Il coma dell'anima
Non è solo il corpo a esser sequestrato, dalla legge che il Senato ha approvato
sul testamento
biologico. Molte cose giuste sono state scritte sullo Stato espropriatore,
ma la presa di possesso
oltrepassa l’organico. È la vita a essere sequestrata, nel suo scabroso
intreccio tra materia e spirito,
corpo e anima. Più precisamente, è l’idea che da millenni ci facciamo del vivere
bene, che non è
mero vegetare ma vivere pensando, ragionando, capendo chi soffre. In questo
viver bene, il pensiero
della morte è, oltre che centrale, il più vitale dei pensieri. Non è il finale
segmento della strada
terrena, ma quel che le dà profondità, sapore. Per la filosofia antica, a
cominciare da Platone,
l’esistere saggio consiste proprio in questo: nel prepararsi alla morte, l’anima
impara a esser «tutta
raccolta in sé»; s’abitua a vivere «senza impacci», più liberamente sceglie la
virtù.
Socrate parla nel Fedone di questo prepararsi e lo chiama esercizio di morte,
melete thanatou:
allenamento, meditazione. Un po’ più tardi, Seneca e Marco Aurelio diranno che
ci si allena
vivendo ogni giorno come fosse l’ultimo: non per fatalismo ma per aguzzare
l’intelligenza, la
perfezione.
Posso vivere bene o male il mio giorno: ma se è l’ultimo il bene peserà di più e
anche il male, non
potendolo più riparare. Il testamento biologico doveva essere proprio
questo: una preparazione del
fine vita e un ripensare la vita stessa, un rammemorarla, un predisporre
autonomamente la sua
conclusione in caso di non-coscienza, senza ledere il prossimo e senza dipendere
da tutori non
scelti. Doveva essere un esercizio di morte: un atto del vivere bene.
La legge approvata in Senato, se non sarà cambiata dalla Camera, non lo
permette. La
Dichiarazione anticipata non è vincolante (articolo 7 della legge), e contro la
nostra volontà
dovremo esser nutriti e idratati artificialmente. La legge e lo Stato non si
limitano a gestire al nostro
posto i corpi, ma meditano, si esercitano, vivono insomma, al nostro posto. Chi
si esercita a morire
è sentinella - il verbo greco ha la stessa radice. Vivere bene è vigilare su di
sé, darsi da soli una
legge (questo è: auto-nomia). È lo Stato a divenire ora sentinella, non
solo ai confini d’un territorio
geografico ma alle frontiere stesse dell’essere. Diventa bio-potere,
bio-politica: due parole che
Michel Foucault coniò nei primi Anni 70, quando studiò la clinica e la
metamorfosi della medicina.
Il sovrano che decide della vita e della morte non lascia solo vivere ma «fa
vivere»: complice della
tecnica, della scienza, di una Chiesa sbandata, determina i cicli vitali.
Beppino Englaro non ha torto
quando dichiara: «Adesso lo Stato si crede Dio». Fini, parlando della
legge ieri al Congresso Pdl, ha
ammonito contro lo Stato etico e l’abbandono dello Stato laico.
Molto più del corpo è dunque in gioco. Sono in gioco l’essere
dell’uomo e l’antichissima arte
medica, già in mutazione secondo Foucault dalla fine del ’700. È quel che fa
capire Umberto
Veronesi, quando il 18 marzo dice in Senato: «La medicina tecnologica moderna è
in grado di
spostare il termine della vita al di là della morte naturale, introducendo una
vita artificiale che
permette agli organi del corpo umano di rimanere vitali, anche senza attività
cerebrale, senza
coscienza, senza pensiero, senza vista, udito, parola». Nutrimento e idratazione
forzati dei comatosi
non sono trattamenti terapeutici ma «forme di sostegno vitale», dice la legge, e
anche questo è
opinabile. Il trattamento forse non è terapeutico ma di sicuro è sanitario
(Veronesi ha descritto
crudamente l’inserimento di tubi nei corpi), e fa violenza anch’esso alla natura
e a Dio. Foucault
parla, a proposito della nascita della clinica, della fine della medicina
aspettante e dell’avvento della
medicina interventista, tecnologica. Il medico aspettante non rompe il rapporto
con la natura. Spera
di dominarla meglio, ma conosce il limite, non punta ad annullare la morte, la
sua necessità. I
rivoluzionari del ’700 crearono le cliniche non solo istituendo un nuovo clero -
i medici pagati con i
beni confiscati alla Chiesa - ma presumendo addirittura di abolire la malattia.
