Il colore della democrazia
L’8 marzo scorso, forse
per rassicurare gli italiani, il Presidente della Repubblica ha fatto alcune
considerazioni singolari, sul coraggio e la politica. Ha detto che «in un
contesto degradato, di diffusa illegalità, essere ragazzi e ragazze perbene
richiede talvolta sacrifici e coraggio»: in questi casi estremi sì, «è bello che
ci sia» questa virtù. Ma in una democrazia rispettabile come la nostra,
«per essere buoni cittadini non si deve esercitare nessun atto di coraggio».
Profonda è infatti negli italiani «la condivisione di quel patrimonio di valori
e principi che si racchiude nella Costituzione». Legge e senso dello Stato sono
nostre doti naturali: il che esclude il degrado della legalità. I toni bassi
sono lo spartito di sì armoniosa disposizione.
Il fatto è che non siamo in una democrazia rispettabile, e forse
il Presidente pecca di ottimismo non solo sull’Italia ma in genere sullo stato
di salute delle democrazie. Certo, non s’erge un totalitarismo sterminatore.
Ma Napolitano avrà forse visto il terribile esperimento mostrato alla
televisione francese, qualche giorno fa. Il documentario si intitola Il Gioco
della morte, e mette in scena un gioco a premi in cui i candidati, per
vincere, ricevono l’ingiunzione di infliggere all’avversario che sbaglia i quiz
una scarica elettrica sempre più intensa, fino al massimo voltaggio che uccide.
La vittima è un attore che grida per finta, ma i candidati non lo sanno. Il
risultato è impaurente: l’81 per cento obbedisce, spostando la manopola sui 460
volt che danno la morte. Solo nove persone si fermano, udendo i primi gemiti del
colpito. Sette rinunciano, poi svengono.
Difficile dopo aver visto il Gioco dire che siamo democrazie rispettabili,
dove legge e Costituzioni sono interiorizzate. Quel che nell’uomo è
connaturato, in dittatura come in democrazia, non è la legge ma l’abitudine a
«non pensarci», l’istinto di gregge, e in primis il conformismo. Il «contesto
degradato» è nostro orizzonte permanente. È quello che Camus chiama
l’assurdo: il mondo non solo non ha senso ma neppure sente bisogno di senso,
ricorda Paolo Flores d’Arcais in un saggio sullo scrittore della rivolta (Albert
Camus filosofo del futuro, Codice ed., 2010).
Coraggioso è chi invece «si dà pensiero», chi s’interroga sul male e per
ciò stesso diventa, in patria, spaesato. Flores conclude: «Venire al
mondo equivale a far nascere un dover essere». In effetti sono tanti e
giornalieri, gli atti di coraggio di cui si può dire: vale la pena.
È coraggioso chi in gran parte d’Italia non paga pizzi alle mafie. Sono
coraggiosi il poliziotto o il giudice che resistono alle pressioni della
malavita o della politica. Soprattutto il servitore dello Stato è chiamato al
coraggio, in un’Italia unificata dalla lingua ma non dal senso dello Stato.
Coraggioso è chiunque sia classe dirigente, e con il proprio agire, scrivere,
fare informazione, influenza l’opinione con la verità. Non so se sia bello, dire
no. È comunque necessario, specie in Italia dove paure e conformismo hanno
radici possenti. Il coraggio, siamo avvezzi a vederlo come gesto di eccezionale
purezza mentre è gesto di chi fu Borsellino a dirlo in cuor suo lo sa: «È
normale che esista la paura. In ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata
dal coraggio». Così come c’è un male banale, esiste la banalità quotidiana del
coraggio.
Forse bisogna tornare alle fonti antiche, per ritrovare questa virtù.
Nella Repubblica, Platone spiega come il coraggio (andreia) sia
necessario in ogni evenienza, estrema e non. Esso consiste nella capacità
(dell’individuo, della città) di farsi un’opinione su ciò che è temibile o non
lo è, e di «salvare tale opinione». L’opinione da preservare, sulla natura delle
cose temibili, «è la legge e impiantarla in noi attraverso l’educazione»,
e il coraggio la conserva «in ogni circostanza: nel dolore, nel piacere, nel
desiderio, nel timore» (429,c-d). La metafora usata da Platone è quella del
colore. Immaginate una stoffa, dice: per darle un indelebile colore rosso
dovrete partire dal bianco, e sapere che il colore più resistente si stinge, se
viene a contatto con i detersivi delle passioni.
