Democrazia tra guelfi e ghibellini
Il
concetto di «laico» sta diventando sospetto e irritante. Tra un po’ sarà
dichiarato obsoleto. Il «dialogo tra laici e cattolici» è già una finzione per
spartirsi tempo e spazio nell’esposizione pubblica delle proprie idee. Intanto
si moltiplicano i cattolici zittiti dalla grande strategia comunicativa della
gerarchia ecclesiastica. È una strategia che trova sostegno non solo nelle
vocalissime minoranze militanti, ma raccoglie crescente consenso presso
intellettuali e commentatori di organi di stampa che un tempo si dichiaravano
laici.
Di fronte a questa situazione, occorre riflettere radicalmente perché non si
tratta più della «questione cattolica» tradizionale, ma della questione della
democrazia italiana oggi.
Una decina di anni fa (quando non c’erano né teo-dem né teo-con) già si intuiva
che la discriminante più importante in Italia stava diventando quella tra laici
e cattolici e che la Chiesa stava assumendo il ruolo di supplenza di religione
civile che avrebbe alterato i rapporti convenzionali tra società civile e
politica. I fatti hanno confermato questa intuizione. Adesso occorre andare a
fondo. Ma più che ragionare con le categorie grosse e globali di Stato e Chiesa,
è bene spostare l’asse dell’analisi prendendo sul serio i principi della
democrazia e della cittadinanza costituzionale.
In democrazia la discriminante fondamentale tra i cittadini non è tra chi crede
e chi non crede, ma tra chi riconosce e garantisce la legittima pluralità delle
visioni e degli stili morali di vita (come recita in linguaggio diverso l’art. 3
della Costituzione) e chi viceversa si sente investito della missione di
orientare in modo autoritativo l’ethos pubblico, dichiarando come «non
negoziabili» i propri valori - senza assumersi la responsabilità delle
conseguenze che derivano alla qualità e funzionalità del sistema democratico. Il
primo atteggiamento (quello che afferma positivamente il pluralismo) è laico, il
secondo non lo è.
In democrazia «non negoziabile» è la pluralità dei valori, pubblicamente
argomentata, non l’esigenza di imporre i propri valori (per altro
soggettivamente legittimi). E laica è proprio la disponibilità a far funzionare
in modo solidale le regole della convivenza, partendo dal presupposto che la
molteplicità delle «visioni della vita», delle «concezioni del bene» o della
«natura umana» non è una disgrazia pubblica (il famigerato «relativismo») cui
non ci si deve rassegnare, ma l’essenza stessa della vita democratica.
La laicità insomma è un criterio e un valore pubblico, prima ancora che un
atteggiamento privato, anche se si costruisce sulle virtù personali della
tolleranza e della disponibilità al confronto di tutti i convincimenti.
La laicità italiana per decenni è stata una componente interna di costruzioni
ideali-ideologiche di matrice liberale e/o socialista che avevano altrove il
loro baricentro filosofico e politico. Dissolte queste sintesi, il pensiero
laico deve oggi costruire da solo, senza pre-supposti ideologici, la sua linea
di interpretazione e la sua linea d’azione. Senza volerlo, diventa il nuovo
fondamento della democrazia.
Naturalmente le difficoltà che la laicità incontra oggi in Italia non dipendono
semplicisticamente dalla determinazione con cui la gerarchia ecclesiastica
sfrutta la congiuntura politica, la fragilità culturale e la ricattabilità della
classe politica. Le difficoltà nascono oggettivamente dalle incertezze e dalle
difficoltà di comportamento di milioni di donne e di uomini presi tra il bisogno
di avere sicure indicazioni di orientamento morale e il desiderio di mantenere
la propria autonomia. La gravità obiettiva delle questioni sul tappeto che
investono l’idea delle unioni familiari, la problematica dell’aborto,
l’espansione delle biotecnologie, in generale la problematica della «natura
umana» sembra aver colto in contropiede il pensiero filosofico e scientifico più
riflessivo.
Da qui il farsi avanti della Chiesa che non esita a mettere in scena
pubblicamente la pretesa della sua verità. Contro di essa c’è soltanto la
fragile ostinata esperienza di donne e di uomini che intendono seguire
sommessamente le indicazioni della loro coscienza. Il loro unico punto di
riferimento e di difesa è il principio costituzionale del pluralismo.
Conosco il sospetto e la supponenza morale di molti (non solo clericali) che in
questo atteggiamento vedono soltanto libertinismo. E quindi considerano la
Chiesa l’unica ancora di salvezza contro il nichilismo. Sbagliano. Ma non mi
permetto di dare giudizi morali. Ciò che mi preme dire - senza evocare le
antiche diatribe da Machiavelli a Croce o le ricorrenti tentazioni «neo-guelfe»
nel nostro Paese - è che è semplicemente in gioco la nostra fragile e preziosa
democrazia.
Sono sicuro che i molti cattolici della «Chiesa zittita» sono d’accordo.
GIAN ENRICO RUSCONI La Stampa 13/2/08