La tregua che è stata
invocata nei giorni scorsi, per proteggere da aggressioni l’immagine
dell’Italia durante il G8, introduce nella politica democratica
un’esigenza di immobile quiete su cui vale la pena riflettere. Presa in
prestito dal vocabolario guerresco, tregua significa sospensione delle
operazioni belliche, concordata di volta in volta per stanchezza, timore
del pericolo, subitanee emergenze. Fino alla rivoluzione francese,
scrive Clausewitz, le guerre erano fatte soprattutto di pause: l’ozio
assorbiva i nove decimi del tempo trascorso in armi.
Era «come se i lottatori stessero allacciati per ore senza fare alcun
movimento». Le battaglie smettono quest’usanza quando si fa più possente
il pensiero dello scopo per il quale si guerreggia, giacché solo tale
pensiero può vincere la «pesantezza morale» del combattente. Ma la
tregua non è solo «pesantezza, irresolutezza propria all’uomo».
L’etimologia dice qualcos’altro: perché ci sia tregua efficace occorre
che i lottatori siano leali, che la sospensione sia un patto, che non
sia unilaterale. L’etimologia, germanica, rimanda all’inglese true-vero,
e al tedesco treu-leale, fiducioso.
Verità, fiducia, lealtà, patto: sono gli ingredienti essenziali della
tregua, specie quando dal teatro di guerra ci si sposta a quello di
pace, e quando il concetto si applica alla selezione dei governanti
migliori che avviene in democrazia. Un prorompente atto terrorista, una
calamità naturale, possono comportare la sospensione della
conflittualità propria alle democrazie.
Non per questo vengono sospese la ricerca di verità, la pubblicità
data all’azione dei politici, il contrasto fra partiti, l’informazione
indipendente. Altrimenti la tregua politica altro non è che
continuazione della guerra con altri mezzi, e per essa vale quel che
Samuel Johnson usava dire dei conflitti armati, nel 1758: «Fra le
calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione dell’amore
della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la
credulità incoraggia». Se sostituiamo la parola tregua a guerra,
vediamo che i rischi sono gli stessi.
Quando ha chiesto una tregua, il 29 giugno, il presidente Napolitano non
pensava certo a questo sacrificio della verità. Ma il rischio è grande
che i governanti l’intendano in tal modo: usando il Colle, rompendo
unilateralmente la tregua come ha subito fatto Berlusconi aggredendo
oppositori e giornali. Il conflitto maggioranza-opposizione, le
inchieste giornalistiche o della magistratura sul capo del governo, sono
automaticamente bollate come poco patriottiche, fedifraghe, addirittura
eversive. Questo in nome di uno stato di emergenza trasformato in
condizione cronica anziché occasionale, necessitante la sospensione di
quel che dalla Grecia antica distingue la democrazia: la parresia, il
libero esprimersi, la contestazione del potere e dell’opinione
dominante, il domandare dialogico.
Significativa è l’allergia del potente alle domande, non solo quelle di
Repubblica ma ogni sorta di quesiti: netto è stato il rifiuto di
Berlusconi di permettere domande ai giornalisti, il primo giorno del G8.
Sulla scia dell’11 settembre 2001 Bush reclamò simile tregua, che non
migliorò la reputazione dell’America ma la devastò. Washington si gettò
in una guerra sbagliata, in Iraq, senza che opinione pubblica e giornali
muovessero un dito. La recente storia Usa dimostra che la democrazia
guadagna ben poco dalle tregue politiche, quando i governi possono tutto
e l’equilibrio dei poteri è violato. Il vantaggio delle tregue è la
coesione nazionale: falsa tuttavia, se passiva. Lo svantaggio è la
libertà immolata. Tanto più grave lo svantaggio, se l’emergenza è un
mero vertice internazionale.
