Di chi hanno paura i vescovi?

Cosa sta portando l'autorità del papa a una drammatica Caporetto?
Più di un segnale, proveniente dalle nostre chiese locali, e ora la Lettera del Santo Padre ai
vescovi della Chiesa cattolica, ce lo gridano in faccia. I vertici della gerarchia ecclesiastica
italiana e vaticana sono nel panico
. Si rendono conto di aver portato la comunità credente dei
cattolici a una situazione di tensione interna e di rottura, di cui non solo si vedono ormai le
crepe a occhio nudo, ma si sentono distintamente gli scricchiolii che preludono a un crollo.
Bisogna dare atto a papa Ratzinger, che, pur perduto nel suo isolamento di teologo speculativo,
pur responsabile istituzionale di un irrigidimento dottrinale e autoritario che ha dato il colpo mortale
alle residue speranze di dialogo intraecclesiale che teneva ancora unita la chiesa dopo il riflusso del
post-concilio, ha avuto il coraggio di emettere il grido d'allarme e di prospettare come solo rimedio
il ritorno alla «priorità che sta al di sopra di tutto: aprire agli uomini l'accesso a Dio. E non a un
qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo
nell'amore spinto fino alla fine (Gv 13,1)».
Ma perché questo richiamo abbia un senso, perché l'appello pressante a un confronto e a una
collaborazione nella Chiesa, che non sia un «mordersi e divorarsi a vicenda (Gal 5, 13-15)», non
si perda nel nulla, bisogna capire che la decisione del ritiro della scomunica dei lefebvriani,
trasformata in «scandaloso errore» dal patente negazionismo della shoah del vescovo Williamson,
non è stata che la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il bubbone, che è esploso, è segno di una
malattia che covava da tempo, che ha radici più antiche e sta nello stillicidio, trasformatosi in
fiume sempre più impetuoso, di iniziative pontificie e curiali, volte ad arginare, prima, e a spegnere,
poi, lo spirito del rinnovamento conciliare.

All'inizio si parlava di «interpretare il Concilio alla luce della tradizione», di «evitare utopistiche
fughe in avanti e pericolose avventure». Poi poco a poco si è fatta strada la «restaurazione», fino
al punto da santificarne i papi, da rivitalizzare formulette da catechismo alla Pio X, e proclami da
Sillabo contro la cultura moderna; fino al punto da veder riapparire troni papali settecenteschi,
messe in latino, altari rivolti alle pietre delle absidi invece che ai volti dei credenti; fino ad
assistere allo spettacolo di vescovi, nominati da chi rifiutava il Concilio, riammessi alla
comunione della chiesa, senza chiedere loro la minima disponibilità a rivedere le loro posizioni
dottrinali; fino a sentire di intere conferenze episcopali costrette a rifiutare la nomina di un vescovo
ultraconservatore, scelto dall'alto in trasgressione flagrante e immotivata delle stesse norme
canoniche; fino a cogliere i responsabili di dicasteri vaticani e della Cei in flagrante
tentativo di ingerenza nelle scelte legislative ed elettorali della politica italiana; fino a toccare con
mano che ogni ragionevole appello alla riforma di regole tradizionali obsolete e di normative etiche
i n t o l l e r a b i l i , v e n i v a  r e s p i n t o  s e n z a argomentazioni convincenti; fino a doversi
fingere sordi per non udire porporati dare dell'assassino» a un padre disperato, vicari episcopali
negare funerali a morti dopo decenni di sofferenti agonie, vescovi pronti a scomunicare chi aveva
collaborato all'aborto di una bambina di nove anni in pericolo di vita a seguito della violenza del
padre, dichiarare che «la scomunica di quest'ultimo non era necessaria, perché il suo delitto
riguardava lo stato ma non la Chiesa».
I vescovi hanno paura e il papa lo dice ad alta voce che nella chiesa esploda un'aperta ribellione
della periferia contro il centro, della base contro i vertici, dei laici contro il clero. Hanno ragione.

Hanno paura perché sanno bene che loro stessi sono la fonte di questo pericolo. Hanno paura della
propria solitudine, della propria incapacità di dialogo, della propria chiusura su se stessi, della
propria pochezza come pastori. Hanno paura perché fa loro paura il vangelo, fa loro paura non il
mondo dei non credenti o l'aggressività degli atei, ma la fede stessa dei credenti.
Fa loro paura
rendersi conto che la comunità di cui sono pastori non è una comunità disposta a qualsiasi
compromesso pur di stare in pace nel proprio mediocre benessere; ma è una comunità viva che
si interroga sulle esigenze della fede, vuole rendere pubblicamente conto, anche nella chiesa, della
speranza che è in lei, vuole che la sua chiesa intera sia testimone dell'amore del Cristo e del
Padre, non solo a parole ma nei fatti.
Eppure, tale paura potrebbe trasformarsi in fruttuosa e gioiosa scoperta di non essere soli, di avere
una comunità che li segue e li stimola, di essere nel mondo testimoni di Cristo, perché intimamente
animati da Lui, se solo sapessero riaprirsi al dialogo con la Parola di Dio, coi propri fedeli, con la
comunità di fratelli e sorelle, di preti, religiosi e laici che nel cammino della storia li accompagna.

Non resta che augurarsi che questo riconoscimento di «errore» del papa, questo appello al dialogo e
al confronto, in libertà, rispetto reciproco e collaborazione, non si limiti a essere un appello
strumentale all'ordine, ma sia l'inizio di una seria riflessione ecclesiale che coinvolge tutti dal
Primo all'Ultimo.

In “il foglio” - mensile di alcuni cristiani torinesi – n. 361 dell'aprile 2009