Chi usa gli ultimi
della terra
Viviamo a Rosarno una pagina oscura della storia italiana. Le ronde criminali
scatenate nell'assalto
agli africani, le sprangate in testa e le fucilate alle gambe degli immigrati,
rappresentano una
vergogna di fronte a cui possiamo solo sperare in un moto collettivo di ripulsa
morale. Di quale
tolleranza, "troppa tolleranza", parla il ministro Maroni? Ignora forse
che da trent'anni l'agricoltura
del Mezzogiorno d'Italia si regge economicamente sull'impiego di manodopera
maschile immigrata,
sospinta al nomadismo stagionale fra Puglia, Campania, Sicilia e Calabria, con
paghe di sussistenza
alla giornata, ricoveri di fortuna in edifici fatiscenti, criteri d'assunzione
malavitosi, senza la minima
tutela sanitaria e sindacale? Ora non li vogliono più, s'illudono di espellerli
come un corpo estraneo
dopo che li avevano convocati alla raccolta degli agrumi. Ma è dal 1980 che le
colture specializzate
meridionali non possono fare a meno delle migliaia di ragazzi africani trattati
né più né meno come
bestiame. E al tramonto, se la mandria non fa ritorno disciplinato nei recinti
abusivi delle aree
industriali dismesse, non trova certo istituzioni disponibili a riconoscerne
l'umanità. Gli italiani con
cui entrano in contatto questi lavoratori senza diritti sono solo di due tipi: i
caporali spesso affiliati
alla criminalità organizzata; e i volontari di Libera, della Caritas e di Medici
senza frontiere. Le
forze dell'ordine si sono limitate finora a un blando presidio territoriale per
evitare frizioni
pericolose con la popolazione locale. Ma l'importante era che il ciclo
produttivo non si
interrompesse: la mattina dopo il reclutamento ai bordi della strada non subiva
intralci.
Chi ha tollerato che cosa, ministro Maroni?
Rosarno era teatro da anni di una conflittualità quotidiana,
pestaggi isolati, sfide tra giovanissimi
divisi dal colore della pelle ma accomunati da una miseria culturale che li
induce a viversi come
nemici. Dopo i colpi di fucile che hanno ferito due immigrati, giovedì la furia
degli immigrati ha
colpito indiscriminatamente la popolazione calabrese. Ieri, per rappresaglia, è
scattata la "caccia al
nero": disordini razziali che evocano scenari di un'America d'altri tempi. Di
nuovo sparatorie a
casaccio per terrorizzare i miserabili che hanno osato ribellarsi, insanguinando
la Piana di Gioia
Tauro dove governano ben altre autorità che non lo Stato democratico.
La riconversione legale dell'agricoltura del Sud implicherebbe, accanto
agli investimenti economici,
un'opera di civilizzazione che mal si concilia con l'offensiva propagandistica
imperniata sulla
criminalizzazione del clandestino. Non solo i mass media ma anche
i portavoce della destra
governativa hanno eccitato, legittimato sentimenti d'ostilità da cui oggi
scaturiscono comportamenti
barbari, indegni di un paese civile.
Se a Castelvolturno, nel settembre 2008, fu la camorra a
sterminare sei braccianti africani, a
Rosarno assistiamo a un degrado ulteriore: settori di cittadinanza coinvolti in
un'azione di repulisti
inconsulta. La chiamata alle armi contro i dannati della terra che certo
non potevano garantire – con
la sola forza disciplinata delle loro braccia - il benessere di un'area rimasta
povera.
Vi sono probabilmente motivazioni sotterranee, indicibili, alla base di questo
conflitto. Non tutti i
25 euro di paga giornaliera finiscono nelle tasche dei braccianti illegali. Pare
che debbano versare
due euro e mezzo agli autisti dei pulmini che li trasportano nelle piantagioni.
