Il crocifisso, il
suo potere unisce destra e sinistra
Finalmente qualcosa su cui il nostro paese, sempre diviso,è d’accordo. Il
crocifisso. Questo ci
rassicura perché vuol dire che, almeno in un campo, destra e sinistra non
discutono. Sotto la croce,
lì, la tradizione non può essere messa in discussione. Sono quei principi solidi
del nostro paese su
cui tutti ci uniamo. Il calcio, la pasta, le belle donne. E il crocifisso.
Del resto nel nostro paese ci
saranno solo qualche decina di milioni di croci sparse in duomi, cattedrali,
chiese, chiesette,
cappelle, santuari, dipinti, immagini, sculture, cartoline, catenine appese al
collo. Nei sogni, anche
nei sogni, credo, a noi italiani ci appaiono queste croci. E quindi non
leviamole per favore dalle
scuole, uffici, prigioni, ospedali. Non vorremmo mai correre il rischio
che ce le dimentichiamo.
Non vorremmo mai correre il rischio che ci dimentichiamo di essere un
paese a matrice cattolica. E
poi a questo dobbiamo aggiungere le migliaia di ore a cui siamo obbligati a
sottostare come
spettatori della televisione, di stato e privata, all’ascolto del bollettino
cattolico. Gli uomini più
liberati e di sinistra parlano sì di stato laico, ma per favore non toccate le
ore imposte dalla chiesa
alla comunicazione televisiva. E soprattutto non toglieteci il crocifisso.
Quell’oggetto che ci ricorda
il peso di quella colpa che ci portiamo dietro dal tempo in cui siamo nati. La
colpa di aver peccato,
di aver tradito Dio, la famiglia, la sessualità del vero maschio; l’esserci
lasciati traviare dai desideri
più animali. Quel crocifisso sotto il quale se ti penti potrai continuare
anche a ripeccare e a
ripentirti, e a ripeccare e ripentirti dieci, cento, mille volte.
Abbiamo visto i corruttori, gli assassini dello stato,
uccidere persone nei campi di detenzione per
stranieri, nelle prigioni, nei manicomi, sotto quelle tristi croci. Abbiamo
visto i più grandi capi della
camorra, della mafia, colpevoli di crimini atroci, nei loro covi con i
crocifissi al collo. «Dio, non
permetterò che tu muoia dentro di me», diceva Etty Hillesum, un’ebrea morta nel
campo di
concentramento di Auschwitz, poco prima di entrare nella camera a gas. Tra le
ultime parole dette
dal Cristo appeso a quella croce ci sono, se non ricordo male, queste: «Dio mio,
Dio mio, perché mi
hai abbandonato».
Quell’accanimento fanatico a conservare quell’oggetto simbolo, sembra
dettato piuttosto dalla
paura di perdere un potere, un dominio (che obbliga la gente a tenere la testa
bassa sotto quella
croce), che da un vero desiderio di spiritualità e fede. Non sarebbe
forse meglio, al posto dei
crocifissi scrivere sui muri, citando altre parole del Cristo, «Ama il prossimo
tuo come te stesso»?
In quei luoghi dove ora si dovrebbero togliere i crocifissi queste parole
sarebbero utili ad indicarci
un cammino dimenticato. Così potremmo cogliere l’occasione della sentenza di
Strasburgo per
iniziare a riflettere sul problema culturale del nostro paese inchiodato
all’immagine, all’apparenza.
Come suggeriva Marcos, il comandante dei guerriglieri del Chiapas: «Noi senza
volto, noi senza
viso. Noi, quelli della parola che sempre cammina».
Pippo Delbono l'Unità 6
novembre 2009