Il cuore epico
dell'esistenza
Capita di chiederci che cosa ci facciamo al mondo, così spesso devastato dalla
forza, dalla potenza,
dal dominio. Sia che siamo troppo deboli e non sappiamo più dove metterci, dove
rifugiarci. Sia che
siamo troppo forti, come liberati improvvisamente dalla vana necessità di
combattere. Ma la
domanda è così radicale e inquieta che non possiamo porcela se non quando
abbiamo un abbozzo di
risposta, o almeno di un minimo di riposo nell'inquietudine. Questo ci viene
regalato in quelle
occasioni troppo rare in cui un istante di umanità si insinua nella brutalità
universale.
Si potrebbero cercare degli esempi eccezionali, ma mi sembra invece essenziale
sentire ciò che c'è
di epico nelle cose ordinarie. Mi è successo proprio ieri in metropolitana. Sono
saliti due uomini,
non più molto giovani, non proprio ben vestiti, ma puliti. Uno aveva una specie
di banjo, l'altro un
flauto delle Ande. Dopo aver salutato come da dietro le quinte, hanno iniziato a
cantare la loro gioia
e il loro dolore nella loro lingua. Molto tempo dopo che se ne erano andati, mi
chiedevo ancora
perché fossi stato commosso fino alle lacrime. In quel metrò eravamo stati in
molti a provare quel
sentimento, forse per la musica, ed è sempre commovente vedere l'emozione degli
altri.
Ma ciò che mi commuoveva era il pensare a tutti coloro che ogni giorno si
esibiscono chiedendo
l'elemosina, ognuno con la propria voce, unica, la propria espressione, le
pieghe del corpo e del
vestito che non potrebbero essere diverse. Vedevo in loro dei supplicanti della
vita. E pensavo a
Priamo venuto con la dignità di un vecchio re a supplicare Achille di rendergli
il corpo del figlio
Ettore. E pensavo ad Achille, così impietosamente duro un istante prima, così
posseduto dall'odio e
dal furore da non voler smettere di girare attorno a Troia con il cadavere del
nemico dietro al carro,
che si precipita per sollevare il vecchio, dargli da bere e da mangiare, far
lavare e ungere il corpo
del figlio per restituirglielo. Lo stesso Achille che, nell'Odissea, incontrando
Ulisse nel mondo degli
scomparsi, gli confessa che in fondo avrebbe preferito essere un modesto
servitore paziente che un
grande eroe portatore di morte, e morto.
E penso al testo di Simone Weil che commenta “l'Iliade, o il poema della Forza”,
che descrive
come la forza, la potenza, la fortuna, si impossessino volta a volta di ciascuno
dei protagonisti
prima di abbandonarli. Osserva come ordinariamente il mondo sia guidato da
questa legge terribile
che fa sì che “si sia sempre barbari con i deboli”. Nota ancora che, per
rispettare ed ammirare il
desiderio di vivere degli altri, non solo quando ci battiamo per sopravvivere,
ma ancor più quando
noi stessi abbiamo perso ogni aspirazione a vivere, ci vuole uno sforzo di
generosità da spezzare il
cuore.
Eppure, ci sono dei momenti miracolosi in cui si sfugge alla legge della forza.
Sono momenti brevi
e divini in cui gli uomini hanno un'anima, una capacità improvvisa di amicizia
per la vittima, di
amarezza per la sofferenza, di rispetto per il nemico perfino. Simone Weil fa un
sorprendente
parallelo: “Il Vangelo è l'ultima e meravigliosa espressione del genio greco,
come L'Iliade è la
prima”. E conclude: gli uomini “ritroveranno forse il genio epico quando
sapranno credere che
nulla è al riparo dalla sorte, quindi arriveranno a non ammirare mai la forza, a
non odiare i nemici
e a non disprezzare gli sventurati”.
È proprio questo che ci fanno sentire coloro che implorano la nostra compassione
con la dignità del
loro lamento. Ma anche coloro che ci ricordano la meraviglia di esistere con la
semplice gioia del
loro canto. Ci ricordano la vulnerabilità della nostra condizione, la fragilità
della vita, la tenerezza
per ciò che è veramente importante. Fanno battere in noi il cuore epico
dell'umanità.
Olivier Abel in “La Croix” del 1° aprile 2009, periodico cristiano francese