Il colore della democrazia è la resistenza a questo svanire di tinte, a
questo loro espianto dal cuore (il cuore è la sede del coraggio). Compito dei
cittadini e dei custodi della repubblica è «assorbire in sé, come una tintura,
le leggi, affinché grazie all’educazione ricevuta e alla propria natura essi
mantengano indelebile l’opinione sulle cose pericolose, senza permettere che la
tintura sia cancellata da quei saponi così efficaci a cancellare: dal piacere,
più efficace di qualsiasi soda; dal dolore, dal timore e dal desiderio, più
forti di qualsiasi sapone» (430,a-b).
In Italia la democrazia è stinta più efficacemente perché le leggi e i
custodi ci sono, ma l’innesto è meno scontato di quanto si creda.
Berlusconi lavora a tale espianto da anni, e ora lo ammette senza più remore:
alla legalità contrappone la legittimità che le urne conferiscono al capo. I
custodi delle leggi li giudica usurpatori oltre che infidi. Legittimo è solo il
capo, e questo gli consente di dire: «La legge è ciò che decido io». I
contropoteri cesseranno di insidiarlo solo quando pesi e contrappesi si
fonderanno: quando, eletto dal popolo, conquisterà il Quirinale.
Se la democrazia fosse rispettabile non ci sarebbe un capo che s’indigna perché
scopre d’esser stato intercettato mentre ordina di censurare programmi
televisivi sgraditi, e i cittadini, forti di indelebili tinture, gli direbbero:
le tue telefonate non sono private come le nostre, le intercettazioni sono a
volte eccessive ma chiamare l’autorità garante dell’informazione o il direttore
di un telegiornale Rai, per imprimere loro una linea, è radicalmente diverso.
Ognuno ha diritto alla privacy, e anche noi abbiamo criticato gli eccessi
delle intercettazioni. Ma l’abuso di potere che esse rivelano è in genere ben
più impaurente del cannocchiale che lo smaschera. Schifani dice: «È preoccupante
la fuga di notizie» e di fatto lo riconosce: sono le notizie a inquietarlo.
Anche dire questa semplice verità è coraggio quotidiano.
L’intervento sui programmi televisivi si fa specialmente sinistro alla luce di
show come Il Gioco della morte. Non dimentichiamo che un esperimento
simile si fece nel luglio 1961 all’università di Yale, guidato dallo psicologo
Stanley Milgram. A ordinare gli elettroshock, allora, c’erano autorevoli
biologi in camice grigio. Oggi l’autorità si fa giocosa, è una bella valletta a
intimare, suadente: «Alzi il voltaggio!». Il pubblico applaude, ride. A opporsi
è stato un misero 20 per cento, mentre il 35 s’oppose nel caso Milgram. Ne
consegue che la televisione ha più potere di scienziati in camice, sulle menti:
il coraggio diminuisce, il conformismo aumenta. Philip Zimbardo,
organizzatore di test analoghi a Stanford nel 1971, racconta come nessuno di
coloro che rifiutarono di infliggere i 460 volt chiese a Milgram di fermare
l’esperimento, o di visitare l’urlante vittima degli elettroshock.
Questo significa che la televisione non è più solo una caja tonta, una
scatola tonta, come dicono in Spagna. È una cassa da morto, che trasforma lo
studio televisivo in Colosseo di sangue: lugubri, le risate sono le stesse.
Ci sono sere a RaiUno in cui prima viene un notiziario menzognero (che dà per
assolto Mills, che presenta il giurista Hans Kelsen come critico ante litteram
della legalità), poi seguono programmi dai nomi ominosi: Affari Tuoi, I
Raccomandati, in un crescendo di catodiche manipolazioni.
Presto vedremo, in Tv, la morte in diretta sotto forma di varietà. Kierkegaard
dice in Aut-Aut che l’ultimo ad apparire, alla fine del mondo, sarà il
Buffone: «Accadde in un teatro, che le quinte presero fuoco. Il Buffone uscì
per avvisare il pubblico. Credettero che fosse uno scherzo e applaudirono; egli
ripeté l’avviso: la gente esultò ancora di più. Così mi figuro che il mondo
perirà fra l’esultanza generale degli spiritosi, che crederanno si tratti di uno
scherzo».
Barbara Spinelli La Stampa 21/3/2010