Coppie di fatto e valori
Saranno temi
eticamente sensibili, in realtà parliamo di diritti civili.
La legislazione
rifletta la ricerca di un punto d'incontro
Le parole del Pontefice e, appena prima, quelle del cardinale Tarcisio Bertone
disegnano un quadro assai netto, e immutato e immutabile del sistema di rapporti
tra fede e società e tra fede e politica, secondo le gerarchie della chiesa
cattolica: a partire da ciò che viene indicato come un dogma e che rappresenta,
invece, il punto più debole - sotto tutti i profili - dell'intera dottrina
sociale della stessa chiesa. Ovvero la incondizionata coincidenza tra morale
cristiana e diritto naturale. Sullo sfondo, l'irresistibile tentazione
riduzionistica della chiesa attuale, che traduce - ahinoi (noi credenti e noi
non credenti) - il messaggio cristiano e la sua ispirazione etica a manualistica
sessuale, a precettistica coniugale, addirittura a prontuario ginecologico.
E tuttavia, in questo quadro non esaltante, è possibile - a mio avviso - porre
alcuni punti fermi per un approccio radicalmente diverso.
Partiamo da alcune considerazioni sufficientemente condivise, o condivisibili,
per provare a formulare i criteri di una concezione razionale - non difensiva e
non angusta - della laicità, adeguata alle società democratiche occidentali.
1) La professione di fede, quando non interpretata in senso integralista o
fondamentalista, è un'esperienza non nociva, non superflua e nemmeno
insignificante per la soggettività individuale e la vita sociale nei sistemi
democratici. Essa può risultare, al contrario, un importante contributo alle
relazioni collettive e alla identità (ovvero alle identità) culturale e
spirituale delle società libere, alla loro crescita e alla loro capacità di
integrazione.
2) La chiesa, le chiese hanno pieno diritto di parola, di presenza nello spazio
pubblico e di interlocuzione con gli altri soggetti e con le altre istituzioni.
La "ingerenza", quando esercitata con modalità visibili e dichiarate, negli
ambiti sociali e nella sfera pubblica, non va in alcun modo sanzionata o
combattuta.
3) La legislazione di una società democratica è sempre l'esito di un negoziato e
di un compromesso tra opzioni politiche, culturali, morali e religiose o non
religiose di diversa ispirazione. La legislazione ha il precipuo compito di
ridurre gli effetti negativi prodotti dalle contraddizioni sociali e dalle
situazioni di disuguaglianza e disparità, proprie di ogni società complessa, a
seguito della scarsità di risorse disponibili (materiali e immateriali,
economiche e simboliche …) e della loro non equa distribuzione. Ma questo non
richiede esclusivamente una tecnica normativa: rimanda, inevitabilmente, a
interpretazioni, antropologie, "concezioni del mondo". E interessa, pertanto, la
cattolica Paola Binetti, il valdese Paolo Ferrero e i molti non credenti che
hanno responsabilità di decisioni pubbliche. Ciò impone la ricerca di un punto
d'incontro che salvaguardi il più possibile (o comprometta il meno possibile) i
rispettivi interessi, le rispettive opzioni, i rispettivi valori. Una
legislazione, in un regime democratico, non può essere di natura "cristiana" o
di natura "socialista": nell'un caso come nell'altro si sacrificherebbe una
quota significativa delle componenti che concorrono a costituire il patrimonio
nazionale di identità, valori e opzioni morali. La soluzione, d'altra parte, non
sta in una legislazione "laica" se con ciò si intende la rimozione da quella
legislazione di qualunque ispirazione morale di derivazione religiosa o non
religiosa: e, dunque, la sua riduzione a mera tecnica, a neutra amministrazione,
a sistema organizzato in regole e veti, garanzie e obblighi. Questa "utopia
laica" non funziona in quanto quella tecnica deve misurarsi con il corpo
sociale, le sue patologie e le sue crisi, le sue emozioni e le sue sofferenze,
le sue esigenze di tutela e le sue domande di libertà. Ciò richiede, sì,
ordinamento e norme, politiche sociali e decisioni pubbliche razionali ed
efficaci, ma esige anche "sensibilità": ovvero flessibilità e adattabilità,
negoziato e mediazione. Tutto ciò prevede il riferimento a valori: e i valori,
nelle società contemporanee, possono essere di ispirazione religiosa o non
religiosa. Nell'Italia d'oggi ciò ha (dovrebbe avere) due conseguenze: la piena
dignità di una ispirazione religiosa delle opzioni politiche; la pari dignità di
una ispirazione non religiosa delle opzioni politiche. E, invece, si ha un
gioco a somma zero: la piena dignità riconosciuta all'ispirazione religiosa (in
Italia, cattolica) si è tradotta nell'ultimo sessantennio e, paradossalmente,
con forza ancora maggiore nel decennio più recente, nell'egemonia di quella
stessa ispirazione che, rifiutando pari dignità ad altre, si è fatta fatalmente
integralismo. Fino al punto di negare alle altre opzioni, e proprio in quanto
altre (ovvero di altra natura: non religiosa), alcun fondamento morale.
Ciò si manifesta esemplarmente nella vicenda delle "coppie di fatto". Il presupposto del fondamento morale riservato al solo matrimonio (religioso o civile) impone l'esclusione dalle unioni civili di ogni possibile contenuto morale. A quelle unioni infatti, si concede - per via anagrafica o civilistica - il riconoscimento di alcuni diritti, ma non si attribuisce loro la costituzione morale (rappresentata da reciprocità, mutualità, progetti condivisi …) di una forma coniugale giuridicamente sancita e tutelata. Così facendo, non si realizza quel compromesso tra opzioni di diversa ispirazione, religiosa e non religiosa, postulato da una pluralità di esigenze: quella di salvaguardare il più possibile (o di compromettere il meno possibile) i diversi sistemi di valori e quella di accogliere bisogni sociali meritevoli di protezione giuridica ("le coppie di fatto"). Ciò rivela, in maniera inequivocabile come i temi che qualcuno definisce (Dio lo perdoni) "eticamente sensibili" rimandino - oltre che a importanti dilemmi etici - a diritti civili irrinunciabili. È ciò a rendere dirimente la questione delle unioni civili: non mero fatto simbolico, bensì significativo criterio di orientamento ("e di misurazione") della vocazione pluralista, prima ancora che laica, delle società democratiche.
il Riformista 2.1.07 Luigi Manconi