Dalla parte sbagliata


Tutta la polemica si riassume in una formula: “Dalla parte sbagliata”. Una parte, quella fascista
repubblichina, per la quale è difficile rivendicare globalmente un onore che non fu coltivato e che
può essere soltanto richiamato in casi individuali ai quali attribuire rispetto, ma nulla più. I “ragazzi
di Salò” scoprirono tardi, fra l’altro, una vocazione alla difesa della patria (i primi reparti videro la
luce agli inizi di ottobre del 1943), che invece istintivamente era stata scelta da quei soldati e civili
che, a Roma, a Cefalonia e altrove, erano scesi sulle barricate il 9 settembre, cioè il giorno
successivo alla proclamazione dell’armistizio, a contrastare l’invasione tedesca, pagando un primo,
pesante tributo di sangue.
Nessun fascista si è messo invece ufficialmente in circolazione sino alla fine del mese, se non per
fuggire sotto le ali protettrici degli occupanti.
Che avevano ben iniziato la loro campagna di intimidazione uccidendo appunto il 9 settembre, in
Terra di Lavoro, una bambina di cinque anni – probabilmente la prima vittima dei tedeschi –,
Autilia Robustelli. E che avevano proseguito qui e là con esecuzioni, spesso immotivate o causate
da autentici tentativi di rapina ai danni della popolazione, e con le stragi, al sud, di Bosco Matese,
Caiazzo, Matera, Candela, sempre in settembre, in contemporanea con le feroci esecuzioni di Boves
in Piemonte e di Roccaraso in Abruzzo.
Quelle iniziali fra le circa settecento che hanno insanguinato il nostro paese; e a molte delle quali
hanno preso parte, duole rammentarlo, elementi del fascismo repubblichino italiano. In un ruolo di
protagonisti di efferate vicende di torture, come quelle perpetrate dalle “bande” – chiamate “corpi
speciali” – di Mario Carità, prima a Firenze poi a Milano, di Bardi- Pollastrini- Franquinet de Saint-
Rèmy a Roma, di Pietro Koch prima a Roma poi a Milano, di Vito Spiotta a Genova con la Brigata
Nera “Parodi”, di Mario Finizio a Milano, Francesco Colombo e Ampelio Spadoni sempre a Milano
con la Legione “Ettore Muti”. A capo, tutti, di una accolita di fanatici, se non di psicopatici (lo
erano Koch e Colombo), come hanno dimostrato i processi svoltisi contro alcuni di loro nel
dopoguerra.
Non tocca a un ministro della Repubblica in quanto tale di ricordare con accenti di nostalgia la triste
realtà dei rastrellatori di partigiani: funzione cui in generale erano relegati i membri delle varie
milizie fasciste, complici ed esecutori spesso del “lavoro sporco” che le “SS” e la Wehrmacht non
avevano tempo di portare a compimento. Esiste del resto una cospicua letteratura che
consiglieremmo di leggere agli incauti laudatores dei combattenti di Salò (per esempio L’ombra
nera di Gianni Oliva e L’ombra della guerra di Guido Crainz). Magari dimenticando – come ha
invece giustamente ricordato il capo dello stato Giorgio Napolitano nel suo discorso di Roma a
Porta San Paolo – i seicentomila militari deportati che marcirono nei campi di detenzione del Reich
per non aver voluto mancare al loro impegno di soldati.
Per loro il regime collaborazionista di Mussolini non fece niente, neppure quando – a disprezzo
delle leggi internazionali di guerra e della convenzione di Ginevra – furono ridotti a uno “status” di
“non prigionieri” di guerra dettato personalmente da Hitler. Con buona pace della leggenda che il
duce fosse ascoltato dal dittatore nazista.
È difficile dire a quale principio di etica politica voglia riferirsi il ministro. Al quale sarà opportuno
ricordare che, per esempio, la Chiesa si è sempre rifiutata di riconoscere la Repubblica Sociale,
ripagata in questo con oltre duecentosessanta sacerdoti e religiosi uccisi non soltanto dai tedeschi
ma anche dai loro complici italiani. E vorremmo aggiungere che fra i caduti della Resistenza ce ne
sono alcuni per i quali è in corso il processo di beatificazione: Giovanni Palatucci, il valoroso
questore di Triste che salvò migliaia di ebrei (suo è un albero nel Giardino dei giusti di
Gerusalemme); Teresio Olivelli, l’autore di quella “Preghiera del ribelle” che è il simbolo dei
partigiani cattolici; Alberto Martelli, che subì persecuzioni anche da ragazzo per non aver mai
voluto rinunciare al distintivo dell’Azione Cattolica; Giorgio La Pira, che in pieno fascismo, con la
rivista Principii, difese le ragioni della pace attirandosi le ire e le minacce del settimanale fascista di
Firenze Il Bargello.
Non abbiamo notizia di simili testimoni in campo repubblichino. Possiamo invece rammentare la
malinconia con la quale i “ragazzi di Salò” (non tutti, ripetiamo, autori di delitti efferati, ma tutti
“dalla parte sbagliata”) cantavano una delle loro canzoni preferite: «Le donne non ci vogliono più
bene/ perché portiamo la camicia nera».
Supremo insulto al maschilismo fascista, del quale ogni tanto si fanno portavoce i frequentatori di
discoteche.

Angelo Paoluzi      in “Europa” del 10 settembre 2008