Chi ha ancora paura
del Concilio
Chi ha paura del Concilio Vaticano II? A cinquant'anni esatti dall'annuncio di
Giovanni XXIII, lo
storico Alberto Melloni e il teologo Giuseppe Ruggieri si misurano con una
domanda che non è
retorica. La paura sollevata dal Vaticano II, spiegano nel volume collettaneo in
uscita da Carocci, ha
una lunga storia. Nacque insieme allo stesso annuncio, accolto il 25 gennaio del
1959 con
l'"impressionante e devoto silenzio" dei cardinali. Continuò per tutta la durata
delle celebrazioni,
manifestandosi attraverso "un ostruzionismo metodico" alle direttive papali.
Persiste oggi, mezzo
secolo dopo, tra i nostalgici del vecchio regime, che non casualmente attaccano
l'opera che l'ha
meglio raccontato, la Storia di Giuseppe Alberigo, lo studioso recentemente
scomparso (Chi ha
paura del Vaticano II?, con saggi di Peter Hünermann, Joseph A. Komonchak,
Christoph Theobald,
pagg. 152, euro 16,50).
Quel che fa paura, dicono i due studiosi, è la novità. Allora come oggi.
Allora la novità era incarnata
dallo stesso pontefice, "un semplice cristiano capace di toccare il cuore della
gente", incline a
sostituire "la severità" con "la medicina della misericordia". E la novità
era rappresentata anche da
una visione della Chiesa non più "organizzazione gerarchica di diseguali" ma
"comunione di eguali
in dignità". E oggi, cosa fa più paura? «Non è un caso, sostiene Melloni,
«che il punctum dolens sia
ancora la liturgia, cioè il punto dal quale il Concilio cominciò, disincrostando
il culto divino dalle
superfetazioni devozionali, dal sentimentalismo e soprattutto dall'idea che la
celebrazione potesse
ridursi a teatro nel quale alcuni assistono ed altri partecipano». La liturgia
in sostanza cessò d'essere
"rito della separazione castale", diventando "esperienza e atto di comunione"
che regola l'intera vita
della comunità. «Per questo ancora oggi la liturgia è il discrimine vero, anche
dentro la Chiesa, tra
due modi di vivere l'esperienza cristiana. Da una parte la Chiesa più
movimentista, di piccoli gruppi
di persone che si scelgono, ispirate dal carisma di un fondatore, persuase della
propria qualità
superiore: celebrano la messa ma non si definiscono a partire da lì, ma da ciò
che fanno e come lo
fanno. Dall'altro c'è il grosso delle comunità cristiane, che vivono
nell'anonimato della vita
parrocchiale, curate da preti che non fanno carriera e nessuno chiamerà mai in
Tv». Questo è il
grande corpo ecclesiale che il Concilio voleva rivitalizzare, «molto più
somigliante alle turbe dei
peccatori nelle quali Gesù si mimetizzava».
Oggi la paura del Concilio si annida in chi crede si debba riportare
indietro l'orologio della storia.
Riproporlo con forza significa dunque invocare un rinnovamento della
Chiesa, ossia la capacità di
parlare all'oggi, "alla storia che c'è, non a quella che c'era". Il Vaticano II
questo l'ha fatto. L'ha fatto
così bene, sostengono i curatori del volume, che rimane lì, cinquant'anni dopo,
a misurare la Chiesa
di oggi: i suoi desideri e le sue paure. Non è un caso che fioriscano nel paese
anche "iniziative dal
basso", come l'università popolare promossa da Luigi Pedrazzi, storico fondatore
del Mulino,
proprio per riproporre la parola di papa Roncalli nelle case: letture e
discussioni all'interno di
abitazioni private per conoscere meglio quel pontefice che rinunciò all'istituto
dell'anatema, anche
questa scandalosa novità.
Gli oppositori di papa Giovanni confidarono in un concilio che riassumesse tutte
condanne condanna
del comunismo, del liberalismo, dell'evoluzionismo, del neomodernismo, del
socialismo.
Mentre il pontefice impone un concilio di tipo nuovo, che non pronuncia
nessun anatema. E
costringe a ripensare il modo in cui dire il Vangelo agli uomini contemporanei,
interrompendo una
routine nella quale ci si era appisolati. «Mezzo secolo dopo»,
sintetizza Melloni, «c'è chi avrebbe
voglia di una pennichella, ossia limitarsi a dire ripetuti "no!" e non
impegnarsi nel comunicare il
Vangelo come Vangelo».
