Dai linciaggi alla
Casa Bianca. La lunga corsa dei neri Usa
Mancavano Denise, Addie Mae, Cynthia e Carole alla festa per la vittoria di
Obama nelle strade di
Birmingham, in Alabama. Ma in tutti gli occhi lucidi di pianto c'erano
certamente loro, le quattro
bambine assassinate dalla bomba piazzata nella chiesa battista da un fanatico
del Ku Klux Klan
noto come «Dynamite Bob». Era il 15 settembre 1963, Barack aveva appena due
anni. E mai
avrebbe potuto immaginare che un giorno, nella trionfale cavalcata verso la Casa
Bianca, avrebbe
vinto perfino lì, nella contea al centro d'uno degli stati più razzisti
d'America.
Per capire quanto la vittoria di Obama sia epocale occorre partire da lì. Da
quella strage alla quale il
grande John Coltrane dedicò la celeberrima «Alabama ». E da quei terribili anni
del secondo
dopoguerra che videro la violentissima estrema resistenza dei bianchi razzisti
contro l'abrogazione
delle leggi segregazioniste.
È una storia lunga, quella dei neri americani. Di dolore. Basti rileggere le
lettere raccolte nel libro
«The Aristocratic Journey » della soave scrittrice Basil Hall: «Oggi sono andata
a vedere un'asta di
schiavi (...). C'erano moltissimi bambini, piccole cose incoscienti, che
dormivano nelle braccia delle
loro madri o sorridevano o ridevano allegramente, certo inconsapevoli della loro
degradazione.
Sono state vendute intere famiglie, cosa, almeno questa, piacevole da vedere, ma
comunque tutto
ciò era una vista orribile. Vicino si stavano svolgendo aste di cavalli e di
carri, così vicino che era
difficile distinguere se l'ultima offerta era per il quadrupede o per l'animale
umano».
Charles Dickens racconta il suo orrore davanti agli annunci pubblicati «a
mucchi» sui giornali dai
padroni di schiavi scappati, dove si segnalavano le mutilazioni inferte per
renderli riconoscibili:
«Fuggitiva, nera, Betsy. Ha una barra d'acciaio sulla gamba destra». «Fuggitivo,
negro, Manuel. Ha
molti marchi col ferro rovente». «Fuggitivo, ragazzo negro di circa 12 anni.
Attorno al collo ha un
collare per cani con inciso "De Lampert"». «Cinquanta dollari di ricompensa per
il negro Jim Blake.
Ha un pezzo d'orecchio tagliato a tutti e due gli orecchi, e il dito medio della
mano sinistra tagliato
alla seconda falange ». «Fuggitiva, una donna negra e due bambini. Alcuni giorni
prima della sua
fuga, con un ferro rovente le ho bruciato la guancia sinistra. Cercavo di
scrivere la lettera M».
Quanti siano stati gli uomini, le donne e i bambini strappati all'Africa e
deportati nelle Americhe
non si sa. Pare tra i tra i 12 e i 15 milioni. Né si sa quanti fossero stati
caricati sulle navi negriere,
stivati uno sull'altro per guadagnare spazio: due su cinque, stando agli studi
di Steven Hahn,
dell'Università di Pennsylvania, morivano in viaggio. Quel che si sa è che il
tasso di natalità
dell'Africa subsahariana crollò allo 0,2% «con una perdita netta di 17 milioni
di persone ».
Come è certo che le bestiali condizioni di vita degli schiavi
negli Usa non cambiarono molto neppure dopo
l'abolizione ufficiale della schiavitù, firmata il 1° gennaio 1863 da Abraham
Lincoln.