Si vocifera addirittura
di una odiosa "tassa di soggiorno" di 5 euro pretesa dalla 'ndrangheta. Di certo
non sono
associazioni legali quelle che pattuiscono le prestazioni di lavoro. Ma
soprattutto è chiaro che una
relazione trasparente con la manodopera immigrata viene ostacolata, resa
pressoché impossibile
dalla legislazione vigente.
Altro che pericolo islamico: qui la religione non
c'entra un bel nulla. L'Italia dell'economia illegale,
non solo al Sud, lucra sulla farraginosità normativa che sottomette il
lavoratore immigrato a
procedure arbitrarie sia in materia contrattuale, sia nel rilascio del permesso
di soggiorno. Quando
Angelo Panebianco, sul "Corriere della Sera", asserisce che affrontare il tema
della cittadinanza
significherebbe "partire dalla coda anziché dalla testa", ignora che
restiamo l'unico paese europeo in
cui le procedure di regolarizzazione e di naturalizzazione non contemplano
alcuna certezza di tempi
e requisiti. Assecondando, di fatto, un'informalità di relazioni per cui ai
doveri non corrispondono
mai i diritti.
Sulla scia di un'analoga iniziativa francese, circola fra gli stranieri
residenti in Italia l'idea di dare
vita a marzo a una iniziativa forse velleitaria ma dal forte significato
simbolico: "24h senza di noi".
Che cosa succederebbe se per un giorno tutti gli immigrati si astenessero dal
lavoro? Quanto
reggerebbe il nostro sistema di vita senza il loro apporto? Farebbero bene, i
sindacati, a prendere in
seria considerazione questa iniziativa, contribuendo con la loro forza
organizzativa al moto
spontaneo. Ma prima ancora è l'intero arco delle forze politiche, culturali e
religiose che rifiutano la
contrapposizione incivile fra italiani e stranieri a doversi mobilitare:
l'inciviltà dei pogrom è
contagiosa.
Gad Lerner la Repubblica 9 gennaio 2010
Saviano: gli africani contro i clan sono
sempre più coraggiosi di noi
Contro le mafie gli immigrati sono più coraggiosi di noi». Lo ha detto Roberto
Saviano a proposito degli scontri di Rosarno, ricordando che quella calabrese «è
la quarta rivolta degli africani in Italia contro le mafie: per questo non vanno
criminalizzati ma scelti come alleati contro l’illegalità». «La
prima rivolta ricorda lo scrittore a Villa Literno nel 1989, la seconda a
Castelvolturno nel 2008 e le ultime due a Rosarno, sempre dopo aggressioni
subite da membri della comunità africana. Gli immigrati sembrano avere un
coraggio contro le mafie che gli italiani hanno perso poiché per loro
contrastare le organizzazioni criminali è questione di vita o di morte».
Repubblica 9.1.10
Profondo Italia: il tiro a segno sulla
carne nera
Braccia nei campi, nulla fuori. Dove il sogno del lavoro è incubo
Rosarno, uno svincolo della ormai inutile ed impercorribile Salerno-Reggio
Calabria, il pezzo di autostrada che mai nessun governo è riuscito a terminare e
che rende la parte bassa della Calabria il luogo più lontano dal resto
dell’Italia. Non mi viene in mente un altro modo di definire quel luogo. Un nome
che sfugge dallo sguardo subito dopo averlo messo a fuoco, mentre stai andando
da qualunque altra parte. È un non luogo: da quello svincolo o ci si
addentra nella Piana di Gioia Tauro, fino ad arrivare al porto, o si imbocca la
superstrada che porta all’altra costa, venti minuti per passare dal mar Tirreno
al mar Jonio, e in mezzo il nulla. In quella parte della Calabria non c’è che il
nulla e, in più, d’inverno fa freddo, niente a che vedere con l’immaginario
classico del sud: sole, mare e tutto il resto. Nella Piana gli agrumeti e gli
uliveti fanno da padroni.
