COSCIENZA E PRECETTI
 

La Chiesa ha dovuto percorrere un lungo cammino prima di rigettare l'assioma di una competenza diretta della suprema autorità ecclesiale nelle cose temporali e politiche. Anche quando questa dottrina non era più ufficialmente sostenuta, il clero e anche la gerarchia non si resero abbastanza conto che la competenza nell'ordine politico andava rimessa ai cristiani laici. Il fenomeno si è verificato anche dopo 40 anni dal Concilio Vaticano II e nonostante che papi come Paolo VI e Giovanni Paolo II avessero dichiarato in modo formale la fine delle intrusioni politiche della gerarchia. La persistenza del malcostume clericale è stata tale da esigere un nuovo richiamo di Benedetto XVI, preoccupato di salvaguardare il primato dello spirituale della missione della Chiesa. Se ne è fatto eco lo stesso card. Bagnasco quando ha invitato la Cei, con le stesse parole di Wojtyla al convegno di Palermo nel '95, a non coinvolgersi in scelte politiche e di partito, proprio per rendere più disinteressato ed efficace il suo ruolo pubblico nella difesa della persona umana.

Tuttavia si osserva che anche nel laicato cattolico impegnato in politica si sviluppa una singolare ricerca di coperture clericali, quasi una dimissione dall'autonomia propria. Si danno politici o intellettuali non solo di ispirazione cattolica ma anche agnostici che inseguono il papa nelle parrocchie a caccia di benedizioni o che fanno derivare le loro scelte politiche dai cardinali. È paradossale che i seguaci della laicità di Machiavelli ignorino le sue invettive ai principi "che cercano di appoggiarsi strumentalmente a Dio e non alla propria virtù, a quei religiosi che pretendono di fare della politica solo facendo della religione, e viceversa, e che a null'altro riescono in tal modo che a corrompere la religione e a fare della pessima politica" (Istorie I,9).

 All'origine di queste deviazioni l'analisi rintraccia, al di là delle passioni e delle opzioni, una percezione confusa del ruolo della coscienza personale come ultima istanza di decisione. L'ingiunzione cardinalizia "non si tratta sui valori, i politici credenti non devono cedere a compromessi su valori non negoziabili" rischia di accendere gravi conflitti di coscienza o a generare una mera obbedienza esteriore al magistero. Tuttavia richieste così invasive dell'autorità non si conformano facilmente alla lunga tradizione della Chiesa che, a partire da San Tommaso d'Aquino, enuncia chiaramente la potenza regolatrice della coscienza quanto a verità morale. Il "dottore angelico" fu il primo a proclamare, a livello di grande teologia, il principio del primato della coscienza nel giudizio concreto sui nostri atti.

 Contro i suoi contemporanei, e anche contro il suo maestro Alberto Magno, egli prese questa posizione che privilegia la soggettività, opponendosi a una concezione tutta oggettiva della legge e dei suoi imperativi obbedienziali. Nella linea della teologia tomista,si chiama "prudenza" la virtù che assicura la congiunzione tra le affermazioni di principio e le decisioni concrete, che spettano ai laici. La legge viene enunciata in modo generale e le sue norme sono sempre astratte; l'azione invece è concreta e le congiunture nelle quali essa si colloca e si decide non sono soltanto delle circostanze esteriori, giustapposte e accidentali; esse fanno parte integrante della sua moralità. La mediazione tra le affermazioni di principio e le scelte di opportunità sociali, culturali e politiche viene fatta dalla e nella coscienza, non dalla riduzione integralista delle situazioni a norme astratte.

 In questo solco si è posto, tra le grandi figure cristiane, il card. John Henry Newman, secondo il quale "agire contro la nostra coscienza non può mai essere moralmente buono". Se ci si allontana, fosse anche per rispetto del legislatore, da ciò che la coscienza, certo illuminata, giudica come un bene, c'è in questo una fuga dal bene e dunque un male morale. Si può allora peccare agendo contro la coscienza. Seguirla non è un minor male, è oggettivamente un bene. Nella "Lettera al Duca di Norfolk" egli richiamava il decreto del Concilio Lateranense IV: "Qualunque cosa si faccia contro la coscienza, edifica per l'inferno". E sosteneva che dal papa all'ultimo laico tutti sono sottomessi alla maestà della coscienza, tanto che "se il Papa parlasse contro la coscienza commetterebbe un atto di suicidio morale".

 L'esperienza delle Democrazie Cristiane in Europa ha nutrito da queste antiche radici la propria lotta per l'auto-nomia politica. Basterà forse un solo cenno alla storia italiana nella quale da don Sturzo a De Gasperi, da Fanfani a Moro una costante è stata mantenuta, anche in ore di tensione per le intrusioni ecclesiastiche: "Nessun cristiano, diceva Moro al congresso di Napoli della Dc nel 1962, potrebbe ritenere del tutto estranee le scelte politiche concrete dai supremi valori della vita morale e religiosa. Ma le scelte di ordine politico obbediscono alla legge di opportunità, di relatività, di prudenza, che caratterizza la vita politica. Soprattutto risentono della necessità del confronto, si affermano nella misura in cui riescono a conquistare un maggior numero di consensi, si presentano su di un terreno comune con altre ideologie, il quale non può essere quello proprio delle idealità cristiane e con un preciso e rigoroso criterio di verità" .

 In momenti non meno cruciali per il cattolicesimo politico, all'indomani del crollo della Dc, il card. Martini, in un discorso del '98, chiariva che "l'azione politica, che pure deve ispirarsi ai principi etici, non consiste per sé nella realizzazione immediata dei principi etici assoluti, ma nella realizzazione del bene comune concretamente possibile, in una determinata situazione". In questa ricerca, da fare con senso di gradualità, l'allora arcivescovo di Milano riconosceva che "quando non sia possibile ottenere di più, proprio in forza del principio della ricerca del miglior bene comune concretamente possibile, si debba o sia opportuno accettare un bene minore o tollerare un male rispetto a un male maggiore" .

È una tradizione morale così solida che la Chiesa l'ha voluta trasferire nella legge canonica. Il nuovo Codice di Diritto Canonico, pubblicato nel 1983, riconosce nel canone 227 che "i fedeli laici hanno diritto a che sia loro riconosciuta nella realtà della città terrena la libertà che compete a tutti i cittadini". E contempla garanzie per l'esercizio del "diritto di coscienza". L'autonomia dei laici nei confronti dell'autorità ecclesiale ‑ ha commentato Giuseppe Dalla Torre ‑ "non è solo un diritto dei laici in tutto ciò che risulta opinabile nell'ordine temporale (opzioni politiche, economiche, sociali, ecc.), ma è anche un diritto al rispetto delle proprie scelte da valersi nei confronti degli altri cristiani che professino opinioni diverse ed abbiano eventualmente effettuato scelte temporali differenti. Rispetto a tale diritto dei laici all'autonomia, che implica la loro personale responsabilità per funzioni che l'ordinamento canonico riconosce loro proprie ed esclusive ‑ vi è un dovere preciso dell'autorità ecclesiastica ad astenersi da ogni forma di intervento nell'ordine temporale, che si configuri come violazione delle libertà laicali ed abuso delle funzioni clericali, dando luogo a nuove forme di clericalismo".

 

Giancarlo Zizola, giornalista e saggista, vaticanista del Sole 24 Ore       Adista notizie n.23  2008