Ci rimane soltanto
l'aria
Nessun uomo è tanto pazzo da vendere la terra su cui cammina.
Così, stando alla leggenda, il
grande capo indiano avrebbe risposto al negoziatore bianco che gli offriva la
scelta tra la guerra di
sterminio e l’acquisto delle terre ataviche della sua tribù.
Che cosa direbbe oggi quel capo indiano di noi che, dopo aver fatto ovunque
commercio della terra
su cui camminiamo, ci apprestiamo a venderci anche l’acqua che beviamo?
Niente direbbe, il fiero guerriero, perché, al pari di ogni altro ostacolo
locale, fu spazzato via dalla
storia che, è bene non dimenticarlo, è stata sempre storia del processo
unilaterale attraverso il quale
l’Occidente, esplorando, conquistando e colonizzando, ha globalizzato la
terra unificandola in un
sistema mondo interamente governato dalla legge del capitalismo. Ora che
quella grande impresa è
compiuta, ora che la fase di espansione è terminata, ora che l’auto-narrazione
in cui si racconta di
come il pianeta Terra divenne una sfera interna alla logica del capitale
è giunta alla fine, ora non
rimane che lavorare sulle condizioni di vita all’interno della grande serra
planetaria del capitalismo
avanzato. Questa nuova frontiera interna che avanza senza soste ha un nome
preciso:
privatizzazione della vita.
Rientra in questo quadro epocale anche la notizia secondo la
quale in Italia, remota provincia
dell’impero, il governo sarebbe pronto ad appaltare a privati il servizio di
erogazione dell’acqua,
che smetterebbe così di fatto di essere un servizio pubblico, trasformando
l’approvvigionamento
idrico, cioè l’accesso a una fonte basilare della vita, in una qualsiasi merce.
In linea concettuale,
infatti, anche questo sarebbe un ampio passo verso la privatizzazione della
vita: l’acqua smetterebbe
di essere qualcosa cui tutti noi abbiamo diritto inalienabile per il semplice
fatto di stare al mondo,
una dotazione comune d’ingresso, come l’aria che respiriamo, e diverrebbe un
bene voluttuario
diversamente accessibile in base alla nostra individuale capacità di spesa.
Ecco, dunque, un altro
esempio della regola della deprivazione che sembra governare i destini degli
uomini in questo
nuovo scorcio di millennio: a ogni nuovo giro di giostra, man mano che il
«pubblico» diventa
«privato», ci viene sottratto ciò che è necessario per vivere o, almeno, ciò che
fino a una
generazione precedente era stato considerato un diritto naturale e inalienabile.
La privatizzazione
della vita agisce simultaneamente su due versanti, contigui e interconnessi come
le due facce di
un'unica moneta. Su un versante si procede a privatizzare la proprietà non più
solo dei mezzi di
produzione ma anche dei mezzi di sussistenza della vita della specie,
sull’altro si mette in scena la
riduzione della vita sociale a fatto privato.
Sul primo versante accade che, in un quadro globale di progressivo impoverimento
delle risorse
naturali, di cambiamenti climatici che rischiano di mettere fine al
lussureggiare della vita planetaria
e di fosche previsioni sull’aumento della popolazione mondiale, il controllo sui
beni basali per
l’esistenza, sulle condizioni di sopravvivenza, e finanche sulle matrici di
riproduzione della vita
biologica, viene via via affidato a soggetti d’impresa, cioè a privati
mossi dalla logica del profitto e,
spesso, da intenti speculativi. È il caso del controllo delle risorse
idriche, delle biotecnologie in
agricoltura, ma è anche il caso della privatizzazione della guerra subappaltata
a contractors privati,
della privatizzazione della ricerca medico-scientifica e, sopra ogni altro, è il
caso della ricerca sul
genoma umano condotto da privati. Il secondo versante, meno serio ma non meno
preoccupante, è
quello della trasformazione della politica in talk show, un osceno
teatrino di faccende un tempo
confinate nella vita privata che ha l’effetto di svilire, fino
all’annichilimento, la nozione di
«pubblico interesse». Il «pubblico», come ci ha insegnato Bauman, è
così svuotato dei suoi
contenuti, privato di un’agenda propria: è solo un agglomerato di guai,
preoccupazioni e problemi privati.
È l’eclissi della politica, un tempo intesa come possibilità di fare uso di mezzi collettivi per affrontare i problemi individuali.
È anche la fine del sentimento di comunità. E, con
esso, la fine del principio di un bene comune.
Da entrambi i lati dello schermo televisivo, la collettività scade ad aggregato
di agenti individuali,
le esistenze a questioni private. La lezione che si ricava da questa
rappresentazione che rimodella la
nostra capacità di pensare il mondo in comune è che ciascuno può solo lodare se
stesso per i propri
successi o, più probabilmente, incolpare se stesso per i propri fallimenti.
Tutti gli individui assistono
al grande talk show della vita privatizzata soli con i loro
problemi e, quando lo spettacolo finisce, si
ritrovano sprofondati nella loro solitudine, immersi nel buio di una stanza in
subaffitto davanti a un
televisore sintonizzato su di un canale morto.
Antonio Scurati La Stampa
19 novembre 2009