IL CRISTIANESIMO NON PUO’ APPARTENERE ALLA CULTURA DOMINANTE

 

Una religione come il cristianesimo – che al suo apparire nel mondo greco e romano dovette superare la diffidenza, l’ostilità e addirittura la persecu­zione da parte della cultura dominante che non ne tollerava la «differenza», il modo diverso di porsi non tanto rispetto alla propri matrice ebraica, ma soprattutto nei confronti di una religiosi­tà pagana disposta ad accettare e assimilare ogni tipo di divinità, alla sola condizione che non pretendesse l’esclusività - ha finito per divenire ben presto a sua volta cultura dominante e a identificarsi con la società stessa, durante la quasi bimillenaria stagione della «cristianità» che gli ultimi due secoli hanno visto tramontare non senza sussulti di restaurazione. Quando i cristiani parlano oggi di «stranieri», e li giudicanoano più o meno capaci di integrersi nelle nostre società e culture, dimenti­cano che all’origine l’espressione «stranieri e pellegrini» - che si trova nella Prima lettera di Pietro (2,11) - caratterizzava proprio loro, così estranei e differenti, rispetto alla mentalità circostante.

E’ difficile negare che questo principio ispiratore dello stare dei cristiani nel mondo e nella storia sia caduto nell’oblio durante quei lunghi secoli in cui, per lo meno in Occidente, vi è stata simbiosi istituzionale tra fede cristiana e civil­tà, capace di generare un’entità politica, economica e istituzionale. ­Eppure quella condizio­ne di stranierità - che il Vangelo definisce come «essere nel mondo senza essere del mondo» - ridiven­ta essenziale oggi per un cristiane­simo che deve riconoscere la propria situazione di minoranza an­che in Paesi di antica cristianizza­zione. Fin dal suo nascere, sul tronco di Israele, la Chiesa si riconosce abitata da una vocazione all’esilio tra le «genti­» (le nazioni, i pagani, nella terminologia biblica), senza identificarsi con alcuna etnia, senza appiattirsi su un’unica cultura, senza adagiarsi in un determinato assetto storico-­culturale. C’è anzi da chiedersi se non sia stata proprio questa capa­cità di inculturazione, di adatta­mento, di simbiosi critica ad aver consentito alla fede e alla testimo­nianza cristiana di declinarsi in modi differenti conservando uni­tà interiore e riconoscimento reci­proco tra i fedeli nonostante le vicissitudini della storia e il vasto orizzonte geografico.

Allora riscoprire questa dimen­sione della stranierità consentireb­be di misurarsi adeguatamente con l’irriducibile dialettica tra appartenenza e differenza, tra solidarietà e diversità, tra convivenza civile e alterità. Del resto, l’elemen­tare esperienza umana mostra che siamo «stranieri a noi stessi», (secondo la felice espressione di Julia Kristeva), come ci ricordano concordi le svariate voci della cultura del XX secolo – dalla psica­nalisi alla filosofia, dalla letteratura alla poesia - che indicano la stranierità come dimensione costi­tutiva dell’uomo.

Stranierità allora significa, an­che per la Chiesa, riconoscere gli assetti culturali come provvisori e transitori, distinguendo la «verità» - eccedenza che supera tutti e che nessuno può possedere - dalle sue definizioni. Il Vaticano II, che si chiudeva proprio quarant’anni fa, ricordava come anche le altre religioni «non raramente rifletto­no un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini», (Nostra aetate 2); riconoscendo la presen­za di questi «semi di verità» e vivendo la stranierità la Chiesa può scoprirsi essa stessa seme, annuncio o prefigurazione di una dimensione che la supera infinita­mente e alla quale dà il nome di «regno di Dio». Ma allora l’annun­cio cristiano avverrà in una dialet­tica in cui la de-culturazione dell’ evangelizzatore si accompagna al­la in-culturazione del Vangelo; allora l’altro cesserà di essere sem­plice «oggetto» destinato a essere condotto volente o nolente alla mia verità, unica e universale e diverrà «soggetto» da accogliere nella sua unicità, con la sua veri­tà. Il discernimento della propria verità non potrà avvenire senza l’Altro, né tanto meno contro l’Al­tro, non si lascerà ingabbiare in categorie giuridiche o in afferma­zioni dogmatiche, ma troverà spazio nella storia grazie all’incontro tra diversi, tra stranieri che sco­prono possibile una comprensio­ne e una relativa comunione pro­prio in virtù della rinuncia essere «padroni di casa», unici detentori del senso e proprietari della veri­tà. Per tutti i cristiani la conoscen­za della verità, del bene e del mele nell’etica è sempre limitata e relati­va, e in questo campo gli Altri non sono gli avversari della verità bensì occasioni per interrogativi, ricerche, approfondimenti.