Quando lo Stato s’impadronisce dell’esercizio di morte non nega all’uomo solo
la libertà. Gli toglie
la responsabilità: quella di riconoscere la finitezza dell’essere. Per
questo non è appropriato parlare
esclusivamente di diritti calpestati. Calpestato è il senso del dovere che
impregna il viver bene, se è
vero che il pensiero della morte, per chi voglia redigere il più importante dei
testamenti (quello che
riguarda non gli averi, ma l’essere) è meditazione sul proprio presente e
memoria di una vita fatta di
emancipazioni.
Il contrario dell’esercizio di morte è l’indifferenza e dunque più
fondamentalmente: la perdita di
controllo su di sé, l’anticipato coma dell’anima. Per lo Stato
che monopolizzando ogni cosa si
sostituisce alla natura, il cittadino comatoso è l'ideale. Non contano l'uomo e
i suoi modi scritti o
verbali di allenarsi alla morte. Conta il corpo nudo, «gettato lontano» nelle
cliniche, come scrive
Rilke nel Malte Laurids Brigge. Contano il sovrano, e le macchine con cui esso
piega la volontà
delle persone. Quella che viene strappata all’uomo, in realtà, è la condizione
di maggiorità (la sua
Mündigkeit, direbbe Kant). Non a caso il sottosegretario Eugenia Roccella
paragona il comatoso
irreversibile, trafitto anche senza volerlo da sonde nutritive, a un neonato
nutrito col biberon.
Chi immaginava un vero testamento biologico dovrà ricordarlo. Come quel neonato
dovrà vedersi
da ora in poi allo specchio, se la legge passerà: infantilizzato, dotato di
diritti dell’infanzia ma
gettato nella prigione del coma senza aver potuto sventare in tempo lo stato di
minorità. Dovrà
vedersi non come bamboccione ma addirittura come lattante, titolare di diritti
ma privo di
responsabilità.
La maggiore età è per Kant la facoltà che ciascuno possiede di determinare se
stesso, di parlare e
pensare per proprio conto in indipendenza e libertà, di sfuggire la minorità. È
così comodo esser
minorenni, e lusinghiero per chi ci vorrebbe poppanti: «A far sì che la
stragrande maggioranza degli
uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di
maggiorità, oltreché difficile,
anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta
benevolenza l’alta
sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come
fossero animali
domestici e aver accuratamente impedito che queste pacifiche creature osassero
muovere un passo
fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo
mostrano a esse il
pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole» (Kant,
Risposta alla domanda:
cos'è l'Illuminismo?).
Chi aspira alla maggiorità si guarderà dall’esaltare valori supremi, che sempre
hanno qualcosa di
guerresco: abbassando ogni altro valore, il Valore Supremo diventa Unico. Il
bello delle costituzioni
è di ammettere le contraddizioni (c’è il valore della vita, ma anche il rispetto
dell’autodeterminazione personale). Trovare un equilibrio tra valori
significa non vederne più di
supremi. È una delle forme del viver bene, e della laicità.
Vivere bene vuol dire anche, per chi auspica veri testamenti biologici,
ascoltare punti di vista
diversi (come fa la Costituzione). È vero che togliere cibo e acqua è rischioso
eticamente: se mi
affido a un medico, devo non temere - lo diceva il filosofo Jonas - che si
trasformi in boia, servendo
magari interessi estranei (i trapianti, il desiderio di sbarazzarsi dei vecchi
in società senescenti). È
vero che urge perfezionare le terapie del dolore, perché spesso più che morire
temiamo il soffrire.
Sono obiezioni sostanziali; vanno ascoltate: purché il malato non sia
ridotto a lattante.
Barbara Spinelli La Stampa 29 marzo 2009