Dibattito Un'analisi del politologo americano: bisogna capire perché l'integralismo religioso non può arrendersi alla modernità


La teologia politica minaccia l'Occidente.
Chi crede che la legge di Dio debba governare l'umanità segue un istinto antico, destinato a sfidare la democrazia


Mark Lilla. Americano, professore di Scienze umane alla Columbia University, si dedica nei suoi saggi storici al rapporto tra fedi moderne e politica.
La Sharia, ispirata al Corano e a Maometto, è la legge islamica che organizza vita individuale e collettiva, culto, riti, leggi che regolano le azioni dei fedeli


Poco più di due secoli fa abbiamo cominciato a credere che l'Occidente avesse imboccato una strada a senso unico verso la democrazia moderna e laica e che le altre società, una volta imboccato lo stesso percorso, l'avrebbero inevitabilmente seguito. Malgrado le cose non siano andate così, ancora conserviamo una tacita fede nel processo di modernizzazione e attribuiamo i ritardi a circostanze attenuanti come la povertà o il colonialismo. Una convinzione che detta il nostro modo di vedere la teologia politica, soprattutto nella sua forma islamica, come atavismo che richiede un'analisi psicologica o sociologica ma non un serio impegno intellettuale. I musulmani, anche quando sono professionisti colti, ci appaiono prima di tutto come rappresentanti frustrati e irrazionali di società frustrate e irrazionali, niente più. Viviamo, per così dire, sull'altra sponda. Da una sponda le istituzioni politiche sono concepite dal punto di vista dell'autorità divina e della redenzione spirituale; dall'altra no.
Comprendere tale differenza è il compito intellettuale e politico più urgente del nostro tempo. Ma da dove cominciare? Il caso dell'islam contemporaneo è ben presente nella mente di tutti, ma così soffuso di rabbia e ignoranza da risultare paralizzante. Non sentiamo altro che suoni incomprensibili che motivano atti detestabili. Se vogliamo sperare di trovare la chiave della grammatica e della sintassi della teologia politica, a quanto pare dobbiamo cominciare con noi stessi. La teologia politica è stata una presenza nella vita intellettuale occidentale fin dentro il XX secolo, quando aveva dismesso il paradigma medievale e trovato ragioni moderne per cercare ispirazione politica nella Bibbia. A tutta prima questa moderna teologia politica esprimeva una visione apparentemente illuminata ed era accolta da coloro che avevano a cuore le sorti della democrazia liberale. Ma dopo la prima guerra mondiale prese una piega apocalittica, e "uomini nuovi" ansiosi di abbracciare il futuro presero a produrre giustificazioni teologiche per le più ripugnanti — ed empie — ideologie del tempo, nazismo e comunismo. (...) Il revival della teologia politica nell'Occidente moderno è una storia umiliante. E ci ricorda che quell'approccio di pensiero non è appannaggio di una sola cultura o religione e nemmeno appartiene soltanto al passato. È un antico abito della mente che può essere ripreso da chiunque cominci a guardare al legame divino tra Dio, uomo e mondo per trovarvi l'ordine politico legittimo. Questa storia ci ricorda anche come la teologia politica possa essere adattata alle circostanze ed essere rilanciata, anche di fronte a forze apparentemente irresistibili come quella della modernizzazione, della secolarizzazione e della democratizzazione. Un istinto ci spinge a collegare le nostre vite terrene, in qualche modo, all'aldilà. Quello slancio può essere soppresso, si possono apprendere nuovi modi, ma la sfida della teologia politica non scomparirà mai del tutto fintanto che resisterà quell'istinto.
Così siamo eredi della Grande Separazione solo se lo vogliamo essere, se facciamo uno sforzo consapevole per separare i princìpi di fondo della legittimità politica dalla rivelazione divina.
Ma si richiede più di questo.
Poiché la sfida della teologia politica non accenna a placarsi, dobbiamo continuare a essere consapevoli della sua logica e della minaccia che rappresenta. Questo impone vigilanza, ma ancora di più richiede consapevolezza di sé. Bisognerà ricordare sempre che non c'era niente di storicamente inevitabile nella Grande Separazione, che fu e che rimane un esperimento. In Europa, le ambiguità politiche di una religione, il cristianesimo, scatenarono una crisi politica che sarebbe stato possibile evitare, ma che non fu evitata e diede luogo alle guerre di religione; la conseguente carneficina rese i pensatori europei più ricettivi alle idee eretiche di Hobbes sulla psicologia religiosa e alle relative implicazioni politiche; col tempo quelle idee politiche furono liberalizzate.