Ripensare la tregua e le sue condizioni può servire, perché la tendenza
è forte, in chi governa, a prolungare emergenze e sospensioni della
parresia, rendendole permanenti. Purtroppo la tendenza finisce con
l’estendersi all’opposizione, alla stampa, e anche qui vale la
descrizione di Clausewitz sul cessate il fuoco: che spesso
interviene non perché la tregua sia necessaria, ma perché nell’uomo che
rinvia decisioni c’è pavidità. Perché dilaga «l’imperfezione
delle conoscenze, delle facoltà di giudizio». Perché, soprattutto,
opposizione e giornali non hanno un «chiaro pensiero dello scopo» per
cui si oppongono, analizzano, interrogano. Sono le occasioni in cui la
tregua non è un patto di verità ma una variante dell’illusionismo e
della menzogna.
Ma c’è una condizione supplementare, affinché la tregua si fondi su
verità e fiducia. La condizione è che la memoria resti viva, e non
solo il ricordo del passato ma la memoria del presente, meno facile
di quel che sembri perché essa presuppone un legame tra i frammenti
dell’oggi e aborre la fissazione su uno solo di essi: l’ultimo della
serie. È la memoria di cui parla Primo Levi, quando descrive la tregua
nei campi. Nel Lager, simbolo della condizione umana, esistono
remissioni, «tregue». Ma esse sono chimere se non s’accompagnano alla
memoria di quel che ineluttabilmente avverrà al risveglio, quando
risuonerà il «comando dell’alba»: l’urlo in polacco - wstawac -
che intima di alzarsi.
Meditare attorno all’idea di tregua è fecondo perché aiuta a capire come
deve organizzarsi, in Italia e altrove, la parresia greca che i
latini traducevano con libertas. Parresia è letteralmente
parlare con libertà: un compito che politici e stampa condividono
col medico, che non deve dire tutto alla rinfusa ma andare all’essenza e
fare sintesi. Galeno, medico del primo secolo dopo Cristo, scriveva che
«non si può guarire senza sapere di cosa si deve guarire»: il malato ha
diritto alla verità, detta «senza ostilità ma senza indulgenza».
La tregua anche in Italia ha senso se non si sacrifica il vero. Se non è
solo la stampa estera a indagare sulla nostra singolare apatia etica.
Il mondo dell’informazione non è estraneo a tale apatia, incomprensibile
all’opinione straniera e da essa biasimata. Il difetto, il più delle
volte, è lo sguardo corto: uno sguardo che non collega i fatti, che
sempre si fissa sull’ultimissimo evento, che non scava con la memoria né
nel passato né nel presente. L’influenza della mafia sulla politica, i
cedimenti di quest’ultima, il conflitto d’interesse che consente al
privato di manomettere il pubblico, l’impunità reclamata dai massimi
capi politici, infine la lunga storia italiana di stragi e corruzioni su
cui mai c’è stata chiarezza: c’è un nesso fra queste cose, ma l’ultimo
scandalo da noi scaccia il precedente e ogni evento (buono o cattivo)
cancella il resto.
Lo scandalo delle ragazze a Palazzo Grazioli cancella la
corruzione di Mills, le minorenni di Berlusconi obnubilano la mafia, le
dieci domande di Repubblica cancellano innumerevoli altri quesiti.
Anche l’opposizione si nutre di amnesia: i successi di Prodi (aiuti allo
sviluppo, clima, liberalizzazioni, infrastrutture, accordo vantaggioso
per Alitalia) sprofondano nell’oblio, se ne ha vergogna. Non stupisce
che perfino fatti secondari siano mal raccontati, come fossero schegge
insensate: ad esempio l’assenza dal programma G8 di Carla Sarkozy,
giunta all’Aquila il giorno dopo il vertice. I giornali arzigogolano su
una persona che ha voluto far l’originale, differenziarsi. Nessuno
rammenta l’appello di 13.000 donne italiane - presumibilmente ascoltato
da Carla - perché le first ladies non venissero al G8.
L’Italia come tutti i paesi è una tela, non un’accozzaglia caotica
di episodi. Se non ricordiamo questo quadro non solo le tregue saranno
basate su contro-verità. Si faticherà anche a ricominciare i normali
conflitti e il parlare franco, finita la tregua. Sotto gli occhi
della stampa mondiale appariremo come i lottatori di Clausewitz:
allacciati ininterrottamente l’uno all’altro, senza fare alcun
movimento. |