Concorso di colpa
Sabato torna in Piazza (del Popolo) a Roma il “popolo viola”. E già si è
ricominciato a parlare di “antipolitica” e altre menate del genere, che
perseguitano tutti coloro i quali non abbozzano di fronte al precipizio del
Paese. Intiero. “Antipolitica” mentre la politica si è disintegrata
sostituita dai Comitati d’Affari? “Antipolitica” di fronte alla
casta-cosca-oligarchia che si è impossessata della democrazia per trasformarla
in “Cosa loro”? “Antipolitica” mentre la Moratti di fronte a un
assessore con la mazzetta in bocca dice per tranquillizzarci “non è come Mani
Pulite” e intanto la ’Ndrangheta occupa vistosamente anche il Nord Italia?
“Antipolitica” mentre Berlusconi ci rassicura “non è Tangentopoli” e difatti è
piuttosto “berluscopoli”, un modo di razionalizzare l’illegalità a colpi di
cosmesi esecutivo-legislativa (un “monstrum” sempre più indistinguibile di cui a
lungo subiremo le conseguenze)? “Antipolitica” mentre un leader acclamato come
Luca di Montezemolo tuona “combattere la corruzione è impresa titanica”, lui
sorta di animale socio-mitologico con qualche piccola pecca biografica?
“Antipolitica” se perfino Pisanu, che se non sbaglio ha fatto il ministro degli
Interni in periodi delicati, propedeutici a quelli che stiamo vivendo, ammette
che “è peggio di Tangentopoli” se non altro perché vengono dopo e sono “nani
sulle spalle di giganti” (della corruttela)?
Ma sì, chiamatela “antipolitica” per raggirare fin dal linguaggio gente che è stufa di veder stracciata ogni soglia di illegalità sulla porta di un’Italia in cui morale ed etica, raziocinio e cultura sono temibili parolacce. E magari suggerite al “popolo viola” di andare a lavorare con tutto il lavoro che c’è e la meravigliosa trasparenza che anche l’ultima vicenda della Protezione civile inoppugnabilmente dimostra. Tutto chiaro? Si lavora per meriti, si viene chiamati per curriculum, si arriva al posto per concorso e non per un’idea prostituita di favori/disvalori di scambio. Perché allora qualcuno scende in piazza? Non c’è abbastanza libertà di stampa con le schiere contrapposte “libere” di attaccare e difendere a pedine incrociate sulla scacchiera finta dei mass-media (come se la mia libertà non consistesse piuttosto nello scrivere tutto ciò che penso oppure so e posso dimostrare di chiunque, di Berlusconi ma anche di Bersani, di Lunardi come di Colaninno, di Bertolaso e De Luca ecc.)?
E intanto tramano per mettere il bavaglio alle intercettazioni, senza le quali nulla o quasi sapremmo con l’evidenza dovuta delle magagne devastanti di un Paese intiero: numeri falsi sulle persone indagate, cifre false sui costi di queste intercettazioni, alibi falsi sulla presunta e truffaldinamente accampata impossibilità di continuare a farle pur separando l’aspetto della cronaca giudiziaria da quello del gossip nel quale sguazzano i media schierati nel modo spesso “recitato” e complementare degli eserciti politici (di cui sopra). Non sono fantasie di un atrabiliare che vede sprofondare il futuro di figli e nipoti. Basterebbe ascoltare per cinque minuti alle 20 a reti unificate nei tg il giudice Nicola Gratteri, esperto di ’Ndrine e high tech nonché autore con Nicaso dello splendido “La malapianta”, che spiega tutto l’affaire delle intercettazioni, per farsene un’idea precisa. Compreso il concorso di colpa che da troppi anni riguarda sia Berlusconi sia i suoi avversari. Diceva giorni fa Enrico Letta al Tg3, dopo aver parlato della necessità di “giustizia e ricostruzione” per l’Abruzzo: “Non credo che la gente si interessi prioritariamente del problema delle intercettazioni”. Era un modo per posporre in aula la questione. Sbagliando di grosso e contraddicendosi in due parole. Se le intercettazioni hanno a che fare con l’illegalità e la giustizia, sono una faccenda di madornale priorità, l’urgenza di un Paese. Che almeno, violaceo, va in piazza.
Oliviero Beha il Fatto 24.2.10