Chi ha paura della fine del mondo
C'è chi dice il mondo ha
davanti cinquant'anni di vita anno più anno meno.
C'è chi dice l'umanità ha davanti cinquant'anni di vita
anno più anno meno.
C'è chi dice la vita ha davanti cinquant'anni anno più anno
meno.
Questo dicono donne e uomini di grande cultura e di grande
scienza.
Non dicono «per come l'uomo nel tempo ha concepito e
strutturato il proprio concetto di vita ebbene quella vita tra cinquant'anni
anno più anno meno finirà».
La parte si erge al di sopra di tutte le altri parti e ne
sancisce la fine.
Vale a dire che una parte della vita, l'uomo, sancisce
quando finirà la vita: la parte sentenzia per il tutto, la parte si fa dio
creatore e dio distruttore.
C'è molto orgoglio in tutto questo e l'orgoglio tra i vizi
capitali è il peggiore e c'è moltissima presunzione peggio moltissime
presunzioni che sono figlie sciocche dell'orgoglio.
Io stesso in questo momento sto facendo pratica di orgoglio
e di tanta presunzione poiché io non so se davvero il mondo abbia davanti
cinquant'anni anno più anno meno e nemmeno so il contrario, ma non credo che
possa essere l'uomo a determinare la fine della vita intesa come il tutto e mi
pare più credibile che al massimo dei massimi nella sua presunzione l'uomo possa
determinare la fine della sua specie che non è la fine della vita.
Questa presunzione che è «naturale» tra gli umani di tutti
i nord del mondo non di rado, quasi sempre, diventa cultura e coltura per gli
umani di tutti i sud del mondo che a quella «naturalezza» ambiscono e tendono.
Stando così le cose e io ho la presunzione di ritenere che
così stiano, ebbene in verità mi dico - epistemologia ed ermeneutica del sé cioè
mia di me - che se l'uomo avesse la buona grazia di cavarsi di torno, di
estinguersi il mondo ne avrebbe da guadagnare.
La specie umana non è fondamentale per la nascita e la
crescita e la continuità della vita e questo è stato vero e inoppugnabile per
centinaia di milioni di anni.
La vita, tutto ciò che è vita e che è il tutto, per
converso è fondamentale per la continuità del genere umano purché l'uomo inteso
come specie sappia trovare e mantenere un rapporto di armonia e in armonia con
la vita tutta, pari tra pari, senza orgogli senza arroganze senza presunzioni.
Per me credere in dio - e la d maiuscola proprio non serve
poiché il mio dio non è ascendente né discendente, è trascendente senso che
scende tra e sta per ed è tutto ciò che vive - significa credere nella vita e
cioè e in egual misura nel mondo animale e nel mondo vegetale e nel mondo
minerale e nel tempo e nello spazio e nell'universo cosmo.
Il gatto mi miagola che non ha paura della finis terrae.
Il merlo mi fischia che non ha paura della finis terrae.
La rondine mi zirla che non ha paura della finis terrae.
Il papero selvatico sull'onda alta del mare salentino mi
quaquacchera che non ha paura della finis terrae.
Le piante e i fiori e le erbe e i muschi e i licheni e le
felci mi sussurrano che non hanno paura della finis terrae.
Le pietre mi ciottolano che non hanno paura della finis
terrae.
Le acque mi gorgogliano che non hanno paura della finis
terrae.
Il cielo e la luce e il buio e l'immensamente piccolo e
l'infinitamente grande mi dicono che non hanno paura della finis terrae.
Ebbene, io credo che, se proprio non può farne a meno,
l'uomo debba avere una sola paura: di se stesso e per se stesso per negarsi e
per negare la sua parte che parte è del tutto: che è vita.
Poi, Kyoto: vieni avanti cretino.
Ivan Della Mea il manifesto 11/08/2006