Il diavolo confessore
La chiesa
argentina guarda al suo passato... per esempio al cappellano militare Von
Wernich, che confessava i prigionieri del regime sotto tortura, invitandoli a
collaborare perché l’Altissimo lo pretendeva... Il vescovo vicario della diocesi
di san Miguel visitava giovani donne che stavano per partorire. Nude e
incappucciate per non riconoscerlo. Se ne andava col bambino appena nato mentre
la madre veniva assassinata
Non so quale tormento ha sconvolto i cattolici argentini nell’ascoltare il
racconto dei sopravvissuti alle squadre della morte dei generali P2. Nella
tribuna dell’imputato era seduto il cappellano militare Christian Von Wernich e
le Tv e i fotografi che cercavano di cogliere nel volto un’ombra di imbarazzo
(se non di pentimento) trovavano occhi di ghiaccio, labbra piegate nel sarcasmo
quando, chi uscito vivo dalle prigioni clandestine, spiegava quale inferno aveva
attraversato. L’ho visto e rivisto in Tv per evitare il luogo comune del
colpevole indifferente, ma Von Wernich resisteva nel rappresentarsi come luogo
comune senza speranza. Ha confessato i prigionieri che non si erano arresi alla
tortura non avendo segreti da raccontare, invitandolo a collaborare perché
l’Altissimo lo pretendeva. Chi confidava la verità nascosta - abbandono di ogni
credente al confessore - era lontano dal sospetto di un confessore spia dei
torturatori. L’accusa ha inchiodato all’ergastolo Von Wernich: 7 omicidi, 32
casi di tortura ripetuta dopo le notizie raccolte nel confessionale e 42 amici
spariti nel nulla. Nove anni fa il capitano Scilingo, primo repressore ad aver
confidato a Horacio Verbitsky (autore de Il volo, editore Feltrinelli) come
funzionava la repressione, racconta delle parole di consolazione con le quali
Von Wermich ed altri cappellani militari accompagnavano i condannati a morte
verso l’aereo che li avrebbe dispersi in mare: la volontà del Signore lo
pretendeva, segno dell’ amore col quale proteggeva la patria. «Rassegnati, Dio
lo sa». Nell’interpretazione di questi sacerdoti, la rassegnazione disinfettava
dagli insetti maligni la nuova società che il delirio dei militari stava
disegnando. Ma non erano insetti e non erano maligni: solo ragazzi che non
sopportavano l’oppressione armata.
Ecco perché 30 anni dopo memoria e perdono restano i problemi irrisolti della
Chiesa nel continente più cattolico del mondo. Von Wermich non è diventato
improvvisamente colpevole otto giorni fa. Subito dopo la sentenza del tribunale,
la Chiesa annuncia procedure per decidere il destino di un prete del quale si
conoscono i delitti da tempo immemorabile. Negli ultimi mesi ogni vescovo ha
incontrato ogni giorno su ogni giornale e ogni Tv i racconti dei testimoni e i
documenti che provano l’orrore. Non a caso il comunicato della Commissione
Episcopale appare cinque minuti dopo l’annuncio dell’ergastolo. Perché cinque
minuti dopo e non cinque anni o cinque mesi fa come i credenti pretendevano?
Poche righe che deludono: «Il vangelo di Cristo impone a noi discepoli una
condotta rispettosa verso i fratelli. Un sacerdote cattolico, per azioni e
omissioni, si è allontanato dall’esigenze della missione che gli era stata
affidata. Chiediamo perdono con pentimento sincero mentre pregiamo Dio nostro
Signore di illuminarci per poter compiere la missione di unità e di servizio».
