. Il Regno dei cieli, ha detto Cristo, non appartiene a coloro che gridano ostentatamente «Signore, Signore!». Quei reverendi (protestanti, in questo caso) che hanno visto nella strage dell'11 settembre la punizione di Dio per le colpe degli Stati Uniti e quelli che hanno invece salutato la vittoria elettorale di Bush come la volontà di Dio, sono ben più blasfemi degli avvinazzati che sacramentano all'osteria e che sono forse meno lontani, sia pur da peccatori, dalla tradizione.

Nessuno può pretendere di tirare Dio dalla propria parte. Gli «atei devoti» è meglio che non si occupino di cose di fede.

 

Claudio Magris     Corriere della Sera 26 ottobre 2006