Quello del Vaticano II è ancora lo "stile" con cui le attuali gerarchie vogliono
misurarsi con la
modernità? «"Stile" è la parola chiave: c'è una grande opera di Christoph
Theobald, un gesuita di
Parigi, che insiste sul valore di questa espressione, lo stile appunto, che
spiega perché non tutti - e
nemmeno tutte le forme della Chiesa che si trovano nella Storia - sappiano
esprimere con la stessa
forza l'eloquenza del Vangelo».
Simonetta Fiori la Repubblica 21 gennaio
2009
Il cinquantesimo anniversario del Vaticano II
Giovanni XXIII La rivoluzione di un papa contadino
Apparve all'orizzonte come «un Papa di transizione»: chi scrive ricorda di avere
udito questa
definizione dalla voce grave di un autorevole storico il giorno stesso
dell'elezione papale del
cardinal Roncalli. Ma in quell'ambiente di scuola ci fu uno studente che fece
notare un gesto per
quei tempi assai inconsueto: il saluto che da patriarca di Venezia il cardinal
Roncalli aveva rivolto ai
socialisti italiani riuniti a congresso nella sua città. Le cose che seguirono
corressero e chiarirono:
soprattutto, aprirono una quantità di nuove questioni per la Chiesa cattolica,
per l'Italia e per il
mondo. Per questo da allora si torna periodicamente a chiedersi chi fosse in
realtà Papa Roncalli.
Non solo nell'ambito cattolico.
Ed è per questo, evidentemente, che un editore non sospetto di clericalismo come
Einaudi ha aperto
la sua collana di storia a un libro di uno studioso che da tempo si occupa della
raccolta, dell'edizione
e dello studio del corpus di fonti che riguardano Papa Giovanni XXIII e il
Concilio Vaticano II
(Alberto Melloni, Papa Giovanni. Un cristiano e il suo concilio, Einaudi, pagg.
348, euro 30). Iltitolo del libro risponde alla domanda che ci poniamo. È una
risposta solo apparentemente sommessa: un cristiano. Certo, un cristiano un po'
speciale, uno che ha avuto un suo concilio. Ma pur sempre un cristiano. La
parola, logorata dall'uso popolare come sinonimo di essere umano, qui è
aggressivamente ri-semantizzata. Assume il senso di cristiano dalla esemplare
normalità, tutto
calato nel filone centrale di una religione millenaria, abbeverato alle fonti di
una spiritualità antica e
perenne che va dalla Bibbia agli Esercizi spirituali di Sant'Ignazio ai modelli
antichi e recenti della
cura pastorale tridentina.
Ma il lettore comune può anche tradurla nella locuzione di «vero cristiano», nel
senso in cui la usò
Hannah Arendt nel 1965. Recensendo il Giornale dell'anima, l'opera che
rappresentò un clamoroso
successo editoriale, Hannah Arendt si chiese come fosse potuto accadere «che un
vero cristiano si
sia seduto sulla cattedra di S. Pietro». Che cosa sia un «vero cristiano» è
materia che lasciamo
volentieri ad altri. Oggi per la Chiesa cattolica papa Roncalli è ufficialmente
un santo, attributo più
o meno equivalente a «vero cristiano». Certo, la santità appartenendo al papa
per definizione,
l'attributo speculare della santità del «vero cristiano» pone in qualche modo a
rischio l'uso del titolo
rituale del papato.
Ma restiamo alla domanda della Arendt. È a lei che risponde oggi Melloni dopo
cinquant'anni di
discussioni e dopo un paziente lavorio non solo suo sulle fonti roncalliane (di
cui il lettore ha un
saggio nella sezione conclusiva del libro); ma la sua risposta va soprattutto a
quel mondo cattolico
che non ha digerito la svolta del concilio. Il libro nasce e si pone all'interno
della Chiesa cattolica
del post-concilio e delle tensioni intorno all'eredità lasciata da quel
concilio: da un lato i
tradizionalisti del confuso arcipelago lefebvriano che hanno attaccato
esplicitamente Roncalli come
uno strumento della perenne congiura giudaica contro la Chiesa; dall'altro
coloro che ne hanno
rimpicciolito le dimensioni a quelle di un santino edificante, un «papa buono»
(singolare aggettivo,
se si pensa a tutti gli altri papi). Ma è facile intuire che non sono i
nemici più rumorosi ed
esplicitamente indicati quelli che preoccupano l'autore. Se è così urgente per
Melloni rintracciare
dietro l'evento conciliare un progetto non impulsivo né casuale del pontefice è
perché tutta l'eredità
del concilio gli appare al centro di incertezze sostanziali e di interpretazioni
riduttive.