La raccolta, prima dei mandarini e poi delle arance, è un lavoro duro, ma è ancora un buon modo di fare soldi. Chi ha ereditato un pezzo di terra dai genitori ha evitato quell’emigrazione di massa che ha coinvolto i più e ora ha qualcosa di cui occuparsi. I più capaci hanno sviluppato un sistema semi industriale per riuscire a sviluppare la commercializzazione del loro prodotto, gli altri debbono accontentarsi, usando manodopera a basso costo, di rivendere il raccolto sul territorio. Lavoro duro e malpagato che nessuno vuol più fare. Eppure qualcuno che ancora può fare quel lavoro c’è: sono gli stranieri, gli immigrati, quelli dalla pelle scura (ma più scura di quella dei ragazzotti del luogo), i neri, i negri. Proprio i negri, quelli che arrivano dall’Africa nera, quelli che non hanno niente, che non hanno ancora capito se sono arrivati in Italia oppure chissà dove, che si illudono di essere lì solo di passaggio, prima di approdare nei luoghi della ricchezza e delle comodità. I negri che si accontentano di vivere come bestie. Quelli che, d’altronde, ci sono abituati, quelli che si fanno la capanna con il cartone nei casolari abbandonati o, peggio, per paura di essere derubati dormono tutti insieme, per terra, in una fabbrica abbandonata e data al fuoco qualche anno fa. Gli unici rapporti sono quelli con un parroco di buona volontà. Gli unici luoghi di contatto con il resto del mondo: i supermercati, dove comprare il minimo indispensabile per sopravvivere. Lì c’è l’incontro, lì c’è lo scambio. Ma non ti venga in mente di rivolgere qualche parola di più alla cassiera, altrimenti scoppia il casino: se fino a quel punto, in quel mare di desolazione, i ragazzi del luogo ti avevano solo preso in giro e quando ti incontravano in paese ti scansavano perché i negri puzzano, a quel punto fanno il salto di qualità e ti sparano.
Per carità niente colpi di lupara, basta un fucile ad aria compressa ed eccoti umiliato, non si parla e non si scherza con la donna bianca. Allora non sopporti più, ti sembra troppo, hai voglia di alzare la testa, di dirlo in faccia a quei quattro ragazzotti che tu hai già abbastanza cazzi per riuscire a sopportare quella vita di merda, che quando ti svegli al mattino non riesci a lavarti perché l’acqua è gelida, che durante il giorno, mentre lavori, hai le mani e i piedi rattrappiti dal freddo e, quando hai finito di lavorare, non c’è niente intorno a te che ti renda la vita sopportabile tranne un improvvisato fuoco intorno a cui passare la serata. Non hai più la forza di pensare e sognare una vita migliore di questa, sei solo incazzato con te stesso per esserti infilato, senza sapere come, in un inferno senza vie d’uscita. Il casino, a quel punto, sei tu a cominciarlo, perché – come diceva Fabrizio De Andrè – chi non terrorizza si ammala di terrore. Cerchi di farti sentire. Vuoi far sapere a tutti che non sei più disponibile a fare quella vita; che, anche se hai accettato un lavoro da schiavo, se non sai che cos’è un contratto di lavoro, se non sai che esiste il sindacato, se non pretendi di essere tutelato da uno Stato di diritto che in una parte del suo territorio accetta che esista la schiavitù, hai comunque una dignità e una vita da difendere. Vuoi affermare che non puoi essere scambiato per un tiro a segno, che la tua carne brucia non solo per il freddo che accumuli durante le troppe ore di lavoro, ma perché da troppo tempo il tuo cuore non riesce ad essere riscaldato dai suoni, dagli odori e dagli affetti della tua terra e quindi pompa in circolo solo sangue avvelenato. Rosarno brucia. Il resto dell’Italia è lontana, irraggiungibile.
Mimmo Calopresti il Fatto 9.1.10