DENTRO IL CORPO DI TUTTE LE DONNE
Chi può decidere, se non la donna stessa, se sia in grado o meno di ospitare un altro dentro di sé? Imporre l’ospitalità a chi non la desidera, o a chi non si sente di offrirla, equivale a fare violenza. Chiamiamo questa violenza “occupazione” quando siamo costretti a tollerare nel nostro paese, nella nostra città, perfino nella nostra casa persone che non sono state invitate a venire ad abitare con noi. Fino a ora non avevamo immaginato una parola che designasse ciò che prova una donna che scopre di avere in sé un ospite che non ha invitato, per di più un ospite con cui deve condividere non solo uno spazio esterno, ma il proprio corpo, il proprio sangue.
La cosa è così sovrumana che ci lascia muti, senza parole, costretti a implorare l’aiuto sia della natura sia di Dio per lavarci le mani della situazione in cui si trova la donna. Pensiamo che si tratti qui dell’opera della natura o di Dio, senza fermarci a riflettere sull’opera della donna stessa. Tanto più difficile che l’ospite non è soltanto uno, ma due: è fatto da due. Nel suo corpo, la donna non ospita solo un futuro individuo con un proprio corpo e una propria anima, ma l’unione di due corpi e due anime: i suoi e quelli dell’uomo che ha concepito insieme con lei.
Se la gravidanza risulta da un atto d’amore, non c’è dubbio che il desiderio della donna sarà di perpetuare in sé l’unione amorosa. Certo, ospitare l’altro in sé durante neve mesi non è una cosa solo agevole e gradita in ogni momento. Ma per amore, per l’amore, le donne sono capaci di oltrepassare i limiti della solita umanità.
Sfortunatamente, succede troppo spesso che la gravidanza non sia il frutto di un’unione amorosa di corpi e di anime. E che l’ospite non sia la perpetuazione di un atto d’amore. In questo caso è piuttosto uno straniero che abita il corpo della donna, uno straniero che, in parte, è anche lei. Accogliere in sé stessa un simile ospite non è una cosa facile! La donna è lacerata fra sé stessa e un corpo estraneo che l’assedia dall’ interno. Non può sfuggire a questo assedio interiore di una presenza che è e non è lei stessa. E anche se il corpo prosegue il suo lavoro, l’anima non riesce ad accompagnarlo. La donna è dunque divisa fra corpo e anima, che si possono armonizzare solamente quando la gravidanza è un atto d’amore che si perpetua.
Gran parte della nostra tradizione è basata sulla separazione tra corpo e anima, Ciò spiega sia l’arroganza - compresa quella nei confronti della donna incinta – sia l’infelicità della nostra umanità. L’interpretazione più positiva della Buona novella del Cristianesimo consisterebbe nella riconciliazione fra corpo e anima. Il Cristo ne sarebbe il primo frutto se lo consideriamo come l’avvento o il ritorno del divino nella carne. Ma se ciò viene inteso come la messa a disposizione del corpo della donna per un logos maschile, allora non è una novità rispetto alla cultura precedente. In tal caso, il Cristo non testimonia una buona novella: il possibile incamminarsi dell’umanità verso il suo compimento grazie alla redenzione della carne per l’amore.
Diventa invece tutt’altro se l’avvento del Verbo fatto carne viene inteso come il superamento in Maria della scissione fra corpo e anima, unite nella carne andando oltre l’attrazione istintiva e l’arroganza mentale, grazie all’amore. Questo passo in più nello sbocciare dell’umano è stato possibile perché il Signore ha condiviso con Maria un soffio divino, prima di metterla incinta “naturalmente”. Questo ci insegna l’evento dell’Annunciazione in cui l’angelo del Signore chiede a Maria se vuole essere la madre del Salvatore del mondo.
Tutto questo sembra un pò magico ed esigere da noi una fede cieca, a meno che cerchiamo di sentire che cosa succede quando una donna è incinta, e come un semplice processo naturale può giungere a una dimensione spirituale, che consente all’umanità di accedere a un ulteriore livello del suo compimento.
Sfortunatamente, si dimentica troppo spesso che Maria, grazie all’unione fra natura umana e natura divina nella sua carne, è il luogo fondatore del Cristianesimo. Maria si è trovata incinta non solo a causa di sperma umano, ma per un respiro divino che lei ha ricevuto e accettato di condividere per il tramite dell’angelo del Signore, che ne simbolizza il soffio. Sembra ovvio, per i cristiani che devono tentare di imitare Gesù; eppure il più delle volte dimenticano come il suo avvento è stato possibile e che cosa significa. Da anni anche in occasione del Natale, non sento allusioni a Maria nelle prediche. E le stesse donne ormai pretendono di imitare Gesù invece di divinizzare la propria natura femminile. Ma chi insegna loro in modo positivo e non privativo, che esse sono il luogo dove è nato, e può rinascere, il Cristianesimo? Quale uomo si cura di perpetuare un simile avvento magari dando alla donna che ama il proprio angelo – cioè un supplemento di respiro o di anima - per chiederle se vuole concepire un figlio, in modo non solo naturale ma divino?
L’accento posto sull’aborto naturale non risulterebbe da una cecità rispetto a un aborto spirituale all’opera nella storia del Cristianesimo? Per mancanza di attenzione e fedeltà all’unione del corpo e dell’anima che può compiere l’amore? La morale non c’entra granché, in questo mistero. La sua preminenza avviene per la nostra incapacità ad amare. Certo un diritto civile positivo deve tutelare la possibilità per la donna di assumere in modo responsabile la sua identità di donna. Il resto è un affare d’amore per cui difettiamo tuttora di un insegnamento adeguato, sia laico sia religioso.
E se rileggo i Vangeli portatori della “Buona novella”, è dell’amore che sento parlare e non di morale, un amore che passa anche attraverso i corpi, che si toccano e diventano così capaci di compiere miracoli. La condanna morale la trovo veramente di rado, salvo che nei confronti dei farisei, degli ipocriti e egoisti, dei ladri e mentitori, di quelli che gettano sassi alla donna che avrebbe peccato, senza considerare le proprie colpe né la capacità d’amore della donna. Una donna per cui, è vero, l’amore troppo spesso rimane una follia incapace di calcolare e sprovvista di sapienza. Lo ribadisco: ci manca ancora una cultura dell’amore e del desiderio all’altezza della nostra situaLuce Irigaray La Repubblica del 29.11.05