Il Concilio tradito?


Il termine “indignazione” evidenzia il richiamo –sofferto, per definizione-ad una “dignità” che si
ritiene, o teme, perduta e la volontà di rivendicarla (nel senso proprio, giuridico, della rei vindicatio,
ripresa/difesa della proprietà di qualcosa che è stato o rischia di venir tolto): quanto ai modi, essi
possono essere diversi.“Di tal genere, se non tali appunto”, possono manzonianamente dirsi i
sentimenti di quanti abbiano vissuto, nel loro percorso di fede e vita ecclesiale, una stagione di
grande speranza come quella che ha contrassegnato gli ultimi quarant’anni del millennio da poco
trascorso, prima, durante e dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II.
I documenti conciliari affidano alla comunità cristiana compiti, opportunità ed attese per un
annuncio sempre più ampio della salvezza ad un mondo che andava allora, e non ha smesso di
andare, perdendo capacità di riflessione profonda, di ascolto comprensivo, di collaborazione aperta.
In particolare, al ruolo dei componenti non ordinati di essa, ancora di recente definiti Christifideles
laici, ed alla loro testimonianza quotidiana viene riconosciuta grande importanza, come
comunicazione semplice e diretta della dignità -profetica, sacerdotale e regale-attribuita dal Buon
Dio a quanti accolgono e vivono il Suo messaggio di pace, inviato agli uomini e alle donne che Egli
ama senza distinzioni (la Buona Volontà è la Sua!).
Sono sotto i nostri occhi situazioni e tendenze, degenerative della personalità umana e disgreganti
dei tessuti sociali, che lasciano trasparire ansie e sofferenze da mancanza di valori “fondanti” e
richiederebbero letture e attenzioni com-mosse da spirito di carità piuttosto che giudizi ora più ora
meno perentori. A fronte di esse, l’atteggiamento che la Chiesa manifesta attraverso la propria
gerarchia appare spesso ispirato non al “farsi prossimo”, anche a costo di rimetterci del proprio (e
fino ad accettare la persecuzione), ma ad un arroccarsi su posizioni rigidamente difensive di valori
indicati come da blindare, sulla cui base contare i fedeli o i governi affidabili; ad una ricerca di
proselitismo attenta agli aspetti trionfalistici od oceanici, a “segnare punti”, anche a costo di utilizzi
(non sempre privi di equivoci) della grancassa mediatica senza particolari riferimenti, nei modi e
nei contenuti, all’annuncio evangelico.
Una simile “chiamata di banco” determina forse una qualche posizione di forza, ma anche, di certo,
una reazione uguale e contraria negli interlocutori. Il risultato è una radicalizzazione dei termini del
conflitto, con una crescente clericalizzazione dei credenti ed un correlativo “esproprio” dei
connotati di laicità che hanno sempre illuminato e reso credibili molte illustri testimonianze di veri
cristiani.Per coloro cui facevamo riferimento in apertura (quorum nos) la sofferenza (e
l’indignazione, nel senso pure indicato) che ne nascono sono altrettanto speculari, nel constatare che
sono sempre più ristretti gli spazi per un’apertura e una condivisione che non rinuncino a
qualificarsi, ma cerchino di ovviare assieme alle molte carenze che si riscontrano nel mondo e lo
facciano ravvicinando le coscienze e costruendo rapporti di dialogo e collaborazione (il che
funziona tanto più quanto meno si cerchi di entrare in quei rapporti come i perfetti o i “distinti”).
Se il modello “nel mondo, ma non del mondo” richiamato nella Lettera a Diogneto sembra lasciare
nuovamente il passo al ritmo marziale del “siam gli arditi della fede, siam gli araldi della Croce”
(“... i marines dell’Arciprete, i parà di Zio Giuffré”, concludevano i meno allineati negli anni
Cinquanta: anche l’ironia è un modo di indignarsi, e lì ce n’era donde), resta da chiedersi come
manifestare questi controversi sentimenti: a ben vedere il cristiano non è, come lo Stato per
Pasquale Cafiero, uno che “si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità”:
non ha, a ben vedere privilegi o baluardi da difendere, la sua forza sta nella debolezza estrema della
Croce (“in hoc signo vinces”) che all’epoca di Costantino esprimeva il massimo dell’abiezione e,
per chi vi era appeso, le più cruente sofferenze.
Riprendere allora, come vere e proprie parole-chiave, alcuni dei temi portanti del Concilio ed
analizzare/denunciare le luci e le ombre della loro traduzione al giorno d’oggi è un modo per
esprimere quel desiderio di restare in cammino, con e nella comunità senza cui la Fede non ha
senso, con una disponibilità che si [ri]alimenti ogni giorno all’inesauribile forza dello Spirito.