È istruttiva una breve guida ai giudizi sul Vaticano II pubblicata in questi
giorni dallo stesso Melloni
insieme a Giuseppe Ruggieri (Chi ha paura del Vaticano II?). Se già nel 1972 in
uno sconfortato
bilancio di Paolo VI si affacciò il timore che da qualche fessura fosse entrato
nella Chiesa il «fumo
di Satana», gli atti e i documenti dei pontificati successivi hanno riportato in
auge gli strumenti e le
condanne dottrinali dell'antico Sant'Uffizio in un clima di sospetto, con
fratture a catena nella rete
del dialogo tra chiese e religioni e con iniziative di aggressivo integralismo
nella società civile: lo
sanno bene gli italiani, condannati dalla fragilità delle loro istituzioni
statali e dalla pavidità delle
forze politiche a subirne quotidianamente le conseguenze.
Melloni ha studiato il cristiano Roncalli in funzione del concilio. E ha
scartato il genere biografico
per non seppellire nei dettagli quel punto d'arrivo che gli sta a cuore: la
ricerca sulla genesi della
svolta storica che portò dal cattolicesimo dei «profeti di sventura» e degli
anatemi contro i tempi
moderni all'apertura confidente verso quella che papa Roncalli definì la
famiglia umana «nella sua
più ampia composizione e armonia». Si trattò forse di una frattura con la
tradizione, come vogliono
gli accusatori espliciti e quelli silenti? Melloni lo nega: di più, sottolinea
come di quel cattolicesimo
tridentino e dei suoi esiti di conflitto col mondo Roncalli fosse stato il
frutto docile, l'apprendista
fedele. Era stato sotto il segno della pastoralità severa di Carlo Borromeo che
il figlio di una
famiglia contadina del bergamasco si era visto aprire col seminario la porta di
accesso alla cultura: e
qui si era manifestato subito il suo attaccamento alla tradizione, non solo a
quella antica delle fonti
originarie del cristianesimo ma anche a quella degli ultimi secoli.
Potremo dunque vedere l'avvio tridentino-borromaico e gli esiti
dell'«aggiornamento» conciliare
come i punti estremi di una linea retta? Le linee di una vita non sono mai
rette. Anche quella di un
uomo come Roncalli, dotato di una indiscutibile e commovente fedeltà alle sue
origini conobbe
svolte e fratture. Una svolta fu la scoperta della ricerca storica. Fu nel
seminario che Roncalli scoprì
il fascino di una «cultura erudita ed elitaria», ha scritto Francesco Mores
(Angelo Roncalli chierico
e storico a Bergamo, Edizioni di storia e letteratura). E la scoperta delle
fonti, di quelle storiche
insieme a quelle della spiritualità cristiana, in primo luogo la Bibbia, avvenne
sotto il segno di
Louis Duchesne e di John Henry Newman. Da quegli autori la condanna del
Modernismo, che lo
sfiorò personalmente, lo costrinse ad allontanarsi. Ma la convinzione che un
patrimonio di fede può
restare fedele a se stesso solo se è capace di interpretare i segni dei tempi
doveva lasciare qualche
traccia.
Seguì il trentennio di esplorazione del mondo con gli incarichi nella diplomazia
vaticana che portarono Roncalli a Sofia, a Istanbul e a Parigi. È nei contatti
con altre culture cristiane che Melloni rintraccia le radici del progetto del
concilio. Quella intenzione che si palesò a sorpresa
subito dopo l'elezione papale non era dunque il frutto di una decisione
improvvisa, né aveva niente
a che spartire con le speculazioni vaticane sul come chiudere quel concilio
Vaticano I che era stato
interrotto dalla breccia di Porta Pia mentre la proclamazione del dogma
dell'infallibilità papale
apriva altri tipi di fratture. La natura del concilio di Roncalli si era
precisata nella sua mente in
direzione del tutto diversa. E più delle schermaglie con gli ambienti curiali
sull'uso del latino, ne è
documento l'allocuzione Gaudet Mater Ecclesia, qui attentamente studiata. Ma lo
è anche, sul più
ampio scenario del rapporto col mondo, il celebre discorso fatto da papa
Roncalli la sera dell'11
ottobre 1962 alla folla romana raccolta in piazza San Pietro. In quella Roma
della «dolce vita»
felliniana, sullo scenario di un mondo inquieto e in rapido mutamento dove un
presidente cattolico a
Washington si preparava ad affrontare la crisi dei missili di Cuba, fu un papa
nato nel mondo
contadino dell'800 a trovare le parole più ricche di echi per esprimere il
desiderio di pace di tutti gli
«uomini di buona volontà».
Adriano Prosperi la Repubblica
21 gennaio 2009