Come la pensassero allora gli americani anglosassoni, al di là delle agiografie
e degli schemini
storici ricostruiti a uso e consumo dei vincitori, lo dice lo stesso Lincoln in
un'intervista al New
York Times del 1862: «Il mio obiettivo essenziale in questa battaglia è di
salvare l'Unione... Se
potessi salvarla senza liberare un solo schiavo, lo farei ». Pochi anni prima,
era stato ancora più
duro: «Esiste un naturale disgusto da parte di quasi tutti i bianchi all'idea
d'una mescolanza
indiscriminata della razza bianca e di quella negra». Peggio: «Per me, la
separazione delle razze
costituisce l'unico sistema per evitarne la mescolanza». E restò infatti, la
separazione. Al punto che
un nero che avesse rapporti con una bianca veniva processato per «miscegenation»,
mescolanza
razziale. Un reato che solo una manciata di anni prima sarebbe stato pagato
carissimo dal padre di
Obama. Non solo in tribunale. Tutta la storia del Paese che martedì ha scelto un
uomo di colore è
stata infatti segnata da poco meno di 4 mila linciaggi di neri documentati tra
il 1882 e il 1968.
Erano così «normali», quei linciaggi, che i padri ci portavano i figlioletti e i
ragazzi le fidanzate e le
foto di decine di esecuzioni diventarono cartoline da spedire. E l'orrore era
così accettato che non
solo il Ku Klux Klan si permise nel 1920 di organizzare una manifestazione
razzista a Washington,
nel cuore di quel distretto di Colombia che ha visto Barack umiliare
l'avversario, ma l'omertà dei
«bravi concittadini» consentì agli assassini di scorazzare impuniti per alcuni
stati del Sud fino agli
anni Sessanta.
Un esempio, straziante, è il ricordo di Maceo Snipes, un giovanotto che nel
luglio 1946, tornato
dalla guerra nella quale aveva combattuto con la divisa americana, decise di
essere il primo nero a
votare a Taylor, in Georgia, alle primarie del partito democratico. Il giorno
dopo era morto. Quattro
pallottole. Sulle quali lo sceriffo non ritenne neppure opportuno aprire
un'inchiesta. Come nessuno,
per molto tempo, cercò davvero di scoprire gli assassini di James Chaney, Andrew
Goodman e
Michael Schwerner, i tre attivisti dei diritti civili ammazzati nel 1964 e
ricordati dal regista Alan
Parker nel film «Mississippi Burning».
C'era John F. Kennedy alla Casa Bianca quando nel giugno 1963 George Wallace si
piazzava
ancora, lui, personalmente, governatore dell'Alabama, davanti all'università per
impedire l'ingresso
dei primi studenti neri, protetti dalle truppe federali e dall'Fbi. I giovani di
tutto il mondo già
impazzivano per i Beatles e lui ancora urlava: «Segregazione oggi, segregazione
domani,
segregazione per sempre ».
Questa era l'America, fino a pochi decenni fa. Un Paese dove un bambino nero di
12 anni, Emmett
Till, poteva essere assassinato e mutilato nel Mississippi solo perché aveva
fischiettato al passaggio
di una donna bianca. Dove Elizabeth Eckford, una timida ragazza nera di Little
Rock,
nell'Arkansas, veniva cacciata a sputi e spintoni dalla Central High School
nonostante la Corte
Suprema avesse stabilito che non dovevano più esistere scuole separate e poteva
tornare in classe
con nove compagni solo grazie alla scorta dei soldati e dopo una polemica così
violenta che il
mitico Louis Armstrong era arrivato a bollare l'ambiguo presidente Eisenhower
come «un bastardo
incapace». Dove la formidabile Rosa Parks, per essersi rifiutata di cedere il
posto a un bianco su un
autobus, veniva portata via in manette.
Spiegò tanti anni dopo, con parole che sarebbero piaciute al prossimo presidente
americano: «La
gente racconta che io non mollai il mio posto perché ero stanca, ma non è vero.
Non ero stanca, non
fisicamente almeno. L'unica cosa di cui ero stanca era di arrendermi».
Gian Antonio Stella Corriere della Sera 6
novembre 2008