Non una parola di pena per le vittime. La deviazione di Von Wermich
rimpicciolisce nella deviazione personale ed il silenzio della comunità
ecclesiale è il peccato inspiegabile che ha riunito tanti vescovi e tanti
sacerdoti, alcuni di loro prossimi al processo. E dopo la sentenza se ne
aggiungono altri. Il vescovo vicario della diocesi di san Miguel, Federico
Gogala, visitava giovani donne che stavano per partorire. Nude e incappucciate
per non riconoscerlo. Se ne andava col bambino appena nato mentre la madre
veniva assassinata. Una suora e un’infermiera stanno testimoniando. E
testimoniano le nonne di piazza di Maggio con la prova di una nipote ritrovata:
era stata data in adozione dal Movimento Familiare Cristiano vicino al vescovo
ausiliare Gocala. Comprensibile l’imbarazzo e il dolore eppure nessuna
spiegazione su «omissioni ed azioni» che tormentano il clero argentino, ma anche
sacerdoti e cattolici di tutte le americhe latine. Non hanno saputo affrontare
il passato prossimo con la chiarezza compagna di viaggio della loro missione.
Per il diritto canonico la decisione sul futuro sacerdotale dell’ex cappellano
militare è competenza del vescovo della diocesi, monsignor Martin Elizaide, 67
anni, profilo incolore nella gerarchia argentina. Facile pensare che il verdetto
risentirà degli umori della conferenza episcopale. La procedura sarà lunga,
Martin Elizaide non ha indicato quanto durerà. A Von Wermich è consentito
ricorrere al tribunale vaticano se gli sarà proibito per sempre di esercitare la
funzione ministeriale.
Passato lo choc per la condanna che ritiene falsata da falsi testimoni, Von
Wermich riprenderà a confessare, celebrare messa come ogni parroco in pace con
Dio; potrà distribuire la comunione ad altri torturatori chiusi nella stessa
prigione fino a quando la decisione del vescovo non lo impedirà. Ma glielo
proibirà per sempre o «la contrizione palese per il male commesso» potrà
risorgerlo a nuova vita restituendogli messa, comunione e confessione? Su
Ernesto Cardenal e Manuel D’Escoto, ministri nel governo sandinista, papa
Wojtyla aveva alzato l’indice del rimprovero. Hanno perso la messa per sempre.
L’altro fratello, Ferdinando Cardenal, fratello di Ernesto e gesuita, a 70 anni
ha riaffrontato il noviziato con l’umiltà di un seminarista adolescente. Ed è
tornato a celebrare dopo anni di punizione...
I delitti di Von Vernich oscurati da silenzio e complicità aprono un capitolo
finora esplorato con imbarazzo: il rapporto tra cappellani militari e dittature,
dall’America Centrale a Brasile, Cile, Argentina. Con quale spiritualità si sono
rivolti a Dio gomito a gomito con le squadre della morte? Fedeli alla loro
coscienza o ligi all’obbedienza dovuta che incatena ogni militare? Fino al
processo Von Wernich, ai cappellani militari di Argentina e Cile non era
successo niente. Si sapeva e si sa delle ambiguità a volte degenerate in
collaborazione al delitto. Sembra impossibile che i vescovi cappellani militari
e i vescovi amici dei vescovi militari non abbiano saputo niente. Possibile che
i nunzi apostolici, ambasciatori del Papa, non si siano rivolti a Roma
supplicando di intervenire? Forse i doveri diplomatici e l’amicizia personale
con gli strateghi della repressione hanno annacquato nell’ipocrisia quel dovere
che impone la fede e l’esempio del pastore. Vent’anni dopo, 1996, i vescovi
argentini finalmente si fanno vivi con un’autocritica superficiale. Nel 2000
chiedono per la prima volta perdono. In Cile il silenzio continua. Nella
cattedrale castrense di Santiago, alla messa della domenica vecchi e nuovi
militari si accostano all’altare con la devozione di Pinochet.
