Chi ha paura della polemica con la Chiesa?
La tempesta mediatica sulla Sapienza dovrebbe essere
l'occasione per un dibattito di merito sui rapporti tra scienza e religione.
Finora ha prevalso il metodo. Non si trattava di organizzare un dibattito col
papa, questo sì sarebbe stato grave impedirlo, ma di decidere l'opportunità che
la Sapienza scegliesse il papa per rappresentare l'inizio dell'anno accademico,
cosa che si può condividere o meno. E a chi avrebbero dovuto rivolgersi i
critici, se non al proprio rettore? Del tutto risibile poi è la lamentela sulla
libertà di parola del Vaticano, quando è risaputo che da noi gode di una
presenza esuberante in tutti i media.
C'è un problema tra scienza e religione? Fanno torto a papa Ratzinger gli
apologeti sia di destra sia di sinistra nel non vedere la novità, non solo
rispetto al Concilio, ma anche rispetto a Giovanni Paolo II, che arrivò a
chiedere perdono per il processo a Galileo, atto complementare alla richiesta di
riconoscimento nella Costituzione europea delle radici cristiane. Si può
condividere o meno quella tesi, comunque in essa Ratzinger introduce uno
squilibrio, quando chiede a gran voce il riconoscimento del primato della
Chiesa, ma senza ammetterne i peccati, riprendendo anzi l'argomento di
Bellarmino sull'accordo tra ragione e fede.
Quando fede e ragione si identificano diventano entrambe più povere. La stessa
religione cristiana viene subordinata in tal modo ad un'esigenza ellenizzante di
coerenza conoscitiva, col rischio di perdere un filone irrazionale certo non
secondario nella sua storia, a cominciare da San Paolo che annuncia Cristo come
scandalo per i giudei e follia per i pagani. La questione non è solo teologica,
poiché in una società secolarizzata la rinnovata voglia di ortodossia porta la
Chiesa a svolgere un ruolo di divisione della comunità civile, proprio oggi,
quando siamo diventati tutti liberali, quando non ci sono più le divisioni
ideologiche novecentesche, né la guerra fredda.
Il conflitto tra Bellarmino e Galilei verteva su ciò che è esterno all'uomo fino
alle sconfinate dimensioni dell'universo. Ma domani il conflitto riguarderà come
siamo fatti in quanto uomini e donne, la natura vivente che ci costituisce. E
sarà lacerante la discussione.
Già oggi è diventato difficile dare una definizione condivisa della natura
umana, già se ne danno diverse e inconciliabili, eppure è molto probabile che di
tutte queste sorrideranno i nostri pronipoti. La Chiesa cattolica pretende di
darne una definizione fissata una volta per tutte e in questo curiosamente sposa
un certo illuminismo di tradizione giusnaturalista e nel contempo rinnova una
vecchia radice intollerante. Ma è lo stesso sviluppo della teologia a smentire
questa fissità, se solo mezzo secolo fa la concezione cattolica della vita era
centrata sulla persona piuttosto che sull'embrione. La confusione del Vangelo
con la biotecnologia è ovviamente un prodotto molto recente e non tra i più
solidi dell'esegesi cristiana.
Ciò nonostante cambierà di molto la nostra concezione della natura umana durante
il secolo. Questo sarà forse il banco di prova più impegnativo della democrazia,
come regola di decisione tra diversi, come risultato di conflitti che generano
riconoscimenti.
Con il suo fiuto millenario la Chiesa ha capito che la sfida decisiva è sulla
scienza del XXI secolo. Tra le organizzazioni non scientifiche essa è quella che
spende maggiori energie organizzative, ideologiche e comunicative per gestire i
risultati della ricerca scientifica, come già abbiamo sperimentato nel
referendum sulla legge sulla procreazione assistita, vinto dalla semplicità
della propaganda cattolica contro l'afasia della comunicazione laica.
Ma lo squilibrio di forze è molto più profondo. E' ormai pienamente sviluppato
un grappolo di rivoluzioni scientifiche che minano alle fondamenta le basi
epistemologiche della modernità seicentesca. Il mondo di Galileo è oggi superato
non dalle frasi di Ratzinger, ma dai nuovi paradigmi delle scienze della vita,
della mente, dell'informazione e della materia, i cui maggiori successi non sono
riconducibili al concetto e al ruolo della legge scientifica della fisica
classica.
All'epoca, la rivoluzione galileiana non rimase confinata alla descrizione della
natura, ma ebbe impatti in tanti altri campi del sapere. La ragione moderna
venne organizzata prima come legge scientifica e poi come legge dello Stato, la
Costituzione fondamentale, e poi ancora come legge filosofica, le categorie
dell'intelletto. Tutto il sistema di pensiero moderno venne modellato su assiomi
fondamentali da cui derivare per deduzione le verità particolari.