Forse questo della stranierità è un campo che andrebbe maggior­mente coltivato e indagato sia da laici che da cattolici, in una stagio­ne che vede ciascuno ripiegarsi su se stesso: sapersi e sentirsi tutti stranieri ci aiuterebbe a cogliere l’Altro nell’interezza e nella com­plessità della sua persona, senza ridurlo ai problemi che la sua presenza comporta. Oggi la sfida è per tutti quella di articolare verità e alterità nel senso della comunio­ne, dell’ascolto e dell’incontro, non dell’esclusione, dell’arroganza e dell’autosufficienza. Ma è grande la tentazione di continuare a ragio­nare considerando se stessi come «norma» e, quindi, di esercitare pressioni per essere riconosciuti nel ruolo di reggenti, in una società in cui sono tramontate le ideolo­gie messianiche e faticano a dive­nire eloquenti le etiche laiche.

Cedere a questa tentazione por­terebbe a sostituire la logica della «maggioranza» che impone le proprie certezze con quella dell’influenza del gruppo di pressione che utilizza mezzi e strategie tipi­ci delle lobbies, oppure con lo sdegnoso e agguerrito rinchiudersi nei resti di una cittadella fortifi­cata in attesa di stagioni migliori. Sì. Oggi c’è troppa nostalgia di «cristianità»: si riaffacciano pretese e invadenza e si vorrebbe imporre ciò che nel cristianesimo si può solo proporre. Ma quella stessa parola di Dio che situa i cristiani come «stranieri e pelle­grini» nella storia richiede anche di non strutturare la loro presenz­a sui modelli politici mondani (cf. Luca 22,25-27): per i credenti l’essere nella storia deve far emer­gere la «riserva escatologica», quell’attesa vigilante di «cieli nuovi e terra nuova», che è costitutiva della loro identità e che fonda la loro prassi anti-idolatrica.

L’essere cristiano non può la­sciarsi rinchiudere nell’identificazione con uno specifico progetto di liberazione, di giustizia e di pace, né con le culture generate dall’identità cristiana. Il posto dei cristiani è nella compagnia degli uomini: con loro - senza alcun titolo che a priori li garantisca più degli altri sulla realizzazione di un progetto sociale – dialogheranno e si confronteranno con franchezza e senza arroganza, memori che il loro Signore e Maestro li ha chia­mati «piccolo gregge», invitandoli a «non temere»: realtà quotidiana di un minoranza fiera della pro­pria identità ma non arrogante, consapevole che, pur senza mai tralasciare di predicare il Vangelo, il risultato non dipende dalla sua volontà perché - come ricorda san Paolo nella Seconda lettera ai Tessalonicesi - «non di tutti è la fede». In una situazione di pluralismo, la Chiesa non deve e non vuole essere un gruppo di pressione perché il suo posto nella società quello di interlocutrice, non di reggente, e perché, come ha ricordato recentemente Benedet­to XVI, «la Chiesa non intende rivendicare per sé alcun privile­gio [...], non vuole imporre ai non credenti una prospettiva di fede», bensì porsi, insieme a loro, al servizio dell’uomo.

 

Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose   La Stampa del 4 dicembre 2005