Credenti di sinistra - davanti a dio come adulti responsabili


Nel mondo odierno - scriveva Dietrich Bonhoeffer - non possiamo stare davanti a Dio come
bambini davanti a un padre dal quale si aspettano tutto, ma da adulti che se la sbrogliano da sé nelle
responsabilità e nei dilemmi terreni. Il credente non vive «chiedendo a Dio», ma «in presenza di
Dio»
, che per il cristiano vuol dire in presenza della Croce. E così egli ha fatto fino alle decisioni
ultime e più problematiche, impiccato dai nazisti per aver partecipato al complotto contro Hitler.
Questo rapporto adulto si apriva per i cattolici con il Concilio Vaticano II, mentre Ratzinger fa di
tutto per ridurli a un'infantile obbedienza.
Tanto più si respira leggendo tre libri usciti negli ultimi mesi; due cattolici e un ebreo: Vita e morte
senza miracoli di Celestino VI di Adriana Zarri (Diabasis, pp. 179, euro 12), Credere è camminare
di Filippo Gentiloni (La Meridiana, pp. 40, euro 8) e Conta e racconta di Amos Luzzatto (Mursia,
pp. 280, euro 17).

Buoni usi della dittatura vaticana

In Adriana Zarri la presenza di Dio è sicura e acquietante da quando, giovanetta incredula, ha aperto
un giorno la finestra e le è apparso il creato dotato di senso di un Dio amoroso. Ne è venuta una
mistica che ha scelto il laicato per rigore, per scrivere e attuare liberamente da cittadina. Il suo più
che un romanzo è un apologo su un tema bruciante, il papato. Non aveva amato Woityla, e deve
essere delusa da Ratzinger che era stato in gioventù uomo del Concilio.
Narra dunque di un papa tutto diverso, un sacerdote sobrio che vive in condivisione con i fedeli
invece che apostrofarli da un sacro soglio sfolgorante e autoritario. Il tema di una chiesa come
comunità di credenti ha alimentato sempre le eresie infracattoliche, ma Adriana non si sente eretica
affatto. E neanche il suo don Giuseppe, semplice e colto parroco di campagna (ne ha conosciuti di
persona alcuni) stupefatto di essere proposto papa perché il Conclave, non riuscendo ad accordarsi
dopo la morte di Benedetto XVI, ripiega sulla proposta avanzata da un cardinale fuori dal giro e
specie dalla Curia (la quale ci sta perché tanto, pensa, sarà sempre lei a governare). Don Giuseppe
accetterà: per abolire ogni pompa, ogni enfasi, ogni cerimoniale, ogni pretesa curiale, fino a
restituire il Vaticano a Roma e le chiese ai fedeli, nomina dei vescovi inclusa. Egli stesso non si
porrà come l'infallibile vicario di Cristo ma come vescovo di Roma, servo dei servi di Dio, vivendo
in poche stanze in San Giovanni Laterano, lontano da quel simbolo di potenza che è San Pietro,
condividendo senza problemi la famosa piazza con i comunisti (che Adriana crede tuttora presenti)
le poche volte che riterrà di rivolgersi ai fedeli dall'alto invece che mischiarsi con loro. E pur non
apprezzando l'uso di cambiare il nome, sceglie per sé quello di Celestino VI: Celestino V era quello
che Dante accusa di aver fatto «per viltade il gran rifiuto».
La sua conoscenza delle scritture essendo inattaccabile, Celestino VI demolisce con calma la
verticalità della Chiesa, le sue ricchezze, le sue gerarchie, la sessuofobia, la misoginia, la complicità
o l'ingerenza nelle cose dello stato, le concessioni a forme idolatriche, il vezzo di fare santi, la
persuasione di essere sola a detenere tutte le verità. Insomma fa buon uso della dittatura vaticana
per restituire il cristianesimo ai cristiani - paradosso sul quale Adriana sorvola con qualche ironia.
Così assistiamo alle riforme di Celestino VI, mentre - lei scrive con un sorriso - le stagioni si
susseguono, le rondini sfrecciano e lo Spirito spira. Fino alla morte di don Giuseppe papa,
naturalmente senza miracoli. A meno che... a meno che un bel momento Celestino VI non decida di
dimettersi e tornare alla sua parrocchia. Nessuna viltade, sostiene Adriana, è una scelta dal punto di
vista ecclesiale da rispettare come l'altra.
La favola ha una sua evidente morale. Il monaco benedettino Benedetto Calati aveva scritto le
stesse cose, ma con profetica collera invece che con la mano leggera della mia amica. Nessuno oltre
Tevere gli ha dato ascolto né, temo, lo darà ad Adriana, sapendo che da quando si sono smessi i
roghi nulla difende il potere dai suoi contestatori quanto tacerne.

