Cronache da un Paese
virile
La prima sezione civile della Cassazione ha dipinto con rara efficacia il
ritratto di una nazione maschia, ariana e incazzata. Se qualche vu’
compra senza i bolli in regola sul suo certificato di soggiorno spera di
farla franca iscrivendo i suoi figli in una scuola italiana, sappia che lo
rimpatrieremo lo stesso, Africa, Americhe... rauss! Dice la sentenza, senza
nemmeno girarci attorno, che il diritto di quei bambini a non sentirsi
discriminati e a poter frequentare le scuole d’Italia come chiunque altro deve
cedere il passo di fronte alla furbata dei genitori, che hanno strumentalizzato
i figli per farla franca. Quale sarà il prossimo passo: una stella gialla sul
bavero della giacca? Un quartiere murato, con fili spinato sui merli, dove
rinchiudere gli africani e gli impuri? Ronde nelle scuole elementari per
risalire dai figli ai padri nella catena umana dell’infamia?
Un
Paese virile, forte con i deboli, plebeo con i potenti, umile con i forti.
Si esalta il gesto maschio di un ministro che solleva di peso il cronista
rompicoglioni per condurlo fuori dalla sala stampa e intanto si mette per
iscritto su una sentenza della più alta corte che non c’è spazio per
sentimenti o debolezze (che so: il rispetto, l’umana solidarietà, la
tolleranza...), e dunque peggio per quei bambini che hanno scelto di venire al
mondo in Marocco invece che a Gela, peggio per loro che si sono scelti per
genitori una coppia di clandestini, sans papier e senza diritti, invece
di una solida famiglia camorrista dell’agro campano, peggio per loro che
volevano studiare come gli altri, nelle scuole di tutti gli altri, e adesso
invece se ne torneranno a casa loro.
Il nostro Paese si sta affezionando alle proprie pulsioni oscure. Siamo
gli unici d’Europa a non aver recepito la direttiva che impone sanzioni penali
agli imprenditori che sfruttano in nero gli extracomunitari. In quella legge
europea c’è scritto che a un irregolare che denuncia il “caporale” che lo
sfrutta e che rischia la pelle per rivendicare i propri diritti va concesso un
permesso di soggiorno temporaneo. Noi invece, che quella norma non abbiamo
gradito, continueremo a buttarli fuori e a punirli due volte: da sfruttati, alla
catena del camorrista di turno, e da reietti, imbarcati sul primo aereo per
tornare nel loro mondo senza nemmeno il diritto a ottenere il salario che è
stato loro rapinato. Adesso questa sentenza compie un’opera di verità: non li
vogliamo, non ci piacciano nemmeno quando ci aiutano a sbarazzarci dei mafiosi,
non ci interessano i loro diritti né quelli dei loro figli!
Ora, di
fronte all’enormità del principio giuridico affermato in quella sentenza, ci
sarebbe e ci sarà molto da scrivere. Ma prima di queste scritture alte e
dotte, ci siamo noi, lo sguardo d’abitudine con cui ci lasciamo scivolare
addosso con uno sbadiglio ogni infamia, ogni bestemmia, ogni miseria.
Contenti di cacciare da Rosarno gli immigrati presi a fucilati dai camorristi,
felici di tenerci invece gli amici di quei camorristi in Parlamento, disposti a
credere che per ogni extracomunitario cacciato via ci sia un posto di lavoro in
più per i nostri disoccupati. Su certe questioni ragioniamo e sorridiamo ormai
come un popolo di tronisti. Bisognerebbe fare invece come fece il re di
Danimarca, quando i nazisti occuparono il suo staterello, lo lasciarono
graziosamente sul trono ma gli spiegarono che adesso la musica l’avrebbero
suonata loro. E gli dissero, al re e ai suoi ministri, che i giudei del loro
Paese avrebbero dovuto cucirsi al petto, come accadeva in tutte le altre nazioni
occupate dall’esercito del Reich, una bella stella di Davide affinché fossero
riconoscibili sempre, comunque, da chiunque. Il re della Danimarca, che la sua
guerra l’aveva persa e regnava su un paese vinto e occupato, non potè
rifiutarsi di ricevere l’ordine. Ma nessuno riuscì a impedirgli, dal giorno
dopo, di cucirsela anche lui al petto quella stella. E quando i nazisti lo
videro attraversare le strade di Copenaghen, segnato anche lui negli abiti come
i suoi sudditi ebrei, capirono che non sarebbero riusciti a piegare quello
staterello. E infatti non ci riuscirono.
Lo racconta Hannah Arendt ne La banalità del male. Ed è a questa
banalità che ci stiamo lentamente abituando, come se le piccole e miserabili
cose che produce questo governo (e che impregnano ormai anche la cultura
giuridica e il senso comune del paese) fossero solo storie alla deriva, brevi di
cronaca, affari degli altri. Sono affari nostri, memorie nostre, passioni e
dolori nostri. Speriamo che oggi a Piazza del Popolo qualcuno si
ricordi di parlare agli italiani, non solo a Berlusconi.
Claudio Fava l’Unità 13.3.10
Quando una sentenza sacrifica il bene e la tutela dei
minori
La sentenza della Cassazione n. 5856, ha già suscitato molti commenti. Alle
tante giuste considerazioni fatte da più parti sul significato regressivo di
quella pronuncia, vale la pena aggiungerne altre due. La prima è suggerita
dalle parole di Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato per i
rifugiati: «L’interesse del minore dovrebbe prevalere, e un irregolare non è
necessariamente una minaccia alla sicurezza». Ovvero, rispetto a un pericolo
certo e attuale (il danno inflitto al minore), quello incerto e potenziale (i
possibili effetti negativi della irregolarità) passa indubitabilmente in
secondo piano. Ma c’è un’altra considerazione da fare: i giudici della
Cassazione sembrano volersi liberare di un fardello troppo oneroso. Una loro
affermazione è, in tal senso, assai significativa (il principio della tutela
dei minori non può prevalere su quello della sicurezza) perché dichiara
anticipatamente, e irreparabilmente, la sconfitta del diritto alla prova dei
fatti. In altre parole, tutta la scena pubblica contemporanea è attraversata da
conflitti tra diritti ugualmente degni di tutela e di protezione giuridica: e
compito dell’operatore della giustizia è quello di lavorare, con tutta
l’inevitabile fatica, per trovare una mediazione tra due esigenze che appaiono
inconciliabili (ad esempio tra diritto alla vita e possibilità di ricorrere
all’aborto). Rifiutare di farlo, in questo caso, significa assumere come
dominante quel presunto interesse collettivo alla sicurezza che il senso comune,
spesso manipolato, indica come bene supremo. È una manifestazione prima
di tutto di incultura. Tanto più quando a venire sacrificato è un bene
pubblico come quello della tutela dei minori.
l’Unità 13.3.10