1. Evangelizzazione. Il vangelo della misericordia e della riconciliazione sembra lasciar posto
all’annuncio “frontale” della dottrina; nella predicazione e nelle direttive la gioia semplice del
perdono e del servizio, la libertà dei salvati lasciano il posto a un complicato sistema di controllo e
di regole, dove la norma e l’obbligo, l’apprendere la dottrina hanno più valore della speranza, della
comunione, del servizio, dell’ospitalità. Non dimentichiamo che l’annuncio, la missione è un
continuo invito a “svuotarsi” del proprio ego, come Gesù che non ha ritenuto un patrimonio l’essere
Figlio di Dio, ma si è fatto Servo (Isaia), ha accettato, la morte e la morte di croce attirando così
tutti a sé, rendendosi pienamente ricettivo dell’altro, capace di accettarlo, farsene riempire.
Rinnegare nei fatti la condizione di Servo che Gesù ha assunto su di sé, e la sua morte come
salvezza per l’umanità rischia di farci apparire come pieni di noi, incapaci di aprire le porte al
cambiamento in obbedienza allo Spirito che ha parlato nel Concilio: stile, linguaggio, celebrazione,
riti sono di nuovo lontani da quello svuotamento di sé che il Cristo ci testimonia. Battesimo e Croce
parlano di Gesù che si fa povero, uomo dei dolori, perché tutti, anche noi,possiamo condividere la
ricchezza immensa dell’essere figli di Dio.
 

2. Dialogo – parola conciliare – è accettare di mettersi in discussione (il vuoto interiore, la kénosis
della mistica cristiana non è povertà fine a se stessa ma accoglienza sia dell’Altro trascendente sia
dell’altro concreto, che incarna il primo nella vita di ogni giorno), è scambiare con l’altro la parola,
il verbo, la verità: non è, come oggi spesso accade, annuncio sicuro di una verità che deve essere
solo recepita (chi abbia partecipato in San Pietro ad una “udienza generale” del mercoledì avrà
notato questa singolare inversione di ruoli tra chi parla e chi... ode). Che distanza dall’umile e
trepidante attenzione di Giovanni XXIII, di Paolo VI e dell’intera assise conciliare ai valori, alle
richieste, ai dubbi, alle proposte nascenti dalla società, dalle altre confessioni cristiane, dai fratelli
maggiori in Abramo, dalle religioni e spiritualità diverse e anche dai non credenti! Che insicurezza
nei continui richiami a essere fedeli alla propria identità (e già che ci siamo, generalizzandola),
quanta incertezza nei richiami ossessivi a non farsi fuorviare dal relativismo, quanta paura nei
confronti di un mondo che chiede solo di essere compreso e salvato, questo sì, ma non “protetto” e
“preservato” (anche suo malgrado) o, peggio, accusato di malafede. Salvezza, fede, liberazione
sono per il cristiano termini ricchi di senso e di forza interiore, ma suonano molto più difficili per
l’uomo d’oggi, soprattutto per chi non riesce ad associare a questi termini la profondità dei richiami
alla storia della salvezza, alla Pasqua, al cammino nel deserto, alla liberazione dalla schiavitù. Non
devono essere usati con leggerezza: bisogna integrarli con altri linguaggi, percezioni, simboli per
farne scoprire il senso più profondo e decisivo attraverso un percorso attento e paziente. Odòs era il
nome del Cristianesimo primitivo: la via a Dio. Qual è oggi la “Via” al Padre? Siamo ancora capaci
di essere maestri sulla Via, che è Gesù, attraverso una testimonianza riferita a Lui, o preferiamo
essere maestri nel confezionare più comode risposte, magari raffinate ma formali, su Dio?
 

3. La Chiesa Comunione e Popolo di Dio. L’Eucarestia, mistero centrale del Cristianesimo, è segno
dell’identità e origine stessa della Chiesa: la chiesa fa l’eucarestia e l’eucarestia fa la chiesa. Questa
centralità rischia sempre più di dissolversi se
a. non
si affronta il tema della progressiva scarsità di presbiteri che celebrano l’Eucarestia,
rifiutando di prendere persino in considerazione, anche in paesi di nuova evangelizzazione o di
progressiva scristianizzazione, il tema del sacerdozio sposato (adulti, padri di famiglia
adeguatamente preparati) o del sacerdozio femminile e ci si limita a invocare nella preghiera
nuove vocazioni;
b. si indulge, come nel recente intervento che incoraggia l’adorazione, a soluzioni condivisibili ma
difensive: sollecitare a una pratica di adorazione del SS. Sacramento è cosa ben diversa dal
mettere al centro la potenza salvifica della celebrazione eucaristica.
Il progressivo appannarsi della percezione della Chiesa popolo di Dio in cammino verso il Regno,
testimone e al tempo stesso realizzazione della comunione dei santi, segnala il ritorno – non
dichiarato ma nei fatti -a una concezione di essa come societas perfecta, che rimette in chiaro le
gerarchia dei segmenti ecclesiali, che enfatizza la funzione predominante dei pastori nei confronti
del popolo, dei chierici nei confronti dei laici e di chi ha scelto la vita religiosa consacrata, del
valore dell’obbedienza (basti pensare al richiamo del Papa ai Gesuiti nel momento in cui si
accingevano a nominare il loro nuovo Generale; un richiamo improprio, se si pensa che la
Compagnia si è sempre distinta nell’obbedienza) rispetto alla parresìa, alla capacità di parlar franco
e con libertà ai fratelli nella fede. Persino dal punto di vista liturgico la possibilità di celebrare in
latino (nel testo preconciliare) e, per chi presiede l’assemblea, di volgersi verso la Croce, l’abside,
l’Oriente invece che verso il popolo di Dio che condivide la celebrazione, così come la
restaurazione della preghiera per la conversione del Popolo dell’alleanza (modificata a seguito del
Concilio), con tutte le precisazioni e chiarimenti che ne son seguiti, è indice di nostalgia per quando
le regole erano univoche e applicate inflessibilmente.