Questa mirabile costruzione è travolta perché le nuove scienze del XXI secolo
hanno progredito enormemente, senza che la cultura sia stata in grado di
fornirne una comprensione autentica. Oggi usiamo furiosamente le conseguenze
tecnologiche di queste scienze, ma non si vedono in giro gli Hobbes e i Kant
capaci di proporci nuovi ordini politici e filosofici per capire davvero la
rivoluzione di internet o della post-genomica. E' una di quelle fasi storiche in
cui la potenza di trasformazione sopravanza la capacità di regolare i processi.
C'è un'asimmetria tra la forza della scienza e la debolezza del pensiero. In
questo scarto nasce l'inquietudine contemporanea e il senso di smarrimento,
quella sottile contraddizione dello Sciamano in elicottero, per riprendere un
testo di Marco D'Eramo, che mescola nella confusa postmodernità sia
l'innovazione sia la regressione culturale.
Questo squilibrio apre la strada a due esagerazioni. Da una parte la sicumera di
alcuni settori scientifici e soprattutto tecnologici, i quali, sapendo di essere
più avanti, spargono le illusioni di magnifiche sorti e progressive,
riproponendo tra tutte le culture scientifiche il più consunto positivismo,
anche se ormai molto invecchiato rispetto alla complessità dei loro saperi.
Dall'altro estremo la Chiesa cattolica si offre di sanare lo squilibrio con la
subordinazione della ragione alla fede. Si parla di integralismo,
fondamentalismo, oscurantismo, ma sono tutte parole fuori gioco. Il lessico
distratto dei laici è inadeguato a descrivere l'ambizioso progetto
ecclesiastico. Esso opera dentro la grande contraddizione contemporanea,
avendone avvertito per primo la portata e il significato, con l'ambizione di
guidare il futuro conservando il passato, come seppero fare i grandi papi della
Controriforma.
Il problema alla fine non è Ratzinger, ma l'impreparazione della cultura laica
di fronte a queste sfide. Il continuo scivolare verso la facile risposta del
libero confronto di opinioni, anche senza avere alcuna opinione. La rimozione di
domande forti a favore di banali problemi di metodo. La paura di un vera
polemica con la religione, dimenticando che i frutti migliori della cultura
occidentale sono quasi tutti concetti religiosi secolarizzati, cioè proprio il
frutto di questo scontro di idee, che oggi potremmo gestire più serenamente non
essendoci più né roghi né inquisizioni.
La polemica religiosa quando è creativa di tensione culturale e ispirata ad un
avanzamento dello spirito pubblico è sempre una risorsa per la civiltà di un
popolo. Colpisce, al contrario, l'unanimità della politica laica nel condannare
i professori di scienze, nel prendere sdegnosamente la distanza da loro,
nell'affannarsi a chi la sparava più grossa per non correre il rischio di essere
accusati di anticlericalismo. In quell'aderire compatta alle ragioni del
Vaticano la cultura laica è apparsa in tutta la sua debolezza, come un pugile
suonato che, allo stremo delle forze, abbraccia l'avversario nella speranza di
non cadere al tappeto. E gran parte della classe politica mentre quasi si
commuoveva per Mastella trovava l'unanimità per rampognare i professori.
Così in questo bizzarro Paese, in cui ogni giorno agiscono indisturbati mafiosi,
inquinatori, evasori fiscali, arricchiti a spese del bene comune, politici
corrotti e imbroglioni di ogni risma, in questa babilonia di illegalità e di
arroganza, sono finiti sul banco degli imputati un gruppo di scienziati. Conosco
personalmente gran parte di loro, sono ricercatori che danno prestigio
all'Italia nel mondo nonostante il cattivo esempio di gran parte della classe
dirigente, sono formatori di giovani brillanti costretti ad andarsene perché qui
la ricerca non si può fare, sono persone miti e anche un po' ingenue al
contrario di molti furbacchioni che li hanno accusati, sono dipendenti dello
Stato che dedicano tutte le loro energie dalla mattina alla sera ad educare i
nostri giovani non solo alla scienza, ma alla democrazia e al bene comune. Sono
eroi civili di un Italia che neppure sa di averli come risorsa per il futuro.
Sono stati messi all'indice come cattivi maestri. Mai come oggi la povera Italia
avrebbe tanto bisogno di questi cattivi maestri.
Walter Tocci Il manifesto 22/01/2008
Direttore del Crs, deputato Pd