Ma fu comunque solo dopo la seconda guerra mondiale che i princìpi della moderna democrazia liberale si radicarono pienamente nell'Europa continentale.
Quanto all'esperienza americana è delle più eccezionali: non esiste altra società industriale pienamente sviluppata con una popolazione tanto impegnata nelle sue diverse fedi (e in fedi così esotiche) e al tempo stesso nella Grande Separazione. La nostra retorica politica, che deve molto ai movimenti settari protestanti del XVII secolo, vibra di energia messianica, ed è solo grazie a una forte struttura costituzionale e a varie fortunate rotture che la teologia non ha mai seriamente messo in crisi la legittimità di fondo delle nostre istituzioni. Le diverse posizioni religiose degli americani sono potenzialmente esplosive su temi come l'aborto, la preghiera nelle scuole, la censura, l'eutanasia, la ricerca biologica e innumerevoli altre questioni che però in genere vengono affrontate nei limiti della Costituzione. È un miracolo.
E i miracoli non possono essere ordinati. Malgrado tutto il bene derivato dallo spostamento dell'attenzione politica da Dio all'uomo iniziato da Hobbes, rimaneva però l'impressione che la sfida della teologia politica sarebbe scomparsa una volta interrotto il ciclo della paura, quando gli esseri umani avessero finalmente potuto esercitare la loro autorità sulle faccende umane. Ed è ancora quella l'idea quando parliamo di "cause sociali" del fondamentalismo e del messianismo politico, come se il miglioramento delle condizioni materiali o lo spostamento dei confini generasse automaticamente una Grande Separazione. Niente nella nostra storia o nell'esperienza contemporanea conferma questa convinzione, eppure non ci rassegniamo ad abbandonarla. Così, quando oggi incontriamo la vera teologia politica, ci troviamo in una trappola intellettuale: o presumiamo che la modernizzazione e la secolarizzazione alla fine ne avranno ragione, oppure la affrontiamo come una minaccia esistenziale incomprensibile e per descriverla come meglio ci riesce usiamo termini familiari come fascismo. Ma nessuna di queste reazioni ci aiuta a capire meglio il mondo in cui viviamo.
Un mondo in cui milioni di persone, soprattutto nell'orbita musulmana, credono che Dio abbia rivelato una legge per governare tutti gli affari umani. Tale fede modella la politica di importanti nazioni musulmane, e anche l'atteggiamento di un gran numero di fedeli che si trovano a vivere nei paesi occidentali — e in democrazie non occidentali come la Turchia e l'Indonesia — fondate sui princìpi loro estranei della Grande Separazione. Sono questi i punti di frizione più significativi, a livello internazionale e nazionale, con i quali dovremo imparare a convivere.
Analogamente dobbiamo trovare il modo per accettare il fatto che le nazioni occidentali oggi sono abitate da milioni e milioni di musulmani che hanno grandi difficoltà ad adattarsi a società che non riconoscono le rivendicazioni politiche basate sulla loro rivelazione divina. Come la legge degli ebrei ortodossi, la sharia vuole coprire l'intera vita, non solo una certa sfera privata arbitrariamente demarcata, e il sistema giuridico ha poche risorse teologiche per definire l'indipendenza della politica da precisi ordini divini. Una brutta situazione ma ce la siamo voluta noi, musulmani e non musulmani. Tolleranza e reciproco rispetto possono essere d'aiuto, così come regole chiare negli ambiti più critici, come lo status delle donne, la giurisdizione dei genitori sui figli, la protezione della sensibilità religiosa da discorsi o atti ritenuti offensivi, lo standard dell'abbigliamento nelle situazioni pubbliche eccetera. I paesi occidentali, per tenere testa al problema, hanno adottato strategie diverse, certuni proibendo alcuni simboli religiosi come il velo nelle scuole, altri permettendoli. Ma dobbiamo riconoscere che all'ordine del giorno non c'è la difesa di nobili princìpi, ma la necessità di tenere testa al problema, ed è bene anche ridimensionare le nostre aspettative. Fintanto che un gran numero di persone crede nella verità di una teologia politica globale, non ci si può aspettare la piena riconciliazione con la democrazia liberale moderna.

Mark Lilla     Corriere della Sera 17.12.07