COSA PENSA LA CHIESA QUANDO PARLA DI DIALOGO ?

 

      Il dialogo, anche quello così frequentemente auspicato tra i cattolici e gli altri (che si indicano, in negativo, come i non cattolici) presuppone una condizione: che le parti si riconoscano pari, in razionalità e moralità. Se si parte dal presupposto che l’altro non è solo uno che pensa diversamente, ma è uno da meno o, addirittura, un mentecatto o un immorale, il dialogo sarà perfettamente inutile: sarà tempo perduto, adescamento o simulazione. Dove vige questo pregiudizio, ci si ignora o ci si combatte. Si potrà anche fare finta di dialogare, come lo stratega che procrastina lo scontro e rafforza intanto le posizioni. Ma dialogare onestamente, no, non si potrà. Il maestro del dialogo è quel Socrate che giungeva perfino a gioire di soccombere nella discussione (chi è colto in errore, si libera d’un male e quindi riceve un bene). Ma non occorre essere Socrate per comprendere che se non c’è reciproca disponibilità e apertura, tanto vale andarsene ognuno per la sua strada, sempre che non si voglia prendere a bastonate. Onde, se sinceramente si dice: “Il dialogo, così necessario, tra laici e cattolici” (J. Ratzinger, L’Europa nella crisi delle culture, Il Regno - documenti 9/2005), si dovrebbe supporre che questo riconoscimento di razionalità e moralità sia acquisito. Ma è così?

     Nei pubblici interventi della gerarchia cattolica sulla condizione della fede cristiana, nel mondo attuale, domina un dubbio angoscioso circa la fine imminente di un ciclo storico, iniziato millesettecento anni fa, con l’unione della fede cristiana e della potenza politica, rappresentata allora dall’Impero romano. Il dubbio non è che la fede religiosa, e tanto meno la fede cristiana, in quanto tali, siano destinate a scomparire: l’evidenza mostra il contrario.

     Il dubbio serpeggiante è che invece la fede cattolica sia destinata a essere assorbita nella sfera puramente soggettiva delle essenze spirituali individuali, perdendo così valore oggettivo e vincolante di coesione sociale. In una formula: credere senza appartenere. Così si spiega l’insistenza, mai stata così accentuata, sulla dimensione necessariamente pubblica o politica della religione cristiana cattolica (e solo di questa). L’Europa, si ripete all’infinito, è in decadenza e, si aggiunge, ciò deriva dal fatto che l’oggettività sembra essere diventato il privilegio esclusivo della scienza. Tutto ciò che scienza non è, sarebbe irrimediabilmente sottoposto al relativismo delle credenze individuali che, nella sfera pubblica democratica, si esprimono illimitatamente e arbitrariamente con la forza del numero.

     Nihil sub sole novum. Se leggessimo oggi la Quanta cura, l’Enciclica del Sillabo (1861), troveremmo molte ragioni di riflessioni comparativa tra lo spirito di allora e quello che domina oggi nelle alte sfere. In quella “tristissima età nostra”, scriveva Pio IX, si trattava di difendersi dalla secolarizzazione politica, dal liberalismo, dalla libertà di coscienza, dalla riduzione dell’autorità a forza del numero, dalla filosofia senza teologia; in breve “dalla moderna civiltà”. Oggi molte cose sono cambiate, a iniziare dal linguaggio, onde non si parla più, ad esempio, di uomini empi “che schizzano come i flutti di procelloso mare la spuma delle loro fallacie e promettono libertà, mentre sono schiavi della corruzione” (una citazione tra le tante). Ma la sensazione cattolica dell’assedio in “una Europa - diciamo così (così dice il papa Benedetto XVI) - in decadenza” non è diversa. Le cause sono ancora quelle di allora, attualizzate: non più il liberalismo ma la democrazia “insana”, cioè basata sull’onnipotenza del numero; non più la libertà di coscienza, ma “il relativismo etico”; non più la filosofia atea, ma la scienza che non conosce limiti. Allora come oggi, la radice del male è il rifiuto di riconoscere nel magistero della chiesa, in ultima decisiva istanza, il fondamento vincolante della civiltà europea, un rifiuto che sottoporrebbe l’Europa di oggi una “prova di tradizione” fuori della tradizione cristiana.