In guardia dalla perentorietà dell'io

Tutt'altro il lavoro di Filippo Gentiloni. Tanto è quieto il rapporto di Adriana con Dio tanto inquieto
è quello suo. Anch'egli procede senza strepiti, sempre più asciugando le parole, ma é arrivato
all'interrogativo inesorabile: come credere dopo la morte della metafisica? Soltanto a condizione di
non mirare a una verità data una volta per sempre, ma cercarla e interpretarla, insegnamento
prezioso dell'ermeneutica. L'interpretazione è il rapporto che si determina tra il Libro e chi lo scruta
fra esitazioni, dubbi, intuizioni - il libro cresce «cum legente», scriveva Gregorio Magno. E non
basta, occorre che colui che legge sia cosciente del suo limite, rispetti altre letture e ne senta il
bisogno, intuisca l'alterità come quel che gli manca.
Questo tipo di fede non è amato dai monoteismi, ma corre nei testi biblici e nella pratica ebraica
dell'interpretazione permanente, e il cristianesimo lo sigla nella Trinità, un dio dalle tre diverse
nature; delle quali Gentiloni predilige lo Spirito, perché la figura del Padre mantiene un'autorità, e
quella del figlio la pesantezza dell'incarnazione - il Cristo o è un uomo sofferente («Signore, perché
mi hai abbandonato?») o risorge da guerriero trionfante, come nella tavola di Pier della Francesca a
Borgo Sansepolcro, o da vendicatore, come nel Giudizio di Michelangelo. Lo Spirito invece è un
soffio, il meno frequentato dalla chiesa devozionale.
Il pensiero più vicino a quello di Gentiloni è quello di Levinas, ma apprezza di Gianni Vattimo il
passo «debole», non nel senso di fragile bensì di non prepotente e mi sembra affine alle teorie del
«manque» del teologo francese Claude Geffré. Il bisogno dell'altro, precisa Gentiloni, mette in
guardia dalla perentorietà dell'io, della grecità, della fatale ragione (carissimi a quelli come me).
Credere è cercare, sapere che c'è dell'altro e oltre. Non è il «credo» minaccioso del Concilio
Tridentino, è «credo» nel senso di «credo di sapere». Di qui per Filippo il valore del relativismo,
che Benedetto XVI considera il peggior pericolo, mentre è la chiave del non fermarsi nel ricercare,
dello stare in ascolto. Per lui la preghiera è proprio domanda, domanda di aiuto, bisogno. La sola
certezza sta in un cammino durante il quale forse si incontrerà la grazia, non per merito ma per
dono; e qui il suo sguardo va al vangelo di Giovanni, forse al tragico Agostino. Non so se al - del
resto intollerante - Lutero. (Il gatto del papa ideale di Adriana si chiama Lutero, e per quel che essa
pensa dei gatti non è certo una diminuzione).

L'etica forte del fare in terra

Il terzo libro di un credente è di un ebreo, Amos Luzzatto, autorità della comunità ebraica nel
periodo nel quale era diretta anche da ElioToaff e Tullia Zevi, che come lui potrebbero definirsi «di
sinistra». Amos, di professione chirurgo, è stato molto vicino al Partito comunista. La sua
autobiografia Conta e racconta prende il titolo da due versetti biblici, fa il tuo bilancio e parlane. La
fede di Amos non ha né trasporti né dubbi, a lui il Libro, sempre da interpretare, non impone di
essere frugato nell'anima; tanto meno da un papa adorno di piume e avvezzo al comando.
L'ebraismo si è risparmiato quell'ambigua modernità che porta la chiesa tridentina a infilarsi in tutti
i labirinti delle coscienze; per cui rispetto alla chiesa di Roma, perfino gli ebrei ortodossi, pur così
grevi, sono poco più di un simpatico o antipatico partito.
Non a caso è la secolarizzazione nello stato d'Israele, peraltro mai esplicitamente dichiarata, che
conosce da qualche tempo traumi e condanne, ma ne è risultato non più che un esacerbato
nazionalismo; che non è poca cosa ma non stinge sugli ebrei come Amos, Jahvé non essendo un Dio
addomesticabile in politica come quello del Vaticano. Amos Luzzatto in ogni caso ne è serenamente
libero, come il breve libro scritto alcuni anni fa Il posto degli ebrei (Einaudi, 2004) dove la
connotazione di «ebreo» è cosi inviluppata nella persecuzione che questo popolo ha subito, che
neanche esige una perpetua certificazione.
Ne consegue un rapporto con Dio privo della compiutezza di Adriana e della problematicità di
Filippo. La fede non si pone come problema. L'apprendimento religioso in famiglia dall'allegra
mamma e dalle zie è intrinseco all'aver dovuto lasciare da ragazzo l'Italia per la Palestina, imparare
l'yddish ed essersi sentito là per la prima volta al sicuro, nonché l'essere e agire nelle cose del
mondo quale che ne sia il rischio. Il quale non prende mai in Amos accenti tragici, per una sorta di
pudore che diventa grande saggezza, tolleranza e fin un benevolo humour veneziano.
La biografia risulta tutta intrecciata di privato e pubblico; del tutto privato è soltanto
l'innamoramento senza tempo per la moglie, mentre nella relazione con i severi figli non manca
qualche sfumatura di affettuoso distinguo. Questa è la qualità preziosa di Luzzatto, che comporta
un'etica forte del fare in terra e gli permette di essere di sinistra anche ora, quando non è più facile
né consueto. Come è tranquillo il suo rapporto con lo stato di Israele, solo luogo sicuro per gli ebrei,
percezione ignota a chi non conosce questa insicurezza primaria.
Viene da pensare che l'assenza di una salvezza collocata fuori dalla vita, della resurrezione come
fondamento dell'essere cristiano, assicura agli ebrei come Amos una diversa laicità e una
fondamentale tolleranza che forse non può mai interamente essere del cristiano o del musulmano.
Sulla sua spalla si può posare il capo come su quella d'un fratello; e quando ci incontriamo,
purtroppo raramente, il suo abbraccio mi fa bene.


 Rossana Rossanda     il manifesto 3 dicembre 2008