Cronache italiane
Forse sarebbero bastati un paio di lampioni su quella
strada, per evitare a Giovanna Reggiani il buio e l'orrore in cui è stata
trascinata. Non sarebbero stati necessari decreti d'urgenza e leggi speciali che
trasformano un delitto individuale nell'annuncio di un repulisti di massa. E non
serviranno a salvare altre future vittime.
Di certo sarebbe bastata una maggiore attenzione alla vita quotidiana delle
periferie per cercare una soluzione al violento degrado in cui giacciono
migliaia di persone. Non serve inseguire la destra sul terreno che le è più
naturale e vincente. Non servirà a cacciare le paure metropolitane e nemmeno -
più in piccolo - a conquistare consensi elettorali. Servirebbe più Zavattini di
«Miracolo a Milano» che Veltroni del cinema in festa.
Spesso la cronaca illumina più di qualunque analisi sociologica. E ci rimanda
una società in cui la violenza è diventata la principale risposta che gli
individui danno alla asperità quotidiane; in cui l'uso della forza definisce i
rapporti tra le persone come tra i gruppi (anche quando si chiamano «nazioni»)
e, in quanto forza, fissa la gerarchia del potere tra i sessi, cui si aggrappa
il maschile per rispondere alla propria crisi di egemonia, come una superpotenza
un po' traballante usa la guerra per convincersi di essere ancora in sella.
Quella cronaca poi ci parla di un'altra crisi, di una politica ormai incapace di
sottrarsi alla dittatura della paura umorale, per dare solo risposte che cercano
di rassicurare senza cambiare, oppure di spaventare senza risolvere. Cogliendo
semplicemente l'attimo, come nel delirio su possibili frotte di tifosi
capitolini pronti a uscire da uno stadio per dar vita a un pogrom di massa. E,
allora meglio (pensa Amato) che il pogrom lo faccia lo stato, con la sua
organizzata e legale autorità. Oppure che si accentui la «prevenzione
repressiva» (dice Fini) cacciandoli tutti, quei derelitti potenzialmente
criminali. E ci mostra - quella cronaca - un giornalismo guerriero, incapace di
riflettere o semplicemente di distinguere e raccontare i fatti, che getta tutto
in uno stesso calderone e confonde: tanto tra un campo sosta e una baraccopoli
che differenza fa? tanto tra un rom e un rumeno, tra quest'ultimo e tutta la
Romania, c'è persino assonanza lessicale.
Forse per battere la forza delle violenze quotidiane, per sottrarsi alla paura
degli umori profondi, per battere l'insicurezza che da materiale diventa
esistenziale, bisogna distinguere sempre di più, segnalare e segnare le
differenze. Tra i sessi, tra le classi, tra gli stessi individui, trasformando
la debolezza di oggi in una mite forza di domani, basata su convinzioni e
bisogni, non sui muscoli: mutuo soccorso, non più «compattezza militare». Perché
se il terreno del potere non può essere che quello andato in scena tra martedì e
mercoledì scorsi (su una strada e in una sede di governo), allora è meglio
ripudiarlo e cercare altrove un'altra relazione comune. Vale per chi vive in una
baraccopoli, come per chi siede in un parlamento.
Gabriele Polo Il manifesto 2/11/07