4. La collegialità. Dov’è finita? Che ne è dell’impegno della Chiesa a porsi in ascolto da una parte
dell’unico Pastore e Guida delle anime, Gesù risorto, e dall’altra delle aspettative e delle ansie del
popolo di Dio? Il Vaticano Secondo ha cercato di promuovere i più ampi livelli di partecipazione
nella Chiesa: la dottrina della collegialità annunciava la corresponsabilità dei Vescovi, con e sotto il
Papa, per l’insegnamento e la prassi pastorale della chiesa universale. Di qui il Sinodo dei Vescovi, i
Sinodi Diocesani, i Consigli Pastorali. Il Concilio ha voluto modificare l’immagine della Chiesa
come monarchia con poteri e decisioni fortemente centralizzati, per onorare invece il principio di
sussidiarietà: l’autorità interviene là dove è veramente necessario e previo ascolto delle istituzioni
riconosciute. Cara Ecclesiam suam! Che ne è? Consigli Pastorali, Sinodi locali, nazionali e globali
sono stati pian piano normalizzati, la passività è stata scambiata per docilità al magistero, la
dipendenza e la sottomissione come virtuosa attenzione all’autenticità della dottrina. Lettere
pastorali coraggiose e aperte al contributo di esperti, associazioni, movimenti, parrocchie si erano
moltiplicate negli anni a seguire il Concilio: si sono rarefatte e limitate. Il sinodo mondiale ha come
ordine del giorno quello proposto da Roma, i Vescovi non possono pubblicare le loro relazioni se
non dopo la relazione scritta dal Papa in persona; l’autorità delle Conferenze Episcopali è stata
limitata. Insomma, i vescovi sono – con qualche eccezione – di nuovo rivolti a Roma più che al
proprio popolo. E la nozione di “cristiano adulto”, che avrebbe (avuto) titolo ed opportunità per
partecipare ad una simile collegialità, finisce per irritare nella sua semplicità e chiarezza.
 

5. La Chiesa e il mondo. Succede così che il mondo percepisce con nettezza il messaggio di
sostanziale “arroccamento” del Cattolicesimo attuale rispetto alle grandi aperture e al messaggio di
speranza, coraggio e fiducia che la chiesa della seconda metà del secolo scorso ha trasmesso.
Media, opinion leader, politici e diplomatici, opinione pubblica in genere è informata con precisione
e nettezza delle posizioni della chiesa su scuola, formazione, sessualità, questioni di genere,
fecondazione artificiale, accanimento terapeutico, divorzio, diritti delle coppie “non regolari”, diritti
della chiesa nei confronti dello stato e dell’amministrazione pubblica. E molto meno su
Ecumenismo, dialogo interreligioso, annuncio della parola, ruolo e diritti della persona nella società
e nell’economia. Più amministrativa e sanamente burocratica,meno profetica e libera; più occhiuta
sulla propria identità e meno attenta alla vocazione del servizio; più solida nelle legittime
rivendicazioni del proprio ruolo e delle proprie prerogative, meno disponibile a riconoscere comuni
obiettivi con altre chiese e movimenti religiosi per la salvezza dell’uomo (di qualunque uomo,
anche non credente, anche ostile, anche in malafede), la promozione della sua dignità, del suo
benessere, della sua fiducia nel futuro. Un’inversione di tendenza rispetto alla Chiesa disegnata dal
Concilio, molto cattolica, ancor più apostolica, molto meno... romana.
Ma è in questa Chiesa che si compie il cammino di ciascuno di noi. Le indignazioni, e l’impegno a
manifestarle ogniqualvolta sia necessario, restano come segno di amore profondo e fedele per essa.
Si tratta di prendere ogni giorno la propria croce e seguire Gesù, certi che, per dirla sulle note di
père Duval, ton ciel se fera sur terre avec tes bras.

 

Agostino Migone e Gianluigi Mariani       in “RS Servire” n° 1 del 2008