Come nel
franchismo: gradimento di governo per il vescovo a L’Aquila
Prove di franchismo nel basso Abruzzo? Leggendo i giornali di
sabato scorso, e seguendo le
abbondanti tracce lasciate sul web, sembrerebbe proprio di sì. Come nella Spagna
di Franco, gli atti
della nomina di un vescovo ausiliare a L’Aquila porterebbero la firma del Papa
ma le decisioni che
l’hanno preceduta sarebbero avvenute per esplicita richiesta di Palazzo Chigi e
non degli organi
preposti dalla Chiesa al delicato compito di valutare l’idoneità dei candidati
all’episcopato. Il primo
lancio della notizia, un take dell’Agi nel tardo pomeriggio di venerdì 13
novembre, già alludeva al
compito del nuovo presule: una sorta di commissario governativo a guardia
dei fondi stanziati per la
ricostruzione delle chiese abbattute dal terremoto del 6 aprile.
Il concetto, arricchito di nuovi dettagli fra cui la
«benedizione» di un personaggio importante del
governo, veniva sviluppato il 14 novembre in un ampio articolo dedicato
all’argomento da
Repubblica. Nel frattempo, visto che nel cattolicesimo italiano dopo
l’obbedienza neanche la
modestia è più una virtù, qualcuno faceva notare a mezzo stampa che la
nomina sarebbe avvenuta in
una interessante coincidenza temporale: proprio cento anni fa Pio X inviava come
vicario generale a
Messina, per manifestare la sua vicinanza ai terremotati, don Orione, fondatore
della congregazione
alla quale il nuovo vescovo appartiene.
A questo punto, persino nel blog del vaticanista di Il Giornale,
generalmente frequentato da ciellini
destrorsi ed estetizzanti, sono arrivati una sessantina di commenti tutt’altro
che entusiasti. Per i
cultori del genere, sempre sul web e sempre sullo stesso argomento infatti, è
possibile trascorrere
qualche ora allietati dalle voci di un dibattito che rasenta -a scelta- sia il
ridicolo sia il tragico già
che «l’habemus episcopum» questa volta è caduto sulla testa dei fedeli
dal balcone del palazzo del
governo. E non è stato certamente portato all’attenzione di Pietro, come
giustizia vorrebbe, dal seno
caldo di una comunità ecclesiale.
«Sono contento», si è limitato a commentare il sospetto bisognoso di tutela
governativa,
l’arcivescovo di L’Aquila Giuseppe Molinari, confermando così l’infinita
pazienza delle diocesi
italiane nel sopportare qualunque ingiuria, compresa quella di essere
ciclicamente considerate
cassonetti dove depositare gli scarti dell’amministrazione vaticana e della
diplomazia pontificia.
Comunque, di fronte all’imbarazzato silenzio dell’episcopato abruzzese (tenuto
all’oscuro, pare, al
contrario di quanto di solito avviene, della nuova nomina), è giocoforza notare
che solo qualche
giorno prima, durante l’Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana ad
Assisi, i responsabili
delle diocesi della regione ecclesiastica abruzzese-molisana avevano tentato di
consegnare
all’opinione pubblica considerazioni ben diverse da quelle che gli uomini di
governo continuano a
dare sulla ricostruzione del capoluogo abruzzese.
E sono appunto queste, le raccomandazioni che invano hanno
tentato di farci arrivare i responsabile
delle undici diocesi dell’Abruzzo e del Molise: «Si dica la verità. Non si
prometta l’impossibile
creando aspettative e illudendo la gente. Non sono ammissibili
giochi mediatici sulla ricostruzione e sul post-terremoto. Occorre dire la
verità. E poi non c’è solo il dramma de l’Aquila. Gli effetti devastanti del
sisma hanno colpito
Termoli, Chieti, Sulmona. Nella stessa Pescara vi sono ancora diciassettemila
sfollati. Quanto ci
vorrà per ricostruire il centro dell’Aquila?» Sarà stato un caso, ma subito dopo
Tommaso
Valentinetti, vescovo di Pescara, si è dimesso dalla presidenza di Pax Christi
ed è stato sostituto
nell’incarico da Giovanni Giudici, vescovo di Pavia. Tommaso Valentinetti prima
di fare il vescovo
a Pescara era a Termoli, dove lo abbiamo visto, nei giorni del disastro della
scuola di San Giuliano,
piangere e pregare con i genitori delle piccole vittime. Radio-sacrestia lo ha
sempre attribuito in
quota Ruini, tanto basti per dire che il manuale Cencelli della Chiesa italiana
non pone il Nostro, un
biblista, nella lista dei trinariciuti. Don Tommaso è conosciuto solo per essere
stato un bravo prete
nelle parrocchie dove ha lavorato, un bravo vicario generale a Lanciano, un
bravo vescovo a
Termoli e un pastore molto amato a Pescara. Nel marzo del 2006, quando ricevette
- come tutti i
vescovi italiani - un opuscolo firmato dall’onorevole Sandro Bondi e intitolato
«I frutti e l’albero:
cinque anni di Governo Berlusconi letti alla luce della dottrina sociale della
Chiesa», don Tommaso
lo lesse e dopo aver fatto adeguata riflessione lo respinse al mittente con una
lettera nella quale
diceva: «Vorremmo mantenerci attenti e inquieti (come diceva don Mazzolari),
appassionati alla
vita reale e quotidiana. Un quotidiano che ci lega ai poveri, alla vita delle
nostre famiglie, alla vita
dei giovani, alla storia degli stranieri, alla fatica degli educatori, alle
attese delle donne, all’impegno
della società civile, alla testimonianza delle nostre comunità, all’ambiente che
ci accoglie e alla
terra che ci nutre, alla dignità di ogni cittadino, alla vita di tutte e di
tutti».
È difficile comprendere perché una voce simile - condivisa da tutti i vescovi
della regione - abbia
bisogno di confrontarsi con un prodotto del sottobosco curiale e televisivo
spedito in Abruzzo più
come una minaccia che come un incoraggiamento.
Filippo Di Giacomo
l'Unità 20 novembre 2009