     Ciò che sembra diverso è l’atteggiamento: allora, alla denuncia del male, seguiva il rifiuto del mondo ostile; oggi, l’apertura al mondo. I nemici di allora sono diventati “i nostri amici che non credono”, con i quali si cerca meritoriamente non solo di convivere, ma anche di collaborare. Non si lanciano anatemi ma si danno consigli (come quello di “vivere e indirizzare la propria vita come se Dio ci fosse”) e si partecipa intensivamente a quelle procedure politiche della democrazia che, un tempo, erano condannate come opera del demonio (v. L.Zanotti, La sana democrazia. Verità della chiesa e principi dello Stato, Torino, Giappichelli, 2005). Insomma: la chiesa vuol essere “dialogante”.

     Purtroppo, però, adottato un atteggiamento esteriore amichevole, non sembra mutato quello interiore. Gli interlocutori continuano a essere considerati come dei diversi, ma come degli inferiori, sul piano morale e razionale.

     La morale. La questione non si pone - speriamo - nei termini triviali di una graduatoria di meriti e demeriti. Nessuno dovrebbe arrischiarsi a rivendicare un primato di questo genere. Non può esserci una competizione come questa, da cui tutti rischierebbero di uscire malconci. Accade però talvolta che siano proprio alcuni non credenti autolesionisti a tributare riconoscimenti di superiorità ai credenti; oppure che da parte cattolica, anche altolocata, si ricorra ancora oggi a denunce di collusioni demoniache, non solo per modo di dire (la riduzione delle figure della fede a simboli è condannata), onde, anche chi scrive questo articolo potrebbe essere un adepto, nel migliore dei casi incosciente, di Satana. La questione è diversa; è, per così dire, di ontologia morale. Solo i credenti - questo il leitmotiv - sarebbero capaci di “senso della vita”. La vita eterna promessa da Dio ai suoi fedeli dà un significato alla loro vita mortale. Se tutto si consuma quaggiù, senza premi e punizioni lassù, allora una cosa vale l’altra e, per ricorrere a Dostoevskij, “tutto è permesso”. Ecco allora il relativismo, l’indifferentismo, l’egoismo, il puro calcolo di utilità, la sopraffazione, la disperazione, il non senso della vita: in breve, l’impossibilità di una morale esistenziale e, dunque,m di una vita rivolta al bene piuttosto che al male. Così ragionando, però, non si è sfiorati dall’idea che si possa dire: la vita ha un senso ma siamo noi a doverglielo dare e, come si può fondare una morale sulla vita immortale dell’al di là, così si possono cercare i fondamenti della vita morale nell’al di 1ua, precisamente nel comune destino di noi mortali. Non si considera la possibilità che qui, nella libertà, ci possa essere una ricerca morale - non facciamo graduatorie - degna almeno quanto la fede in promesse di ricompense e punizioni. Postuliamo una morale esterna, dispensata da un’autorità sia pure paterna, come la Provvidenza divina, significa, nel grande colloquio sulla libertà che occupa un celeberrimo capitolo (II, 5, 5) dei Karamazov, dare ragione all’Inquisitore e torto al Cristo.        

