Com'è ambiguo il tribunale di Vito Mancuso

I fasti della Mondadori non sono dovuti solo al cast di brillanti professionisti di cui essa si avvale
ma derivano anche dal radicamento più o meno sotterraneo, già a partire dal ben noto lodo
Mondadori, nell'humus torbido del sistema di potere berlusconiano. La cosiddetta «legge ad
aziendam
», varata di recente, che in forma estragiudiziale solleva quasi interamente l'azienda dal
pagamento al fisco di un'enorme somma, 350 milioni di euro, è solo la goccia che ha fatto
traboccare il vaso. Messa così, diventa un po' più credibile e forse anche coraggiosa l'esternazione
dei turbamenti di coscienza di Vito Mancuso (la Repubblica di sabato scorso e di ieri). L'autore di
libri di successo su temi di etica e teologia si domanda come continuare a far parte quale consulente
e autore di un'azienda che calpesterebbe elementari principi etici e di diritto. E, quasi in un'implicita
chiamata in correo, chiede di contribuire a risolvere i suoi turbamenti di coscienza ad altri autori
della Mondadori e di aziende ad essa collegate, come Augias, Citati, Saviano, Scalfari, Zagrebelski,
ecc..

Ho stima di Mancuso, condivido molti aspetti della sua etica e rispetto la sua intelligenza, qualcosa
però della sua esternazione non mi convince. Sembra che egli dormisse sonni tranquilli fino al
momento in cui non ha letto la denuncia della «legge ad aziendam» fatta da Giannini (la
Repubblica). Eppure era ben noto anche a lui che autori come Carlo Ginsburg e Corrado Stajano
avevano mollato la Mondadori fin dall'inizio della proprietà berlusconiana per non essere complici
di un sistema di potere corrotto. E non c'è solo questo.

Il successo di aziende editoriali e di autori come Mancuso non piove dal cielo limpido di una capacità intellettuale e comunicativa. È sempre
interno a un'etica della competizione globale, la quale ha come postulato fondamentale il
compromesso con le spietate regole del mercato che produce e deve produrre vincitori, una piccola élite, e vinti, le grandi maggioranze senza volto né voce.

È corrotto in radice il sistema del mercato,
anche di quello editoriale. Lo dice con lucido cinismo lo stesso John M. Keynes, noto economista
inglese, quando, nel 1930, getta per una volta lo sguardo nel lungo periodo e si pone il problema
delle Prospettive economiche per i nostri nipoti: «Almeno per altri cento anni dobbiamo fingere noi
e tutti gli altri che ciò che è giusto è cattivo e ciò che è cattivo è giusto; perché il male è utile mentre
ciò che è giusto non lo è. L'avarizia, l'usura e l'astuzia debbono essere i nostri dèi ancora per un
certo tempo, perché essi soli possono farci uscire dal tunnel del bisogno economico e portarci verso
la luce del giorno
» (Esortazioni e profezie, Il Saggiatore, Milano 1968).

Che fare? Mancuso su la Repubblica di ieri replica così alla Mondadori: «Voi sapete che oltre al
tribunale esteriore esiste un tribunale interiore. Col tribunale esteriore si può venire a patti pagando
qualche milione di euro. Col tribunale interiore no». Caro Vito, il tribunale interiore chiede che si
paghi un prezzo per limitare i danni della inevitabile complicità.
Lo sanno bene, ad esempio, i
redattori di questo giornale e della Manifestolibri e i loro autori e lettori, i quali realizzano un
prodotto culturale di alto rilievo ma devono fare acrobazie incredibili per restare in piedi con la
schiena dritta. Lo sanno quanti impegnano la loro vita non tanto per il loro successo personale
quanto per far emergere le soggettività popolari dall'anonimato, dall'invisibilità e dalla afonia.


Enzo Mazzi    il manifesto  24 agosto 2010