La storia dei rapporti chiesa-stato ha conosciuto in Argentina momenti che
imbarazzano la rilettura. Subito dopo il colpo di stato 1976, il cardinale di
Buenos Aires Carlo Aramburu invita i fedeli a collaborare col governo dei
generali «i cui membri appaiono assai bene ispirati». Gran parte dei vescovi e
il nunzio apostolico Pio Laghi (oggi cardinale) assistono alla cerimonia di
insediamento del generale Videla. Laghi è l’unico diplomatico straniero
presente. Perché? Tre mesi dopo benedice a Tucuman le truppe impegnate nella
repressione: «L’autodifesa contro chi vorrebbe far prevalere idee estranee alla
nazione... impone misure determinate. In queste circostanze si potrà rispettare
il diritto fin dove si potrà». Anche il cardinale Benelli, sostituto segretario
di stato vaticano, si dichiara «soddisfatto per l’orientamento assunto dal nuovo
governo argentino nella sua vocazione cristiana e occidentale». Paolo VI era
stanco e malato. Lo si informa in qualche modo nascondendo quasi tutto. Anche
Giovanni Paolo II viene a sapere della tragedia argentina dalle madri di piazza
di Maggio. La Chiesa di Buenos Aires imponeva il silenzio ma le madri alle quali
avevano rubato i ragazzi vengono a Roma sperando di informare il papa. Per
sopravvivere attorno al vaticano lavorano come perpetue o inservienti in collegi
religiosi e parrocchie. Ed è così che è Wojtyla e non un vescovo argentino a
pronunciar per primo la parola «desaparecido». Tardi, purtroppo: 30 mila morti.
Ieri, come oggi, in Argentina e nel continente latino (Venezuela compreso) si
delineano due Chiese lontane tra loro. Tanti preti e due vescovi fra le vittime.
Romero e dodici religiosi in Salvador. Due vescovi e religiosi assassinati in
Argentina. Il primo a morire don Carlos Mugica, fondatore del movimento dei
sacerdoti terzomondismi. Poi padre Josè Tedeschi, poi l’intera comunità dei
Pallottini: tre preti, due seminaristi. Il vescovo Enrique Angeletti viene
ucciso al ritorno da un convegno in Ecuador organizzato dai teologi della
liberazione; il vescovo Carlos Ponce muore a San Nicolas in un incidente
stradale che la polizia definisce «immaginario». Due suore francesi violentate,
torturate e uccise dal guardiamarina Astiz. Quando l’indulto del presidente
Menem impedisce libera gli assassini in diretta Tv l’ambasciatore francese
anziché complimentarsi con Astiz, nuovo capitano di vascello dalla divisa
immacolata, scandisce un giudizio che gela la cerimonia: «Non sapevo che per far
carriera nella marina argentina servissero eccellenti qualità criminali». E a
Parigi il cardinale Marty rifiuta di celebrare messa nell’ambasciata di Buenos
Aires. Due vescovi argentini - Karlic e Novak - precedono il mea culpa ufficiale
invocando perdono per il male che la chiesa «non ha impedito, sopportato e in
qualche caso aiutato». Ma il vescovo Laguna, portavoce della confederazione
episcopale, se ne era lamentato: possono parlare a titolo personale, non a nome
della chiesa. Il regime cade ma certe solidarietà non svaniscono. 24 settembre
1991: il nunzio apostolico Ubaldo Calabresi organizza un ricevimento per
festeggiare il dodicesimo anniversario dell’investitura di Giovanni Paolo II.
Fra gli invitati i generali Videla, Viola e l’ammiraglio Massera mandanti
dell’uccisione di migliaia persone, riconosciuti colpevoli in tribunale ma
perdonati e rimessi in libertà dall’indulto.
La Chiesa continua a tacere. L’altra Chiesa argentina guarda al futuro in modo
diverso. Dopo la condanna di Von Wernich la Commissione Giustizia e Pace
assistita dal vescovo Jorge Casaretto (71 anni, origini genovesi) si preoccupa
del dolore dei familiari ed esprime pietà per le vittime invitando la giustizia
a scoprire quali complicità e quanti tradimenti siano allo radice di una
tragedia impossibile da nascondere. Casaretto ha guidato la Caritas negli anni
del disastro economico: metà Argentina non sapeva cosa mangiare. Ha aperto mense
popolari, bussato alle porte che contano per raccogliere risorse. Ma Von Wernich
appartiene all’altra Chiesa. L’ergastolo illumina lo scandalo dei sacerdoti che
hanno trasformato la confessione in gadget della tortura. «Era difficile»,
sospirava il vescovo Laguna nella sua stanzetta di Morelos, qualche anno fa,
«restare fedeli alla promessa e sopravvivere nella paura». Difficile, ma non
impossibile.
Maurizio Chierici l'Unità 15.10.07