     La ragione. Secondo la tradizione cattolica, fede e ragione coincidono. Entrambe procedono da Dio, e Dio non può contraddire se stesso. Se contraddizione c’è, è solo apparente, in quanto “una verità di ragione” contraria alla fede è, in realtà, “totalmente falsa” (Dei Filius, 1870, del Concilio Vaticano I). Questa impostazione subordinava bensì la ragione alla fede ma, almeno, ne riconosceva la distinzione, una distinzione che oggi sembra sfumare. Il magistero cattolico segue scoscesi persocisi con l’intento di proporre un Dio avente natura razionale (logos) e sostenere che, nella concezione cristiana-cattolica attuale, fede e ragione coincidono. L’essere umano “di ragione” è tale anche perché “di fede”, onde chi è senza o contro la fede è, anche senza o contro la ragione. Queste proposizioni rappresentano una svolta. Nella tradizione ebraico-cristiana (fino a poco fa la tradizione), Dio è potenza e amore; la nuova filogenesi greco-cristiana propone l’innesto del Cristianesimo nella concezione del Kosmos, quale ordine del mondo corrispondente alla ragione regolatrice sovrana. La “natura”, poiché nessuno può pretendere di alterarla, diventa “diritto naturale”: logos e nomos finiscono con il coincidere. Proclamandosi custode dell’ordine natural-razionale, la chiesa può proporsi come custode dell’ortodossia della ragione; non solo della ragione filosofica, come è stato per secoli, ma anche della ragione scientifica, cioè della ragione applicata alle scienze naturali. Gli uomini di chiesa diventano scienziati: anzi, scienziati accreditati più di tutti gli altri, perché la loro “ragione” onnicomprensiva, che si abbevera alla scienza di Dio, la teologia, può vantare un’esclusiva garanzia di verità. Per qualche misterioso ricorso storico, riappare il volto del cardinale Bellarmino, con la sola differenza che oggi, invece d’invocare le Scritture contro Galileo, si invoca il logos divino.

     Su simili premesse, è chiaro che il dialogo onesto che si auspicava all’inizio è impossibile. L’interlocutore cattolico per la chiesa è uno che, in moralità e razionalità, vale poco o niente. È uno che le circostanze inducono a tollerare, ma di cui si farebbe volentieri a meno. A ben pensarci, le “amichevoli” proposte ai non credenti di “vivere (almeno) come se Dio esistesse” è conseguenza di questo disprezzo. Se ci si confronta con loro, è perché le condizioni storiche concrete non consentono di fare altrimenti. Il dialogo non è questione di convinzione, ma di opportunismo dettato da forza maggiore o da ragioni tattiche, nell’attesa che cambi la situazione. C’è una distinzione molto cattolica tra tesi e ipotesi, una distinzione che consente alla chiesa i più spericolati adattamenti pratici anche molto distanti dalle sue concezioni del bene e del giusto. La tesi è la dottrina cattolica nella sua purezza, l’ipotesi è quanto di essa le circostanze consentono di realizzare. Il dubbio è che il dialogo, per la chiesa, sia solo “in ipotesi”, in vista di tempi migliori, come è per lo stratega di cui si diceva, che prende tempo e accresce le sue munizioni.

     Diverso era lo spirito del dialogo che anima molte pagine, aperte alla speranza, del Concilio Vaticano II, nelle quali “il mondo moderno” è assunto come interlocutore positivo, portatore di moralità ed espressivo di segni meritevoli di ascolto. Diversa era la concezione tra fede e ragione, tra fede e attività dei cristiani nel mondo. La subordinazione al magistero della chiesa nel campo della fede non era vista in contraddizione con la loro autonomia e responsabilità nei campi della ragione pratica. Questo era il terreno nel quale la speranza di un dialogo onesto era costruita, il terreno sul quale anche l’accezione piena della democrazia da parte del mondo cattolico poteva fondersi. Ma è ancora così?

      Nel mese di dicembre del 2005, nel pieno di accese polemiche sulle nostre questioni di bioetica, durante le quali si dissero parole chiuse a ogni confronto (“principi non negoziabili” appelli all’obiezione di coscienza, inviti al non-voto di candidati non in linea, ecc.), il presidente della Comunità episcopale italiana, cardinale Ruini, denunciati ancora una volta il “secolarismo radicale” e il “relativismo” laico, sorprese tutti con queste parole: “Si tratta di affidarsi anche in questi ambiti, al libero confronto delle idee, rispettandone gli esiti democratici pure quando non possiamo condividerli…è bene che tutti ne prendiamo la più piena coscienza,per stemperare il clima di un confronto che prevedibilmente si protrarrà assai lungo, arricchendosi di sempre nuovi argomenti”. Sagge parole di dialogo. Ma sia lecita la domanda: pronunciate “in tesi” o “in ipotesi”?

Gustavo Zagrebelsky     la Repubblica,10 gennaio 2007